società digitale

Digitale e democrazia: quattro quesiti per comprendere dove stiamo andando

Perché l’enorme conoscenza di cui disponiamo non fornisce risposte alla domanda di sicurezza? Perché in un mondo sempre più aperto cresce l’intolleranza? La Cyberwar è una minaccia o una realtà? Quale democrazia? Sono questi i quesiti a cui neanche gli studiosi più agguerriti riescono a dare risposta certa. Vediamo perché

Pubblicato il 21 Mag 2019

Mario Dal Co

Economista e manager, già direttore dell’Agenzia per l’innovazione

surveillance-capitalism

Sicurezza, intolleranza, conflitto, democrazia. Si sviluppa intorno a questi quattro ambiti la riflessione di molti esperti, legata a doppio filo con le conseguenze e i quesiti irrisolti della digitalizzazione della società.

Una riflessione la cui urgenza è sospinta in primo luogo da una considerazione sull’indebolimento intrinseco del sistema rappresentativo: il progressivo deterioramento del rapporto tra rappresentati e rappresentanti, perno della democrazia, ha qualche relazione con l’ideologia libertaria che ha accompagnato lo sviluppo di internet fin dalle origini.

In secondo luogo, la fragilità delle democrazie liberali, che pure hanno prodotto la rete e i giganti che su essa producono prodigiosi profitti, appare crescente alla luce del fatto che i regimi illiberali e autoritari controllano la rete e quindi sono attivi ed efficaci nella cyberwar.

La cronaca dimostra che la guerra cyber è già in corso e densi studi dimostrano che, a fianco delle straordinarie opportunità offerte, la rete manifesti crescenti criticità dovute all’abuso della posizione dominante dei colossi dell’advertising e dell’e-commerce, abuso che si manifesta in due direzioni, nel prezzo dei servizi da un lato e nella concentrazione di potere contrattuale che porta questi giganti a disporre in modo pressoché illimitato dei dati relativi alla nostra vita. Non solo alla nostra vita on line.

Questo mio contributo si sviluppa quindi intorno a quattro quesiti a cui vengono date risposte a volte esitanti, anche dagli studiosi più agguerriti.

Perché l’enorme conoscenza di cui disponiamo non fornisce risposte alla domanda di sicurezza?

Un senso di insicurezza si diffonde nella nostra esperienza quotidiana, nonostante il progresso economico, scientifico e tecnologico porti con sé crescenti conoscenze e maggiori certezze. Spesso queste maggiori certezze sono relative a rischi, come quelli ambientali, che prima ignoravamo.

Sappiamo di più, ma non sappiamo che fare, soprattutto non sappiamo quanto affidarci alle iniziative delle istituzioni che ci governano o quanto confidare nella responsabilità individuale. La seconda strada, invocata da molti, è infestata dai free rider (quelli al volante sono l’equivalente dei banditi che minacciavano le diligenze): il loro comportamento opportunistico è fonte di frustrazione sociale, perché non sono sanzionati, pur sapendo tutto di loro dalla cronaca e dai video. La frustrazione produce instabilità e insicurezza.

E’ noto che la speranza di vita si sta allungando e che malattie considerate incurabili oggi possono essere affrontate con successo, come nel caso dell’AIDS e in molti casi di neoplasie. Ma queste maggiori conoscenze, introducono non solo certezza, ma anche insicurezza: quale è la cura, se davvero si può intervenire? Dove scelgo di farmi curare? Sarò in grado di ottenerla e di farlo in tempi utili? L’allungamento della speranza di vita porta conseguenze sulle condizioni delle famiglie, non solo per i membri che avanzano negli anni e magari diventano non più autosufficienti, ma anche per gli altri membri, il più spesso donne, che devono assisterli. Anche qui il progresso porta incertezza e insicurezza.

Nel tempo libero gli strumenti del turismo elettronico (prenotazioni, biglietti, visite virtuali, localizzazioni, valutazioni) ci offrono possibilità impensabili anche solo qualche estate fa. Ma ottimizzare e non fare sbagli crea nuova ansia: l’esito sembra nelle nostre mani, anche per gli eventi meteorologici e le catastrofi, e questo crea senso ansia e l’ansia crea insicurezza.

