L'approfondimento

Digitalizzazione come leva per lo sviluppo: ecco gli impatti economici pubblici e privati

Un report della BCE fotografa le conseguenze per Stati e imprese della digitalizzazione dei processi, permettendo di riflettere su cause ed effetti relativi alla produzione: vediamo i dati, considerando anche la situazione italiana

Pubblicato il 20 Gen 2021

Gianpiero Ruggiero

Esperto in valutazione e processi di innovazione del CNR

Contributi Ristori fondo perduto

L’esponenziale diffusione della digitalizzazione ha sollevato tra studiosi e policy maker la necessità di riuscire a capire con più precisione ruolo e peso che essa esercita nell’economia, perché si è ormai elevata a fattore determinante per lo sviluppo competitivo di un’economia.

Un’utile fotografia della situazione viene fornita dal report presentato dalla Banca Centrale Europea, dal titolo “L’economia digitale e l’area dell’euro”, ha riacceso il dibattito sulla pervasività del digitale, che sta trasformando la nostra vita quotidiana e il modo di lavorare, e le sue connessioni con l’economia reale. Importante approfondire anche la situazione dell’Italia, che si dimostra ancora indietro rispetto ad altri Paesi più digital oriented.

I dati del report BCE

Secondo gli autori del report la maggior parte dei Paesi europei, in termini di adozione di tecnologie digitali, si trova in una situazione di ritardo rispetto ai principali concorrenti; all’interno dell’Europa, peraltro, esistono differenze e solo pochi Paesi sono digitalizzati quanto i Paesi più digitali del mondo, come gli Stati Uniti. Questa notevole eterogeneità implica che gli impatti della digitalizzazione variano nell’area dell’euro e non è chiaro se la digitalizzazione allargherà le differenze tra i Paesi o le ridurrà.

Il report espone la tesi per cui, a partire dagli anni 2000, in quasi tutti i Paesi avanzati, nonostante il livello di digitalizzazione sia cresciuto, si sia registrato un netto rallentamento della produttività del lavoro, che coincide proprio con l’inizio della quarta rivoluzione industriale, quella digitale[1]. Anche l’Italia sarebbe interessata da questo fenomeno. In Italia permane un ampio divario con le performance continentali, nonostante una crescita nell’adozione del digitale. Ma come si spiega allora questo apparente paradosso? Quali possibili interpretazioni possiamo dare per spiegare questa bassa performance in termini di produttività? Il Recovery Plan può essere la soluzione per invertire la rotta, a quali condizioni?

Dimensioni e crescita dell’economia digitale in UE

Come spiegato dalla BCE, “la digitalizzazione – la diffusione delle tecnologie digitali che portano a un’economia digitale – è praticamente ovunque. Trasforma modelli di consumo e produzione, modelli di business, preferenze e prezzi relativi, e quindi intere economie. Alcuni degli effetti chiave della digitalizzazione stanno influenzando variabili rilevanti per la politica monetaria come l’occupazione, la produttività e l’inflazione[2]”.

I dati analizzati confermano che l’economia digitale in Europa è più piccola rispetto agli Stati Uniti, dove la dimensione del settore manifatturiero è circa il doppio di quella dell’area dell’euro (maggiore anche che nei Paesi specializzati in attività manifatturiere, come la Germania) e dove il solo settore dei servizi digitali contribuisce tanto quanto l’intera economia digitale dell’area dell’euro. Il divario negli ultimi anni è rimasto più o meno invariato, nonostante in Europa il digitale sia in costante aumento dal 2015.

Secondo il report “in Europa l’indice dell’economia e della società digitale è passato da meno di 40 nel 2015 a oltre 60 nel 2020. Ciò maschera una certa diversità tra i paesi, con l’indice inferiore o vicino a 40 per tre paesi e vicino o superiore 70 per altri tre. Sebbene la connettività (in particolare la banda larga) abbia raggiunto livelli comparabili nella maggior parte dei paesi, persistono differenze in altre dimensioni, come i livelli di capitale umano e l’integrazione delle tecnologie digitali nel settore pubblico[3] e delle imprese. Queste differenze nell’adozione del digitale tra i paesi implicano che gli impatti della digitalizzazione possono differire anche nell’area dell’euro e nei paesi dell’UE”.

