Siamo immersi in un’era digitale senza precedenti. Gli adolescenti di oggi sono “nativi digitali”, cresciuti in un mondo dove smartphone, social media e giochi online sono onnipresenti. Questa immersione costante ha acceso un dibattito acceso, spesso carico di ansia, sull’impatto di questa esposizione digitale sul cervello in via di sviluppo.
Titoli allarmistici, che evocano scenari di “demenza digitale” o “cervelli fritti”, sono diventati oramai comuni e alimentando la preoccupazione di genitori, educatori e professionisti della salute mentale.
Il titolo di un recente articolo di giornale recitava: “La dipendenza da Internet rimodella il cervello degli adolescenti”.
Affermazioni come questa, supportate da immagini colorate di scansioni cerebrali, sono potenti e persuasive, ma quanto sono solide le basi scientifiche di queste affermazioni?
E soprattutto: a che punto siamo veramente con la ricerca?
Indice degli argomenti
Correlazione non significa causalità: i limiti interpretativi degli studi sul cervello digitale
Provate a visualizzare, anche solo per un istante, il volto di un ragazzo che trascorre intere giornate incollato allo schermo del cellulare o del computer: la sua attenzione è catturata da un universo digitale che sembra non conoscere confini, eppure, proprio in questo scenario, si aprono questioni che vanno ben oltre la semplice curiosità di capire se e quanto la tecnologia stia modificando la struttura del suo cervello.
Vi sarà forse capitato di imbattervi in titoli sensazionalistici – del tipo “Lo studio che dimostra come Internet riduca la materia grigia negli adolescenti” – che puntano dritto al cuore di un allarme sempre più diffuso, un vero e proprio panico morale che dura da più di una decade. Eppure, come accade spesso, le apparenze ingannano e la verità risulta molto più sfaccettata di quanto possano suggerire poche righe intrise di drammaticità.
Il nostro cervello, infatti, è un labirinto di connessioni, sinapsi, percorsi che si modificano sulla base di una miriade di fattori. Quando gli studi individuano una correlazione tra l’uso eccessivo di Internet e la diminuzione di materia grigia in alcune aree, la tentazione di saltare a conclusioni immediate – magari ripetendo che “Internet fa male” – è fortissima.
Tuttavia è essenziale ricordare che correlazione non significa causalità: potrebbe essere vero il contrario, ossia che una determinata conformazione cerebrale o un particolare funzionamento interno predisponga certi ragazzi a sentirsi più attratti dal mondo virtuale. Oppure, ancora, potrebbe esistere una terza variabile nascosta, come una forma di disagio emotivo che spinge a trovare rifugio nelle interazioni digitali, finendo per distorcere i risultati della ricerca…e della nostra visione del fenomeno…
La necessità di studi longitudinali e il problema della comorbidità
Non è un caso che molti studi sull’argomento si rivelino in qualche modo incompleti, perché fotografano un preciso istante e non offrono una narrazione nel tempo. Se davvero ci interessa capire cosa sia nato prima – l’uovo o la gallina, ossia se è l’utilizzo di Internet a rimodellare il cervello o se è la struttura cerebrale di partenza a guidare l’attrazione verso il digitale – avremmo bisogno di percorsi di ricerca ben più lunghi, di quelle che i ricercatori chiamano indagini longitudinali, perché solo così potremmo mettere in luce come e perché certe funzioni cerebrali si trasformano nel corso di anni, e se c’è davvero un nesso di causa-effetto tra la passione (o l’ossessione) per la Rete e le variazioni neurobiologiche.
C’è poi un ulteriore elemento che rende la questione ancora più intricata: la comorbidità. In moltissimi casi un uso compulsivo di Internet non si manifesta mai da solo, ma è associato a condizioni come la depressione, l’ansia, l’ADHD o disturbi dello spettro autistico. Diventa allora complicatissimo stabilire fino a che punto sia il mezzo digitale a influire sul cervello e quanto, invece, derivi da preesistenti vulnerabilità psicologiche. Immaginate una sinfonia in cui non si riesce a capire se il violino stia davvero “coprendo” il suono del pianoforte o se, piuttosto, entrambi stiano agendo all’unisono, amplificando l’effetto finale.
Se poi parliamo di disregolazione emotiva, spesso indicata come la conseguenza più preoccupante di un eccesso di “tempo schermo”, ci imbattiamo in un altro paradosso: ciò che può apparire come un segnale di squilibrio dovuto alla dipendenza digitale, potrebbe in realtà essere la spia di un malessere latente, forse un’ansia che non trova altrimenti voce, o una condizione depressiva che si manifesta quando il ragazzo si immerge nel mondo virtuale. In altre parole, quel disagio potrebbe non dipendere necessariamente dai social o da un videogioco, ma usare questi ambienti come un canale per esprimersi, come del resto già ampiamente descritto dalle ricerche sulla Digital Emotion Regulation.
