Negli ultimi trent’anni l’universo della comunicazione si è completamente rivoluzionato. I media si sono espansi e, nell’invadere con la loro pervasività anche la nostra dimensione più intima, ci hanno abituato a un nuovo modo di concepire la nostra relazione con noi stessi, l’altro e la realtà in generale.
Mutando la percezione che abbiamo di noi e del mondo, inevitabilmente muta il modo in cui tendiamo a rappresentare questa percezione.
E l’evoluzione di un genere cinematografico come quello del documentario, dalla natura di per sé ambigua e dai confini semantici difficili da delineare, oggi sempre più al centro di riflessioni artistiche e filosofiche, ne dimostra l’importanza.
Innovazione, abbiamo tagliato fuori la generazione Z: come rimediare
Due documentari per comprendere il cambiamento
Un paio di mesi fa, in occasione del ventennale del crollo delle Torri Gemelle, ho guardato una docu-serie, distribuita da Netflix: “Turning point: l’11 settembre e la guerra al terrorismo”. La serie documenta gli attacchi terroristici dell’11 settembre, dalla nascita di Al-Qaida negli anni ’80 alla risposta USA sul suolo americano e all’estero. Negli stessi giorni mi è capitato di vedere “The new normal” un documentario del 2019 diretto da Codi Barbini, sulla strage alla Stoneman Douglas high school in Florida avvenuta il giorno di San Valentino del 2018, conclusasi con un bilancio di 17 morti e altrettanti feriti.
Due documentari recenti, ma molto lontani tra di loro, se ragioniamo in termini di evoluzione tecnologica.
Pensiamo per esempio alla natura del footage a disposizione dei due prodotti audiovisivi. Alla data dell’11 settembre 2001 non esistevano smartphone, così come li intendiamo oggi (i primi Blackberry multi-funzione risalgono circa al 2006). Le immagini che abbiamo dell’attacco terroristico sono state girate per lo più da troupe al lavoro quel giorno a New York. I video che abbiamo di quei terribili attimi degli attentati sono, quasi sempre, di altissima qualità: camere professionali e professionisti alla camera.
“The new normal” segue invece la storia di 5 ragazzi sopravvissuti alla strage del 2018 per alcuni mesi, a partire dalla settimana successiva al massacro e utilizza parte del footage realizzato da loro stessi durante quella giornata, per ricostruire i fatti. Il massacro di Parkland coinvolge direttamente studenti nati dopo il 2000, la generazione Z. Tutti gli studenti hanno uno smartphone in tasca. Pur trovandosi in una situazione di estremo pericolo, pur essendo a pochi metri dallo shooter, pur sentendo le urla dei compagni che cadono, accanto a loro, sotto i colpi dell’assassino, gli studenti non smettono mai di usarli. Inquadrano il pavimento mentre corrono, i banchi mentre sono nascosti, il soffitto mentre viene loro intimato di alzare le mani, i corpi dei loro compagni a terra mentre si urtano nei corridoi. Cercare di salvarsi e documentare ciò che succede non sono due azioni distinte, gerarchiche. Documentare e condividere sui social la propria esperienza non sembra in nessun modo rallentare le loro reazioni, o aumentarne il rischio. Le immagini prodotte non sono molto definite, le inquadrature sono improvvisate, ma non importa. I video sono trasmessi in diretta sui social e condivisi dalla stampa digitale. (Evito di commentare la condivisione delle immagini sui canali della stampa, trattandosi di un tema legato all’etica della comunicazione che merita un approfondimento a parte).
