Grande colpo di acceleratore sul venture capital con qualche punto interrogativo su tempi e modalità di attuazione, gestione misurata del Piano Industria 4.0 e doppio occhiolino all’Europa sulla web tax.
Così si potrebbe sintetizzare il capitolo digitale della legge di bilancio 2019 appena licenziata, rappresentato come ogni anno da una serie di commi sparsi tra i 1.143 che compongono il provvedimento chiave della governance economica del Paese. E che, come noto, hanno dovuto fare i conti con uno spazio di manovra compresso dalla necessità di rispettare alcune priorità programmatiche (in primis, pensioni, reddito di cittadinanza e sterilizzazione dell’aumento dell’IVA) e, al contempo, l’accordo raggiunto con la Commissione europea sul rapporto deficit/PIL al 2,04% (contro l’iniziale 2,4%). Con risultati che, se ci saranno, si dispiegheranno con ogni probabilità negli anni successivi a quello appena iniziato perché su almeno 2 dei 3 paragrafi principali del capitolo digitale (venture capital e web tax) i tempi di attuazione si prevedono tutt’altro che brevi. Proviamo a esaminare quanto di buono è stato fatto e quanto di meglio si poteva fare.
Venture capital
Lo Startup Act del 2012 è stato un punto di svolta fondamentale ma ha avuto il suo limite principale nello scarso spessore finanziario del mercato italiano. Con Francia e Germania che dispongono di un mercato del venture capital che nel 2017 ha cubato circa 10 volte il nostro e con la Spagna che negli ultimi anni ha allungato sensibilmente. Per non parlare del Regno Unito e, per rimanere vicino a noi, di Israele. Bene dunque ha fatto il governo a voler dare un colpo di acceleratore, ricorrendo a vari strumenti a disposizione. Ad esempio, aumentando il già previsto vantaggio fiscale per gli investitori che siano disponibili a impegnare i propri capitali per un periodo di tempo di almeno 3 anni (innalzamento dell’aliquota dal 30 al 40%, con possibilità di raggiungere il 50% nel caso di sottoscrizione dell’intero capitale sociale) e creando presso il MiSE un Fondo con dotazione iniziale proveniente dalle casse dello stato di 90 milioni in tre anni, ai quali aggiungere nelle intenzioni del governo altre risorse su base volontaria.
Che potranno tra l’altro derivare da tre mosse potenzialmente dirompenti contenute nella legge di bilancio:
- almeno il 15% delle entrate dello Stato derivante dagli utili o dividendi delle società partecipate dovranno essere destinati a investimenti in fondi di private equity;
- almeno il 5% degli investimenti qualificati dei PIR (Piani individuali di risparmio) emessi a partire dal primo gennaio 2019 dovranno andare a fondi di venture capital;
- per enti previdenziali e fonti pensione viene raddoppiata la quota dell’attivo patrimoniale (che passa dal 5 al 10%) destinabile ai PIR e ad altri investimenti, tra i quali sono ricompresi i fondi di venture capital.
Se gli effetti della terza misura, che sia direttamente che indirettamente è in grado di dare una mano significativa allo sviluppo del mercato del venture capital, sono oggettivamente difficili da quantificare perché viene stabilita una soglia massima all’interno della quale i gestori degli asset in questione saranno liberi di muoversi in base alle proprie convenienze, più facile prevedere quelli delle prime due, basati invece su una soglia minima.
Almeno sulla carta, perché sia gli utili/dividendi delle aziende che la raccolta dei PIR sono variabili volatili. Ma a bocce ferme, basandoci sul recente passato e ipotizzando pure che non si vada oltre le soglie minime, parliamo di qualcosa compreso tra 500 milioni e 1 miliardo l’anno. Che insieme alle altre misure e a un trend comunque in aumento, potrebbe riallineare il mercato italiano a quello spagnolo e avvicinarlo ai tre big europei.
Sempre che l’Europa, che deve giudicare se la normativa non infrange le regole sugli aiuti di stato, creando un vulnus concorrenziale, dia il via libera alle misure previste (e lo faccia in tempi rapidi, visto che su provvedimenti equiparabili si è presa in passato fino ad alcuni anni per sciogliere la riserva).