Sul tema della “dipendenza”, poi, il dibattito si fa ancora più acceso. Molti esperti preferiscono parlare di “uso problematico” oppure “uso compulsivo” di Internet, proprio per evitare paragoni troppo azzardati con le dipendenze da sostanze. L’assunzione di una droga agisce in modo più diretto sulle aree del cervello legate alla ricompensa e al rilascio di determinati neurotrasmettitori, mentre Internet, per quanto possa produrre anch’esso un senso di gratificazione – che sia un like sui social o la soddisfazione di entrare a far parte di una community virtuale – lo fa in maniera mediata, con dinamiche psicologiche differenti da quelle provocate, ad esempio, da un oppiaceo o da un potente stimolante.
Sabbie mobili metodologiche: campioni ridotti e auto-valutazioni inaffidabili
Proviamo adesso a inoltrarci in quelle che potremmo chiamare le “sabbie mobili metodologiche” dell’indagine sul rapporto tra l’uso di Internet e il cervello, un terreno dove ogni passo rischia di farci sprofondare in dati equivoci e conclusioni affrettate. Riflettendo insieme, emerge subito un primo aspetto: molti studi, pur facendo uso di tecniche avanzate come la risonanza magnetica funzionale, si fondano su campioni esigui, talvolta di appena una manciata di persone. Sarebbe come pretendere di stabilire l’altezza media di un’intera popolazione misurando solo qualche decina di individui, con il rischio di confondere fenomeni sporadici con tendenze generali. Immaginiamo di scattare una fotografia mossa: un’immagine singola, sfocata, non potrebbe certo restituirci il ritratto completo di ciò che stiamo osservando, giusto?
A questa fragilità si somma il problema del self-assessment, una pratica indispensabile per molti ricercatori, ma che affida la descrizione delle abitudini online – e di eventuali disagi associati – a questionari compilati dagli stessi ragazzi. Qui la sincerità e la consapevolezza individuali giocano un ruolo enorme. Alcuni adolescenti potrebbero riportare un uso di Internet inferiore a quello reale, magari per vergogna o per una percezione distorta del proprio tempo; altri, viceversa, potrebbero enfatizzare certi comportamenti o sensazioni negative, spinti dal desiderio di attirare attenzione o di dare voce a una frustrazione. Inoltre la tendenza a volersi “mostrare” sotto una luce migliore – ossia la desiderabilità sociale – può falsare ulteriormente i risultati: è come se il termometro con cui misuriamo la febbre fosse tarato in modo diverso ogni volta, restituendoci dati poco affidabili.
Non esiste una definizione univoca di “uso problematico di Internet
E la confusione aumenta quando ci accorgiamo che non esiste una definizione univoca di “uso problematico di Internet.” Studi diversi adottano criteri diagnostici diversi e svariati strumenti di valutazione: c’è chi utilizza l’Internet Addiction Test di Young, chi preferisce il Problematic Internet Use Questionnaire, e chi ancora adotta parametri propri per inquadrare il fenomeno. Di conseguenza tentare di confrontare i risultati di queste ricerche diventa un’impresa quasi disperata.
Una criticità quest’ultima che sfocia su un piano più terminologico, in cui compare una certa ambiguità che non fa che complicare l’interpretazione dei dati: parole come “Internet addiction,” “Internet gaming disorder” o “problematic internet use” si sovrappongono e vengono talvolta usate in modo intercambiabile, creando un mosaico linguistico assai confuso. Se ogni definizione sfuma nell’altra, capire di cosa stiamo realmente parlando diventa ancora più arduo.
Infine c’è la grande sfida di isolare l’effetto specifico dell’uso di Internet da tutti gli altri fattori che spesso lo accompagnano, come un disturbo d’ansia, la depressione, l’ADHD o varie forme di disagio emotivo. Per quanto ci si sforzi di “controllare” queste variabili, è difficile essere sicuri di attribuire un’eventuale differenza nei risultati unicamente al digitale. È un po’ come cercare di afferrare un granello di sabbia in una tempesta di vento: anche se riusciamo a prenderlo tra le dita, non possiamo mai essere certi che il movimento della mano non abbia influenzato la direzione delle raffiche.
Alla luce di tutte queste criticità appare chiaro quanto sia complesso (e forse prematuro) trarre conclusioni definitive sugli effetti dell’uso di Internet sul nostro cervello. Eppure, è proprio la consapevolezza di queste “sabbie mobili” che potrebbe guidarci verso approcci più rigorosi e misurazioni più coerenti, invitandoci a interpretare con cautela i risultati delle ricerche e a ricordare, soprattutto, che nella scienza l’incertezza non è un difetto ma spesso un invito a guardare più a fondo.