I nostri figli o nipoti hanno molte opportunità, la loro agenda è fitta come quella di un dentista. Ma la loro gestione è nelle nostre mani: la scuola perde peso anche per questo motivo, ma l’angoscia prestazionale non ricade solo sui bambini, ma anche sui genitori che si arrabattano per far quadrare agenda e budget, attaccati al telefonino per entrambi: anche qui l’angoscia produce insicurezza. Non dobbiamo allora stupirci se le donne, già discriminate nel trovare lavoro e nella paga, non hanno intenzione di fare più di un figlio o poco più in media.

Perché in un mondo sempre più aperto cresce l’intolleranza?

La rete ci mette in contatto con il mondo: oggi in pochi minuti ho accesso a fonti e informazioni che mi consentono di raccogliere più conoscenza di quanta confluì nella mia tesi di laurea, per la quale lavorai più di un anno. Ma nella rete si creano anche eco chamber che possono isolarti dal confronto e dal dialogo, richiudendoti in un microcosmo di simili, riottosi al confronto, ringhiosi nei confronti di chi viene additato come nemico. Abbiamo scoperto che l’insicurezza cresce rigogliosa anche negli angoli più riparati della nostra esperienza di vita, per questo l’astio di fronte a idee diverse, invece di ridursi grazie alla possibilità di dialogo, che pure la rete ci offre, aumenta per l’uso distorto che ne facciamo, travolti nelle cybercascade e sviati dalle fake news che le alimentano.

Cass Sunstein, studioso di diritto e di economia comportamentale a Harvard, nel suo bel saggio del 2017 (#Republic: la democrazia nell’epoca dei social media, Il Mulino 2017) insiste sulla diversità di opinioni come momento fondante della democrazia deliberativa, ossia della democrazia che non fa semplicemente la conta dei voti, ma intende promuovere la consapevolezza e la capacità di controllo degli elettori e insieme alla capacità di decisione attenta, informata, responsabile, da parte degli eletti. Per l’informazione e la regolazione era nello staff del presidente Obama reduce dalla prima campagna presidenziale veicolata in rete per raggiungere i giovani con successo.

Ma è stato ancor più sorprendente si rivelerà, qualche anno dopo, il successo della campagna del candidato Trump, esercitata a tutto campo e con il ricorso alle tecniche di condizionamento più spregiudicate, che hanno fatto scuola nella comunicazione social, più della Lega che del Movimento 5 Stelle che ci era arrivato per primo.

Gli esempi del distacco totale della realtà rispetto alla narrazione sono molti e significativi. Se torniamo a Trump, egli promise di promuovere il carbone per conquistare i voti dei minatori e ci riuscì, ma il 2018 sarà l’anno con più basso consumo di carbone negli ultimi 39 anni (EIA), perché il trend tecnologico ed economico è quello e non cambia in base alla narrativa del candidato. Promise che il taglio delle tasse si sarebbe autofinanziato attraverso la maggiore base imponibile dovuta alla crescita, ma, nonostante la crescita sia sostenuta, il disavanzo statale sta aumentando in misura critica. Fatte le debite proporzioni, anche il nostro governo ha fatto promesse sui rimpatri che la realtà ha clamorosamente smentito. Ha creato obiettivi fasulli, come la riduzione dei migranti, che non solo era questione irrilevante rispetto ai problemi nazionali, ma in realtà era già avviata dal precedente governo e dalle condizioni geopolitiche, ha speso ulteriori risorse in deficit per rilanciare l’economia, che si è avvitata anche per effetto dell’aumento dei tassi di interesse che il maggior deficit ha determinato.

La Cyberwar è una minaccia o una realtà?