L’impatto della pandemia

Il report della BCE analizza con dovizia di dati come dall’inizio della pandemia ci sia stato un aumento esponenziale nell’adozione delle tecnologie digitali, dovuto soprattutto alle limitazioni alla mobilità fisica. Questo aumento ha interessato allo stesso modo i servizi e i beni digitali, come si evince dalle statistiche sull’utilizzo / abbonamenti di servizi digitali disponibili sulle piattaforme online[4]. È innegabile che sia i produttori che i consumatori, dall’inizio della pandemia, sono diventati più avvezzi alle tecnologie digitali e al tempo stesso più vincolati alle stesse tecnologie.

Gli autori arrivano alla conclusione che questa spinta, che rappresenta una sfida per tutti i Paesi europei, potrebbe portare a quel cambiamento strutturale in grado di ridurre il divario con gli Stati Uniti. I prossimi anni, con l’avvio operativo dei fondi del Next Generation EU, potranno rappresentare l’occasione per una svolta.

Economia digitale e produttività

Con riferimento ai dati sulla produttività, il report afferma anche che “negli ultimi due decenni si è assistito a un prolungato rallentamento della produttività nelle economie avanzate. Benché possa sembrare paradossale che un’epoca di rapido progresso tecnologico non sia caratterizzata da un notevole miglioramento della produttività, il rallentamento di fatto è più evidente nei settori che si avvalgono maggiormente di tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT)”.

Le cause

Per spiegare questo apparente paradosso vanno analizzate diverse cause in grado di chiarire i complessi legami fra economia digitale e produttività. Quelle raccolte da Riccardo Cristadoro[5] sembrano le più suggestive. Una delle caratteristiche distintive dell’economia digitale è il passaggio dal capitale fisico (edificio e attrezzature) al capitale immateriale (ricerca e sviluppo, software, algoritmi, database e analisi correlate). Una prima possibile spiegazione sulla presenza e sulla direzione di un legame causale fra innovazione digitale e produttività è che l’adozione delle nuove tecnologie avrebbe provocato un’espansione di attività più difficili da misurare (investimenti in beni “intangibili”, scambi di dati che sfuggono al mercato), per questo non pienamente computabili nel calcolo del Pil.

Sebbene le statistiche esistenti siano in grado di misurare la diffusione delle ICT, non sempre riescono a tenersi al passo con le tecnologie, che evolvono rapidamente, e con l’utilizzo delle ICT a livello di singole persone e di imprese. Il sempre maggiore coinvolgimento delle famiglie nella produzione diretta di servizi, con l’ausilio di intermediari digitali (su tutti valgano come riferimento Uber e Airbnb), la crescita delle piattaforme digitali che forniscono “servizi gratuiti”, l’ampliarsi della produzione per il proprio consumo consentita dalla digitalizzazione (self-check in, self-service al supermercato, ecc.) sono tutti fenomeni che aumentano la dimensione dell’economia informale, con maggiori transazioni tra le famiglie e un ampliamento della produzione non-market, per cui le statistiche ufficiali sottostimerebbero l’aumento effettivo della produttività[6].

I metodi convenzionali della contabilità nazionale non sono in grado di catturare completamente i nuovi flussi generati all’interno dell’economia digitale, né sembrano cogliere pienamente il valore di mercato dei big data, che pure sono la vera cinghia di trasmissione della trasformazione digitale. Come per le attività immateriali in generale, i big data possono assumere forme molto diverse e sono spesso altamente specifici dell’azienda, ovvero non particolarmente preziosi al di fuori dell’azienda stessa. Il valore di tale capitale di dati è difficile da stimare, ma potenzialmente molto elevato[7].