Le altre due incognite sono tutte italiane. Fare in modo che le esigenze di finanza pubblica, che nei prossimi anni non saranno di certo minori rispetto al presente, non fagocitino gli utili o i dividendi delle aziende partecipate dallo Stato, travolgendo le soglie attualmente stabilite dalla legge di bilancio.
Sarebbe infatti inutile e per certi versi controproducente partire in una certa maniera e poi essere costretti a fermarsi. Ma soprattutto, ed è questo il vero punto interrogativo, occorre fare in modo che i soldi che si riusciranno a convogliare direttamente o indirettamente attraverso la mano pubblica siano investiti davvero nelle iniziative che lo meritano.
Si tratta di una questione vecchia quanto il cucco che si ripropone con particolare vigore nel caso dell’innovazione finanziata dallo Stato. Dove la discrezionalità potenziale è per antonomasia massima e dunque i criteri di selezione devono essere stringenti così come tutta la gestione di dettaglio del processo, necessariamente affidata a professionisti indipendenti protetti dalle pressioni della politica (che è invece giusto si occupi soltanto della fase a monte, cioè di individuare le risorse e di organizzare la migliore governance possibile).
Industria 4.0
Le misure rivolte alla digitalizzazione delle imprese si pongono sulla scia del Piano Impresa 4.0, che ha dato frutti importanti nel 2017 e 2018, con una ripresa degli investimenti destinati ai beni strumentali e un’espansione record della produzione, arrivata alla soglia dei 50 miliardi di euro, e del consumo interno di macchinari, cresciuto ancora a doppia cifra l’anno scorso, dopo i già ottimo risultati dell’anno precedente. Ora si tratta di continuare a sostenere il mercato (e soprattutto la trasformazione digitale delle imprese), senza drogarlo.
La scelta del governo è stata di eliminare il superammortamento, una misura che fin dall’inizio era stata immaginata come temporanea (e che viene confermata solo per i beni strumentali immateriali, tra i quali si include finalmente il cloud computing), ridurre dal 50 al 25% il credito d’imposta per la ricerca per alcune voci di spesa (per inciso quelle forse più esposte a possibili manipolazioni ma con l’effetto non trascurabile di portare nelle casse dello stato 300 milioni di euro l’anno a partire dal 2020) e, soprattutto, spostare dalle grandi imprese alle PMI l’asse principale degli interventi. Dunque, per il credito d’imposta sulla ricerca, il limite di spesa viene dimezzato da 20 a 10 milioni di euro, l’iperammortamento viene addirittura aumentato di 20 punti percentuali per gli investimenti fino a 2,5 milioni di euro e poi abbassato di 50 punti percentuali per la fascia 2,5-10 milioni di euro e di 100 punti percentuali per quella compresa tra 10 e 20 milioni di euro, soglia oltre la quale non viene prevista alcuna maggiorazione del costo.
Idem per la formazione 4.0, che era stata colpevolmente lasciata fuori nella prima versione della legge di bilancio, per la quale si prevede un’agevolazione aumentata dal 40 al 50% per le piccole imprese, confermata al 40% per le medie (sempre con un massimo spendibile di 300 mila euro) e ridotta al 30% per le grandi imprese, ulteriormente penalizzate dalla riduzione del limite di spesa (a 200 mila euro).
Ma le agevolazioni previste per le piccole imprese non finiscono qui. Se sulle altre misure si è viaggiato comunque lungo una linea di continuità con le precedenti leggi di bilancio, la principale novità è rappresentata dal voucher per i manager 4.0 (dell’innovazione): fino a 40.000 euro per le PMI che decidano di farsi assistere da un consulente (persona fisica o giuridica) per la trasformazione digitale, opportunamente certificato. Cifra raddoppiabile se a farlo è una rete di impresa.
La ricalibratura delle misure di Industria 4.0 sulle PMI ha molto senso se si guardano le statistiche che confermano una minore propensione alla digitalizzazione delle realtà aziendali di dimensione minore. Nel caso poi delle micro e piccole imprese, l’impatto delle misure è sì sull’offerta ma anche sulla domanda di digitale, che sappiamo essere totalmente al di sotto delle medie europee e il vero anello debole della digitalizzazione all’italiana.