“Bowling for Columbine”
Cos’è cambiato in 17 anni? Per aiutarci a riflettere, vorrei citare ancora un documentario di qualche anno fa, anch’esso ispirato ad un massacro avvenuto in una scuola superiore in America, e di cui si è parlato moltissimo, avendo vinto anche un Oscar come miglior documentario nel 2003. Sto parlando di “Bowling for Columbine” di Michael Moore, dedicato al massacro alla Columbine High School. Una strage avvenuta il 20 aprile 1999 in cui rimasero uccisi 12 studenti e un insegnante. I due autori della strage si suicidarono sparandosi a loro volta, asserragliati all’interno della biblioteca della scuola (dove venne uccisa la maggior parte delle vittime) dopo che le squadre SWAT della polizia erano intervenute a circondare la zona. Al gesto dei due studenti fece seguito un lungo e acceso dibattito nazionale sulla legislazione statunitense riguardante il controllo sulla vendita e la reperibilità delle armi da fuoco, nonché la loro detenzione. Ed è proprio sulla facilità di ottenere un’arma che si concentra il documentario.
Moore non ha nessuna immagine relativa alla strage. Le uniche immagini che possiede sono quelle delle telecamere di sorveglianza all’interno dell’edificio (cosa che abbiamo anche successivamente), che offrono un occhio distante dagli avvenimenti stessi. Approfondire l’impatto psicologico dell’evento è molto complicato.
Oggi non è più così. Abbiamo le soggettive di quasi ogni singolo partecipante a qualsiasi tipo di avvenimento in diretta e questo cambia il grado di empatia che noi proviamo nei confronti degli avvenimenti ed il nostro desiderio di approfondimento.
La soggettivizzazione dell’esperienza
Questo emergere della soggettività nell’esposizione degli avvenimenti non è un fatto nuovo, ma cambia oggi, grazie all’uso che ne viene fatto dai giovani della Generazione Z.
R.Eugeni definisce la “soggettivizzazione dell’esperienza” come uno dei “grandi complessi narrativi che ricorrono ossessivamente nell’universo della comunicazione contemporanea” (Eugeni, 2015:10). Secondo lo studioso, il “first person shot” è la forma stilistica paradigmatica della soggettività contemporanea, poiché risponde alla “natura incarnata, relazionale e dinamica” dell’individuo postmediale e ne “traduce in forma sensibile questa concezione del soggetto e della sua costituzione” (Eugeni, 2015:63).
Che il live di un occhio della telecamera potesse fare la differenza nel grado di emotività del racconto, noi in Italia lo sappiamo almeno dagli anni ’80. Mi sto riferendo alla tragedia di Vermicino del 1981 che aveva già dimostrato al nostro Paese quanto l’impatto delle immagini in diretta sul posto potessero cambiare la coscienza collettiva.
Eppure, oggi questa soggettività, grazie allo smartphone e ai social, nel documentario si specializza e, come scrive Renov nel 2004, “muove dall’ottimizzazione della visione verso una verità unica (il progetto modernista di documentario) ad un sostegno dell’ambivalenza, di un credo molteplice e anche contraddittorio” (Renov, 2004, p. 139).
La condivisione e l’iperconnessione
La soggettività propone spesso punti di vista interiori e questo chiaramente propende verso una rappresentazione della realtà ambigua e che abbraccia il molteplice. Quello che i ragazzi della Stoneman Douglas Hugh School filmano e condividono in diretta sui social (non dimentichiamoci che l’allarme per la sparatoria avviene su Twitter prima che attraverso il 911), sono i fatti mentre si svolgono esattamente per come si svolgono, solo da una prospettiva interna. A fare la differenza in termini di immaginario e coscienza collettiva è chiaramente l’elemento della condivisione, che fa sì che le immagini si impongano e difficilmente possono essere rielaborate alla luce di riflessioni successive. Quelle immagini sono lì, le abbiamo interiorizzate in diretta e diventeranno parte del nostro immaginario così come sono. Non si tratta tanto di ragionare sulla manipolazione della realtà, ma di fare i conti con qualcosa che va oltre la realtà stessa perché investe i nostri modi di interiorizzarla. Si tratta di un nuovo modo di vivere iperconnessi, che cambia la stessa cultura visuale.