D’altra parte si registrano problematiche di corretta misurazione dei prezzi di prodotti e servizi digitali (da ultimo Cinquegrana G., 2019), riconducibili alle fonti utilizzate, ai ritardi di disponibilità e di utilizzo dei dati, alle stesse metodologie contabili di stima dei deflatori, al susseguirsi delle revisioni. In questo caso, vari studi[8] pur riscontrando l’esistenza di problemi di misurazione, concludono che la dimensione della possibile sottostima non è tale da cambiare sostanzialmente il quadro complessivo.

Conoscenze tecnologiche e loro diffusione nell’economia

Al di là dei problemi di calcolo, un’ipotesi forse più promettente per spiegare i ritardi accumulati nelle dinamiche relative della produttività è di distinguere tra due aspetti del progresso tecnologico: la rapidità con cui avanza la frontiera delle conoscenze tecnologiche e la rapidità con la quale queste si diffondono nell’economia. Secondo Cristadoro “possiamo immaginare questa distinzione con una metafora: da un lato l’avanzare di pochi pionieri che scoprono nuove terre, dall’altro i tantissimi coloni che col tempo vi si potranno insediare. Questo secondo passaggio è fondamentale per l’aumento della produttività aggregata: un rallentamento dell’insediamento può infatti dipendere da un più lento arrivo dei coloni anche in presenza di notevoli scoperte da parte dei pionieri. Qualcosa di simile sarebbe accaduto nel rapporto tra imprese alla frontiera (i “pionieri”) e le altre (i “coloni”)”.

Nelle industrie basate sulle tecnologie digitali arrivare per primi spesso vuol dire conquistare una ampia fetta di mercato, lasciando poco spazio a quanti vorrebbero entrare e quindi frenando il processo di imitazione che è uno dei motori della diffusione delle tecnologie. Le barriere legali e regolamentari che limitano la concorrenza e l’ingresso di nuovi attori in vari settori – soprattutto dei servizi – spiegherebbero il fenomeno. Riprendendo l’immagine dei pionieri e dei coloni, è come se le tecnologie digitali consentissero ai pionieri di recintare le terre appena scoperte, ostacolando l’ingresso di chi vorrebbe seguirli. Si ripete, ancora una volta, l’eterno duello tra innovazione contro conservazione. In questa lotta l’innovatore si ritrova da solo e combatte contro i difensori dello status quo più grandi, più potenti e organizzati. Eppure, ce lo insegna la storia, alla fine vince. L’innovazione, infatti, è un po’ come l’acqua di un fiume che, col tempo, fra crollare la diga che cerca di trattenerla.

Lo conferma anche un recente studio[9] che ha analizzato i dati relativi a singole imprese in 23 Paesi OCSE, in cui è dimostrato che quelle tecnologicamente più avanzate hanno aumentato la propria produttività, viceversa nelle altre imprese questa ha registrato un vistoso rallentamento. Quindi il calo nel ritmo di crescita della produttività nel complesso dell’economia sarebbe riconducibile alla mancata diffusione delle nuove tecnologie.

Andrews et al.[10] mostrano che il divario esistente tra imprese di frontiera e quelle meno avanzate è più ampio per i settori meno interessati da riforme volte a promuovere la concorrenza nel mercato (come, per esempio, il settore del commercio al dettaglio in confronto a quello delle telecomunicazioni).

Una possibile soluzione

Da queste analisi è possibile ricavare una possibile soluzione: la rimozione delle barriere alla concorrenza potrebbe spingere il processo di diffusione delle innovazioni determinando finalmente quell’aumento di benessere economico e produttività promesso dalle nuove tecnologie, ma non ancora realizzato. Mai come in questa fase servono leggi che spezzino i monopoli.

Un dibattito acceso

Non tutti gli economisti sono però convinti che la storia sia tutta qui. Ci sarebbero anche altri fattori per ottenere rendimenti migliori in termini di produttività. C’è chi sostiene che il ritmo più sostenuto dell’evoluzione tecnologica amplifichi l’importanza di nuove pratiche manageriali, con una gestione flessibile e decentralizzata e organizzazioni più agili. Nel contempo, dato che le imprese devono essere in grado di attrarre manodopera specializzata e lavoratori altamente qualificati per rispondere alle esigenze di cambiamento, una rigida regolamentazione in materia di occupazione può rendere meno agevole per le imprese attrarre questi lavoratori e adottare nuove tecnologie. L’adozione di tecnologie, in questi termini, impone che i processi organizzativi siano adeguati e concepiti in modo nuovo, al tempo stesso dipende fortemente dalle politiche pubbliche adottate.