Laddove invece le imprese più strutturate sono state più rapide a usufruire delle misure già previste, e comunque hanno sia le risorse che la cultura per realizzare la trasformazione digitale a prescindere dalla spinta dello stato. Qualche perplessità la destano piuttosto i rischi di maggiore farraginosità amministrativa, a causa degli scaglioni introdotti (soprattutto rispetto all’iperammortamento, più difficile da gestire contabilmente), in un paese che ne ha già a sufficienza, oltre al bias implicito contro la crescita dimensionale delle imprese, di per sé una delle strade maestre per far recuperare competitività all’Italia attraverso un aumento della produttività delle sue aziende. Dunque, il particolare favore fiscale per le piccole imprese ha ragione d’essere solo ove si trattasse di una misura transitoria. Altrimenti otterrebbe il risultato paradossale di ostacolare il processo che si vuole invece favorire (grazie all’impatto positivo della digitalizzazione sulla produttività delle aziende).
Web tax
Di imposizione fiscale sul digitale in Italia (subito ribattezzata “web tax”) si parla dall’inizio della scorsa legislatura. Dopo alterne vicende, la scorsa legge di bilancio ha previsto il lancio dal primo gennaio di quest’anno di un’imposta sulle transazioni digitali B2B con un’aliquota del 3% sul valore della singola transazione, per i soggetti che effettuino almeno 3.000 transazioni l’anno. Una soglia alquanto bislacca perché del tutto indipendente dal valore delle transazioni. In base a un tale provvedimento, un soggetto che effettua oltre 3.000 transazioni da 1 euro ciascuna sarebbe tassato (in valore percentuale) quanto uno che esegue lo stesso numero di transazioni da 1 milione di euro l’una. Per il modo in cui era stata congegnata, avrebbero potuto esserne colpiti moltissimi player, anche piccoli o medi.
La nuova formulazione della web tax, contenuta nella legge di bilancio 2019, è certamente più logica, individuando un criterio monetario complessivo (almeno 750 milioni di euro di fatturato globale di cui almeno 5,5 milioni di euro derivanti dalla vendita di servizi digitali in Italia) ed eliminando la distinzione tra servizi B2B e B2C, del tutto incomprensibile per chiunque abbia una cognizione minima del modus operandi delle piattaforme digitali. Strizza due volte l’occhio di fronte all’Europa perché contribuisce a ridurre il deficit e, al contempo, recepisce di fatto la proposta della Commissione europea del 21 maggio 2018, ad ora e per il prossimo futuro bloccata a livello di Consiglio ECOFIN dove ai tradizionali paladini dei regimi fiscali di favore si sono aggiunte in maniera inattesa le perplessità della Germania. Da aggiungere che se in Europa non si fanno passi in avanti, in ambito OCSE, che a parere di chi scrive sarebbe l’ambito geografico più pertinente per misure di questo tipo, gli entusiasmi di pochi anni fa sulla possibilità di raggiungere un accordo rapidamente attuabile dai Paesi membri, tra i quali anche molti extra Ue, a cominciare da Usa, Giappone e Canada, si sono parecchio raffreddati ultimamente.
Detto questo, rimangono diversi dubbi sulla web tax all’italiana versione 2.0 (o 3.0 se contiamo la primissima proposta di Francesco Boccia, storico alfiere della tassazione sulle imprese digitali).
In particolare, il passaggio epocale da un’imposta calcolata sui profitti, regime fiscale normale, a una sui ricavi, solo per alcune tipologie particolari di impresa, da un lato non fa altro che consolidare la distinzione tra economia digitale ed economia non digitale, che appare sempre più anti-storica e che l’iniziativa dell’Ocse sembrava poter scardinare. Ma, al di là delle questioni filosofiche, il provvedimento parte dal presupposto che tutte le imprese che offrono i servizi digitali oggetto della nuova imposta (pubblicità, sharing economy e data analytics/mining) abbiano utili estremamente elevati, rispetto ai quali un’aliquota del 3% sia del tutto ragionevole (magari per difetto). Per alcune imprese potrebbe anche essere così. Ma il rischio di regimi fiscali speciali, applicati a settori in rapida evoluzione, è quello di non considerare a sufficienza le possibili ricadute presenti e future sul mercato. Ne vale davvero la pena, considerando introiti annuali che si prevedono pari ad appena 150 milioni di euro nel primo anno e 600 milioni di euro a regime? Senza considerare difficoltà attuative notevoli, confermate dal tempo (120 giorni) dato ai decreti attuativi che dovrà emettere il Mef (sempre che sarà davvero in grado di rispettarli), di concerto con un numero notevole di soggetti e ascoltando i soggetti interessati, attraverso le rispettive associazioni di categoria (contrarie quasi all’unanimità, pur rappresentando interessi molto eterogenei e spesso contrastanti).