Sappiamo tutti che la visione non è un fenomeno meccanico ma un’azione complessa che il soggetto compie attraverso le proprie facoltà sensoriali e intellettive entro una cornice sociale, culturale, ideologica, etnica, sessuale, ecc. E le immagini, grazie alle tecnologie digitali, proliferano e oggi con una rapidità prima impensabile. A partire dalla metà degli anni novanta, alcuni studiosi, soprattutto anglosassoni, hanno analizzato l’accresciuta forza e rinnovata valenza – il nuovo statuto mediale – delle immagini con un approccio diverso da quello dell’iconologia, svincolandosi dalle tradizionali competenze della storia dell’arte; da questa attenzione è scaturita una nuova scienza delle immagini, interessata ai rapporti tra produzione e consumo della visualità.
La cultura visuale
È nata così la «cultura visuale», termine che attualmente designa «qualsiasi ricerca che prenda in esame il ruolo e le funzioni delle immagini (artistiche e non) in un dato spazio-tempo e per una certa cultura o sub-cultura» (Pinotti).
Lo studioso americano Nicholas Mirzoeff (1962) è stato tra i primi a organizzare un quadro sistematico della disciplina, e nel 2015 scrive un saggio intitolato Come vedere il mondo. Il libro si propone come chiave per comprendere le trasformazioni che hanno investito l’«iconosfera», ossia il mondo della visione, negli ultimi due secoli e in particolare negli ultimi trent’anni. Mirzoeff scrive: «La cultura visuale è un impegno a produrre attivamente il cambiamento, non soltanto un modo per vedere quanto accade intorno a noi […] Nel 1990 potevamo usare la cultura visuale per criticare e contrastare il modo in cui eravamo rappresentati nell’arte, nel cinema e nei mass media. Oggi possiamo servirci attivamente della cultura visuale per creare nuove immagini di noi stessi, nuovi modi di vedere ed essere visti, e nuovi modi di vedere il mondo. È questo l’attivismo visuale. L’attivismo visuale è un’interazione di pixel e azioni reali allo scopo di generare il cambiamento».
Quando gli SWAT entrano alla Stoneman Douglas per catturare lo shooter, hanno due ordini per gli studenti: “Mani in alto e via i telefoni”, perché le dirette potrebbero compromettere loro e il loro lavoro. Ma i ragazzi non lo fanno. Appoggiano a terra i telefoni, ma non li spengono e non interrompono le loro dirette, mostrando gli avvenimenti da una prospettiva dal basso. Non stanno semplicemente documentando ciò che succede loro, stanno costruendo una realtà nuova, figlia di un punto di vista nuovo. Il loro interno.
Conclusioni
L’espansione mediatica in cui siamo immersi, nelle mani di generazioni che ci sono cresciute dentro, ci fa capire che stiamo andando incontro ad una nuova normalità che coincide con un nuovo modo di re-immaginare il mondo. E quindi documentarlo. Forse non a caso Bertozzi, riferendosi al genere documentario, ne parla come la “forma artistica della contemporaneità” per eccellenza. Questo mondo, quello che stiamo vivendo attualmente, è un mondo costruito da immagini in soggettiva.
Che il vero cambiamento si nasconda davvero in tutte quelle immagini verticali girate di corsa dal basso?
Bibliografia
Bertozzi,M. Documentario come arte. Riuso, performance, autobiografia nell’esperienza del cinema contemporaneo, Marsilio ed., Venezia 2018
Cecchi, D. Immagini mancanti. L’estetica del documentario nell’epoca dell’intermedialità, Luigi Pellegrini ed., Cosenza 2016
Eugeni, R. La condizione postmediale, La Scuola, Brescia 2015
Perniola, I. L’era post-documentaria, Mimesis, Milano 2015
Mirzoeff, N. How to see the world, Penguin Books, London 2015
Montani, P. L’immaginazione intermediari. Perlustrare, rifiutare, testimoniare il modo visibile, Laterza, Roma-Bari 2010
Pinotti,A. Somaini, A. Cultura visuale. Immagini, sguardi, media, dispositivi, Einaudi, Torino 2016
Ravesi, G. I’ll be your mirror. Documentario italiano contemporaneo e cultura social, Mediascape Journal 12/2019
Renov, M. The subject of documentary, University of Minnesota 2004