Questi esempi dimostrano come il tema della democrazia e dell’autorità del governo siano al centro dell’agenda politica, non necessariamente di quella offerta dai partiti neppure di opposizione, ma quella di chi intende intende preservare la democrazia liberale. Anche perché, se possiamo considerare successi elettorali quelli raccolti da Trump o dai Cinquestelle o dalla Lega, non per questo l’uso spregiudicato dei social network e della rete che li hanno premiati hanno restituito credibilità al sistema politico e ai governi: si è spostato il consenso, ma questo non comporta che chi governa ha più credibilità e capacità di prima.

Innanzitutto la difesa dagli attacchi di agenzie e governi che hanno interesse a destabilizzare paesi e governi avversari o competitori rimane questione aperta. Lo ha dimostrato nel suo convincente studio della vicenda Ucraina-Russia Timothy Snyder (La ragione e la paura, Rizzoli 2018) la cui conoscenza di molte lingue in particolare dell’Est Europa, gli ha consentito un accesso diretto ai contenuti, spesso effimeri, della rete. Il nuovo presidente Volodymir Zelinsky qualche mese prima delle elezioni provò a lanciare il suo sito internet che fu imediatamente sommerso da un attacco DDOS con 5 milioni di richieste che portarono all’immediato isolamento in rete. Fu solo l’inizio. Zelinsky conosce i fatti riportati da Snyder, la cui ricostruzione spiega anche il ruolo della Russia di Putin nello sviluppo dell’ondata antieuropea che ha travolto il Regno Unito e che molti partiti, compresi quelli al governo nel nostro Paese, cavalcano. La storia della Brexit dovrebbe rendere prudenti gli amici di Putin che attaccano la Commissione e le istituzioni europee in nome dei popoli sovrani e delle monetine nazionali.

Ai partiti oggi al governo nel nostro Paese va tuttavia riconosciuto che, per strade diverse e con diverso esito, essi sollevano nei fatti la questione centrale del rapporto tra democrazia e rete. Un tema che va oltre gli aspetti tecnologici e coinvolge l’essenza del “colloquio democratico” e del rapporto tra rappresentati e rappresentanti, ossia del luogo che rappresenta il perno della democrazia rappresentativa.

Sull’altra sponda dell’Atlantico, le Conclusioni del Consiglio Speciale di Investigazione presieduto da Robert Mueller hanno sollevato sulle connessioni tra Trump e la Russia durante il periodo delle elezioni dubbi gravissimi. Ma l’Attorney General William P. Barr con una banale operazione di taglia e incolla ha cercato di nascondere questi dubbi, che indicando con chiarezza la gravità delle iniziative che la Russia ha avviato per condizionare le elezioni americane (NYT 20 April 2019).

Ma la guerra ormai è aperta: durante le elezioni americane di midterm (novembre 2018) il Cyber Command della difesa americana ha attaccato e bloccato l’Agenzia internet di S. Pietroburgo, che svolge attività di hacker internazionale (“la fabbrica di troll”) al fine di prevenire attacchi e manipolazioni durante le elezioni. E la Russia sembra aver accelerato sulla creazione di una propria autonoma rete internet. Questo è quello che teme l’opposizione, per la quale internet, come è già successo nelle primavere arabe e altrove nel mondo, rappresenta uno spazio di comunicazione che elude i controlli del potere. Di nuovo internet è centrale nella ridefinizione dello spazio della democrazia moderna.

Per questo motivo è importante il lavoro fatto dal gruppo di Tallinn per definire un quadro normativo dello spazio cyber come spazio di potenziale conflitto tra gli Stati: il diritto in tempo di guerra è parte essenziale del quadro di una democrazia liberale, per non tornare al devastante “silent leges inter arma” di Cicerone, ossia alla violazione di ogni legge in tempo di guerra. Quel manuale indica un metodo di lavoro, ma anche una strada che raggiunge alcune prime importanti stazioni. Ne ricordiamo alcune.

Un ragionato esame del concetto di sovranità, che dimostra come esso sia oggetto di continua ridefinizione nel diritto internazionale, a differenza di chi si appella a tale concetto come ad un dato immutabile.