Cosa manca
Ma se il giudizio sulle misure della manovra che riguardano il digitale è in molti casi positivo e, sia pure con alcune eccezioni, le maggiori perplessità si concentrano sulla realizzabilità nelle forme auspicate e in tempi sufficientemente rapidi dei principi contenuti nella legge di bilancio, non possiamo trascurare gli aspetti che con risorse aggiuntive si sarebbero potuto toccare e che invece devono fare i conti con un piatto poco ricco o comunque svuotato da provvedimenti ritenuti più prioritari. Partendo proprio dall’extra-gettito della gara sul 5G, che avrebbe potuto essere reinvestito nell’innovazione, come era stato inizialmente dichiarato dallo stesso ministro Di Maio, ed è stato invece destinato alla riduzione del debito.
Mancano dunque misure dirette rivolte alla riduzione dell’analfabetismo digitale di massa che ancora contraddistingue l’Italia. Le misure proxy contenute nella legge di bilancio agiscono su chi ha già un lavoro (come titolare o dipendente di un’impresa) ma rimangono fuori fasce molto estese di italiani, proprio quelle che ne avrebbero più bisogno.
Poco o nulla si prevede sulla digitalizzazione della pubblica amministrazione, che richiederebbe risorse finanziarie e umane aggiuntive rispetto a quelle esistenti. Mentre una misura come il blocco del turnover nella PA va esattamente nella direzione contraria.
Non ci sono misure specifiche per il Sud, che sulla trasformazione digitale è indietro rispetto al resto del Paese (e dunque, pro quota, lo sono anche le sue imprese, in particolare proprio le PMI care al governo attuale).
Le risorse stanziate per Intelligenza artificiale, blockchain e Internet delle Cose (15 milioni di euro l’anno nel triennio 2019-2012) rappresentano tutt’al più un seme iniziale di un processo che ha bisogno di convogliare investimenti di un ordine di grandezza ben diverso (naturalmente, non solo pubblici e nazionali). Ma qui occorre anche aspettare le Strategie Nazionali su Ia e blockchain per capire come si intenderà muovere l’Italia, auspicabilmente in stretto coordinamento con i partner europei e la Commissione.
Infine, mancano riferimenti alle università e alla ricerca, che dovrebbero essere insieme alle imprese i motori principali di una vera rivoluzione digitale. In attesa che decolli il modello dei competence center, ancora in fase di rodaggio. Forse è anche legittimo pensare a una pausa di riflessione in attesa di osservarne i primi passi. L’importante è che non sia troppo lunga.
Senza dimenticare che insieme alla ricerca applicata va supportata e indirizzata anche la ricerca di base così come l’istruzione superiore, per la quale la legge di bilancio 2019 vuol dire soprattutto il ridimensionamento dell’alternanza scuola-lavoro, con relativo cambio di nome (“percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento”). Intento legittimo che tuttavia, di per sé, appare un arretramento verso la prospettiva di una maggiore sinergia tra mondo della scuola e mondo dell’impresa in un’epoca di cambiamenti epocali del lavoro, in gran parte in seguito alla rivoluzione digitale. Può andare dunque bene cambiare l’approccio ma, se si sceglie di far uscire di meno gli studenti dalle aule, occorre con tanta più urgenza adeguare il tempo trascorso all’interno degli istituti scolastici al futuro ormai prossimo.
In sintesi, la legge di bilancio 2019 ha provato a fare le nozze con i fichi secchi, riuscendo ad avvicinarsi al massimo risultato ottenibile con le (poche) risorse a disposizione. Ma per il matrimonio effettivo dell’Italia con la trasformazione digitale, dopo tanti anni di fidanzamento, occorrono sia un altro budget che un maggiore coinvolgimento di settori per nulla toccati dal provvedimento e ai quali occorrerebbe dare una spinta decisa per tirarli fuori dal guado nel quale ancora si trovano (in primis, PA, scuola, università, ricerca, ma anche una frazione importante della cittadinanza). In attesa della legge di bilancio 2020 o di provvedimenti ad hoc nel corso del 2019.