La responsabilità dei professionisti: oltre le etichette e gli allarmismi
Che significato assumono, in fondo, tutte queste incertezze per chi si trova quotidianamente in prima linea, a stretto contatto con adolescenti e famiglie preoccupate dalle possibili conseguenze dell’uso di Internet? È una domanda che mi porto dentro da sempre, in quanto attivista digitale, ma anche come osservatore critico di un fenomeno che ci coinvolge tutti. E allora vorrei chiedermi e chiedervi: siamo davvero sicuri di avere prove così solide da parlare di “cervelli danneggiati” dalla Rete, quando spesso le ricerche si basano su pochi soggetti, magari valutati per un singolo istante di tempo? O non dovremmo piuttosto mantenere un atteggiamento di estrema cautela, ricordando che esagerare le conclusioni rischia di alimentare allarmismi ingiustificati?
Oppure, forse, dovremmo leggere veramente le ricerche prima di decretare sentenze, visto che tutte queste limitazioni sono molto spesso esplicitamente dichiarate nei paper stessi.
Questo non significa, ovviamente, che non ci siano situazioni in cui un uso sfrenato di dispositivi digitali possa diventare un problema reale, ma la domanda scomoda è: in base a quali criteri stiamo stabilendo che un adolescente è “dipendente”? Se il mondo scientifico non ha ancora definito standard diagnostici universalmente accettati, non corriamo il rischio di etichettare in fretta e furia ragazzi che forse hanno solamente bisogno di aiuto per gestire l’ansia, la solitudine o la noia? E soprattutto, quale effetto potrebbe avere una diagnosi un po’ superficiale su un giovane che si vede “etichettato” senza un vero confronto sulle ragioni profonde del suo comportamento?
Perché, credetemi, mi capita sempre più spesso di entrare in classi in cui ragazzi anche di 11–12 anni si auto-presentano come “Io sono Mario, e sono dipendente da Internet”, salvo poi, alla mia domanda provocatoria “Questo lo pensi tu, oppure te l’ha detto qualcuno?”, rispondermi “Me lo ha detto mia madre (o padre)”.
Mi interrogo quindi sul ruolo di noi professionisti: dovremmo affidarci unicamente a un test o a un questionario auto-riferito, in cui il ragazzo stesso indica quanto tempo passa online, e in che modo si sente coinvolto o alienato? Sappiamo bene che la percezione soggettiva può essere ingannevole: alcuni adolescenti minimizzano per timore di venire giudicati, altri esagerano perché desiderano, forse inconsciamente, che qualcuno si accorga del loro disagio. E allora, ci basta una narrazione di sè “filtrata” da ansie e paure per concludere che siamo di fronte a una dipendenza?
Proprio per questo credo che un approccio personalizzato sia essenziale: ogni individuo ha la propria storia, le proprie passioni, le proprie vulnerabilità. Non è possibile ridurre tutto a un singolo “sintomo” chiamato Internet, perché ciò che appare come un eccesso di schermo potrebbe mascherare una faticosa ricerca di appagamento, un senso di inadeguatezza di cui il giovane non sa parlare, o un disagio familiare che spinge a rifugiarsi nel virtuale. Forse dovremmo chiederci se, in un mondo che demonizza così spesso la tecnologia, abbiamo smesso di ascoltare davvero le esigenze profonde di chi cresce in questa epoca iperconnessa, perdendo di vista il vero fulcro della situazione (la Luna) e preferendo invece puntare il dito contro il “comodo” strumento (il Dito).
Strategie di prevenzione e l’importanza dell’ascolto attivo
Sul fronte della prevenzione mi chiedo se non sia giunto il momento di considerarla come un investimento davvero prioritario, invece di intervenire solo quando l’uso di Internet diventa palesemente problematico. Stiamo offrendo ai ragazzi alternative stimolanti nel mondo “off-line”, spazi protetti dove possano coltivare relazioni e passioni senza sentirsi obbligati a “scappare” nello smartphone? E gli adulti che li circondano – genitori, insegnanti, educatori – possiedono gli strumenti per riconoscere i segnali di un disagio più ampio, prima che si trasformi in una corsa a etichettare il ragazzo come “dipendente” e basta?
Forse, in fondo, dovremmo ripartire da una domanda ancora più radicale: stiamo usando la scusa del “cervello danneggiato” per non affrontare le nostre responsabilità di adulti, di professionisti, di società che cambia? Immaginiamo l’effetto che un titolo sensazionalistico può avere sulla percezione collettiva: lo shock, la paura, la tentazione di dire “questa tecnologia va vietata”. Ma siamo davvero sicuri che vietare, o demonizzare, serva a comprendere fino in fondo un fenomeno complesso come quello della digitalizzazione dei nostri comportamenti?