Il tema della due diligence, ossia della responsabilità che un Stato ha, nell’assicurare che il suo territorio (l’oggetto della sua sovranità) non ospiti attività che danneggiano altri Stati: “Uno Stato deve esercitare la dovuta diligenza per impedire che il suo territorio, o l’infrastruttura cyber sotto controllo governativo, sia utilizzata per operazioni informatiche che investono i diritti di altri Stati o possono a loro produrre gravi conseguenze negative”.

Questo tema da solo ridimensiona ogni pretesa di ritorno al passato all’interno dello spazio europeo, che si conferma essenziale per la sopravvivenza della democrazia in paesi relativamente piccoli come il nostro.

Il Manuale affronta il tema della giurisdizione, anche qui affrontando la specificità delle attività cyber con gli strumenti che si sono evoluti nel diritto internazionale riguardante ad esempio il mare, lo spazio, l’aviazione. Uno dei punti irrisolti, ad esempio, è quello della giurisdizione su un cittadino che commette attività illegali in un altro Stato: la giurisdizione del suo Stato di origine si limita alla sua persona o coinvolge anche i dati che egli ha prodotto?

Il Manuale affronta la responsabilità di uno Stato: “Lo Stato ha la responsabilità internazionale di un atto cyber che è attribuibile allo Stato e che costituisce una violazione di un obbligo legale internazionale. Né il danno fisico né l’offesa sono necessari per qualificare un atto informatico come internazionalmente illecito e la geografia non è decisiva nel determinare la responsabilità dello Stato”.

Il Manuale è esempio di un processo di normazione che, come accade sempre più spesso, travalica la dimensione dello Stato nazionale e cerca una strada per gestire il conflitto senza precipitare nella abolizione di ogni legge. Questo travalicamento della logica dello scontro all’eliminazione è la ragione stessa della costruzione europea e di altre istituzioni essenziali alla stabilità (Fondo Monetario Internazionale, OCSE, Banca Mondiale, ONU e sue agenzie, oltre a tutti gli organismi di standardizzazione tecnica e di regolazione settoriale internazionale). Come abbiamo visto, anche sotto il profilo della cyberwar, il processo di contrasto alle azioni di attacco richiede l’adesione dello Stato ad accordi internazionali e l’applicazione di procedure di reciprocità e mutuo riconoscimento, senza le quali non è possibile risposta.

L’Europa è attiva sul fronte della tutela dei diritti digitali dei cittadini. E’ attiva sul fronte dello scambio di informazioni tra gli Stati. E’ attiva sul fronte delle procedure di responsabilizzazione delle organizzazioni che trattano dati del pubblico. Il livello della produzione normativa europea è elevato: il suo contributo alla creazione di un contesto non corporativo e al superamento delle tipiche arretratezze e confusioni delle norme italiche è decisivo. Non sono cose marginali: i diritti digitai non sono altro che i diritti fondamentali, poiché digitale è ormai ogni aspetto della nostra esperienza di vita. E di più lo sarà quella dei nostri figli.

Quale democrazia?

Alcune risposte a questa domanda sono contenute nei contributi che abbiamo citato: Snyder suggerisce di attrezzarsi per contrastare le interferenze degli Stati autoritari, come la Russia, che hanno tutto l’interesse a dimostrare che la pacifica costruzione europea, con la sua attenzione ai diritti dei cittadini e dei consumatori, va contrastata perché con la sua rule of law mette in risalto le ferite che l’autoritarismo infligge alla libertà quando trasforma i cittadini in sudditi. Sunstein propone di sviluppare la democrazia deliberativa dando voce alla partecipazione dei cittadini. Snyder invita a fronteggiare la minaccia russa con politiche forti dell’Europa, non solo sul piano della cyberdefence.

Zuboff e capitalismo di sorveglianza

Ma la risposta più drammatica, è contenuta nel brillante ed eloquente volume di Shoshana Zuboff, The Age of Surveillance Capitalism. The Fight for a Human Future at the New Frontier of Power, Public Affairs ed. NY, 2019.

Nel Surveillance Capitalism la divisione del lavoro è soppiantata, come motore della crescita economica, dalla divisione della conoscenza che viene “privatizzata” dalle grandi corporations della rete, in particolare da Google. Si percepisce fin dai primi capitoli che la Zuboff appartiene a quella nutrita schiera di americani che hanno amato Apple incondizionatamente e che temono ora che anch’essa, insieme ad Amazon, precipiti nel gorgo del Surveillance Capitalism capitanato da Google e Facebook.

Ma è soprattutto a Mountain View dove l’autrice coglie il passaggio dalla fase eroica, e squattrinata del motore di ricerca in cerca di guadagni, alla fase dell’esplosione di Ad Words e Ad Sense, le macchine pubblicitarie che hanno prosciugato l’editoria classica (giornali e tv) attraverso l’intelligenza artificiale, gli analytics, i big data, la geolocalizzazione, la profilazione dinamica degli utenti e delle loro interazioni.

E’ nel passaggio dall’applicazione degli algoritmi neurali dal motore di ricerca all’analisi delle interazioni dell’utente, che Zuboff individua il sorgere del Surveillance Capitalism, ossia di un nuovo processo di creazione di valore che punta prima all’analisi predittiva dei nostri comportamenti e poi al loro condizionamento. E’ anche uno dei capitoli più avvincenti dell’intero libro. Non si tratta di un rischio, a giudizio dell’autrice, ma di realtà in atto: il condizionamento dell’interazione sociale è avviato, compresa quella politica.

La documentazione è enorme, arricchita dalle informazioni derivate da una ampia serie di interviste, con cui la Zuboff rappresenta la nostra epoca dominata dai social network, come una fase del capitalismo che, non avendo precedenti, ci coglie impreparati e acquiescenti.

L’analogia, in sé non particolarmente significativa, con la nascita del capitalismo delle produzioni di massa (Ford) di inizio ‘900 caratterizzato dalle economie di scala, distoglie l’autrice da quella, assai più pregnante che va instaurata con le economie di rete. Questa analogia darebbe anche strumenti di contrasto alle posizioni di oligopolio concentrato o addirittura di monopolio assoluto che i giganti del web di fatto detengono. Tra i pionieri della tutela della privacy nell’era digitale Zuboff richiama il seminal paper di Spiros Simitis Reviewing Privacy in an Information Society, Univ. of Pennsilvania Law Review 135 n. 3 1987 (ci permettiamo di ricordare Stefano Rodotà, il cui volume Elaboratori elettronici e controllo sociale, edito dal Mulino, risale addirittura al 1973).

Il libro della Zuboff è destinato a lasciare il segno. Esso è molto avvincente perché pieno di riferimenti alla cronaca e alle vicende interne delle aziende, nell’individuare i passaggi salienti di una trasformazione rapidissima e tuttora in fase di accelerazione. Dimostra la timidezza delle reazioni dei regolatori e delle autorità legislative. Dimostra come la congiuntura storica sia stata favorevole all’esplosione del Surveillance Capitalism: la crisi della sicurezza dopo l’attacco alle torri gemelle, con la disperata ricerca di strumenti di indagine sulla rete, pose Google in posizione di indispensabile interlocutore tecnologico al servizio delle autorità, sgombrando il campo da ogni preoccupazione sulla tutela della privacy.

Si può non condividere l’approccio storiografico della Zuboff, in particolare la sua ricerca di parallelismi con il capitalismo fordista e il nesso causale tra liberismo di fine ventesimo secolo e il trionfo del Surveillance Capitalism nei primi due decenni del ventunesimo. Anche i suoi grafici, dichiaratamente antidigitali, sembrano più un segno distintivo che un utile schematizzazione.

Ma non si possono perdere le ricostruzioni delle scelte dei grandi gruppi, in particolare Google e Facebook, e con qualche ritardo Microsoft, né le pagine sulle prime elezioni presidenziali (Obama 2008 e 2012) in cui l’uso dei social network e della rete ha dimostrato che il paradigma delle democrazia liberale stava cambiando in modo irreversibile.

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