Quando, anzichè puntare il dito contro una scatoletta di plastica e poco altro, inizieremo invece a guardare negli occhi il ragazzo e ascoltare il suo racconto?
Personalmente credo che la vera sfida risieda nel mantenere uno sguardo critico ma aperto: non mettere Internet sul banco degli imputati senza prove solide, e al tempo stesso non sottovalutare i rischi concreti che un uso eccessivo e incontrollato può comportare. Forse è proprio in questo equilibrio – tra l’indagine attenta delle cause profonde e la comprensione che ogni persona ha una storia diversa – che possiamo trovare il modo migliore di affiancare gli adolescenti e di guidarli verso un rapporto più sano e consapevole con la tecnologia. E allora, chiedo di nuovo: siamo pronti ad assumerci questa responsabilità, anzichè cercare un comodo (e strumentalizzabile) capro espiatorio nel “cervello digitale”?
Verso una pedagogia digitale positiva: prospettive future della ricerca
Proviamo a volgere lo sguardo al Futuro, immaginando come la ricerca potrà evolvere per offrirci risposte più chiare e più solide sui potenziali effetti dell’uso di Internet sui cervelli in via di sviluppo. A me piace pensare che, per capire davvero questo fenomeno, sarà necessario seguire per anni un gruppo di ragazzi e ragazze, dalla prima infanzia fino all’età adulta, osservandone passo dopo passo i cambiamenti.
Solo con studi estesi nel tempo – chiamiamoli con il loro giusto nome: “longitudinali” – potremmo forse scoprire se sono certi tratti cerebrali a spingere alcuni individui verso un uso intenso di Internet, oppure se è il tempo trascorso online a modificare il cervello, o ancora se la verità sta in un punto di incrocio tra entrambe le ipotesi.
Non potremmo, però, accontentarci di un gruppo ristretto e omogeneo: vorrei vedere ricerche che coinvolgano un gran numero di persone, provenienti da diversi contesti culturali, sociali ed economici, e che tengano conto anche delle differenze di genere, spesso trascurate nel dibattito. E se in passato si sono diffuse soprattutto le ricerche condotte in Asia orientale, mi piacerebbe che si moltiplicassero anche in contesti occidentali, in modo da poter verificare se i risultati siano davvero generalizzabili. Tuttavia, a nulla servirebbe ampliare il campione se poi si utilizzano criteri diagnostici sempre diversi: occorre trovare un linguaggio comune che permetta di confrontare i dati in maniera efficace, senza doverci ogni volta districare tra definizioni come “Internet addiction” o “problematic Internet use” che, usate in modo impreciso, creano ulteriore confusione.
Ricerche che di fatto stanno iniziando a comparire, e che ci stanno mostrando invece un rapporto di causa-effetto invertito rispetto a quanto proclamato dai “Signori del Panico”.
Dentro di me spero anche che come Società impareremo ad andare oltre al semplice dualismo “Internet sì, Internet no”, ma che distinguiamo i diversi modi in cui la Rete viene utilizzata, perché giocare per ore ai videogame non è la stessa cosa che scorrere passivamente i social media o guardare compulsivamente video online, e capire se il coinvolgimento attivo, tipico di certi giochi, produca effetti differenti rispetto a un uso più passivo, come lo scrolling infinito alla ricerca di contenuti che alla fine dimentichiamo in fretta. Questa attenzione alle “sottocategorie” ci aiutano a individuare meglio quali forme di utilizzo rischiano di provocare un disagio e quali, invece, possono rivelarsi addirittura stimolanti o positive.
Comprendere la complessità delle vite connesse degli adolescenti
Forse è proprio in queste domande che possiamo intravedere un orizzonte più chiaro: un futuro in cui non ci limiteremo a lanciare allarmi o a fare diagnosi frettolose, ma sapremo calarci davvero nella complessità di queste vite connesse, riconoscendo che la sfida non è stabilire se Internet sia un bene o un male, ma capire come integrarlo al meglio nella crescita di ragazzi e ragazze in cerca di riferimenti e opportunità. E nel momento in cui avremo sempre più studi articolati, campioni più ampi, metodi standardizzati, un approccio globale e uno sguardo che scandagli il fenomeno in tutte le sue sfumature, forse ci avvicineremo alla risposta che rincorriamo da tempo: non tanto se la Rete ci stia “cambiando il cervello”, ma in che misura e come, e soprattutto quali strategie educative e di supporto possiamo adottare per trasformare il potenziale di questo strumento in una risorsa, anziché in una minaccia.
Verso quella che potremmo chiamare una vera e propria “Pedagogia Digitale Positiva”.
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