C’è chi sostiene infine che il problema della bassa produttività in realtà stia nel minore potenziale di generare crescita economica delle nuove tecnologie digitali rispetto a quelle che hanno sostenuto le precedenti rivoluzioni industriali. Secondo questa visione, quindi, c’è poco da sperare anche per il futuro: l’economia digitale è un’economia matura e i benefici delle tecnologie attuali si sono già in gran parte realizzati.

La situazione dell’Italia

L’Italia nella classifica elaborata dalla Bce non è messa bene; negli ultimi 5 anni il divario con le performance continentali è rimasto invariato, sebbene il nostro Paese abbia fatto notevoli passi in avanti sul fronte dell’infrastruttura ultra broadband. L’Italia è poco oltre 40 ed è al quartultimo posto nella classifica europea. Unica nota positiva è la connettività (in particolare la banda larga), che ha raggiunto livelli comparabili nella maggior parte dei Paesi; pur tuttavia persistono differenze in altre dimensioni, come i livelli di capitale umano e l’integrazione delle tecnologie digitali nel settore pubblico e delle imprese.

Ma come mai il livello strutturale della digitalizzazione delle istituzioni private e pubbliche italiane è ancora ad una dimensione di notevole ritardo rispetto ai Paesi digital-oriented? Per quanto attiene alla capacità del nostro sistema economico di ricavare benefici di produttività dall’adozione delle tecnologie digitali, gli indicatori europei confermano come l’Italia abbia accumulato un considerevole ritardo nel passaggio al digitale, che solo recentemente sembra in via di recupero. Stime econometriche, tuttavia, confermano come dalla crescita della dotazione digitale in corso non stia corrispondendo alcun significativo impulso sulla produttività: “Ci troveremmo quindi di fronte sia a un problema di dotazione di base, sia ad un vero e proprio svantaggio competitivo, determinato dalla presenza di un più debole legame, rispetto ad altre economie, fra innovazione digitale e produttività[11]”.

La spesa pubblica per il digitale

Abbiamo un’enorme macchina pubblica che funziona secondo silos verticali, con procedure parcellizzate, che fa estrema fatica a ridisegnare i processi secondo quei modelli trasversali e collaborativi necessari per sfruttare al meglio le tecnologie di rete, le uniche in grado di abilitare le amministrazioni a svolgere al meglio il proprio compito. È una PA che, facendo estrema fatica a rinnovarsi, finisce per frenare la trasformazione dell’intero Paese. La spesa sul digitale effettuata nell’ultimo decennio non ha affrontato le priorità. Non ci siamo preoccupati, per esempio, dell’integrazione dei sistemi, che è qualcosa che i cittadini non vedono e di cui non beneficiano.

Scontiamo decenni in cui le amministrazioni pubbliche hanno effettuato acquisti in ICT per prodotti principalmente a basso contenuto di innovazione, o peggio, al massimo ribasso, quindi non in grado di stimolare e aiutare le imprese a innovare la propria offerta e ad aumentare il loro potenziale competitivo. Abbiamo un sistema d’istruzione che presenta un gap formativo sulle nuove tecnologie, non solo qualitativo ma anche quantitativo (potrebbero mancare tra i 70 e gli 80mila professionisti l’anno di ICT).

Per essere al passo con i Paesi con cui vogliamo confrontarci, in un Paese di “analfabeti digitali”, con un 17% della popolazione che non usa mai Internet (fonte Censis) e con un sistema formativo che fatica ad adeguare l’offerta verso le nuove tecnologie, una delle priorità è di investire in conoscenze e abilità digitali. L’economista Patrizio Bianchi, nel suo ultimo libro “Nello specchio della scuola”, propone di intensificare e approfondire il rapporto tra scuola e impresa, partendo da una rifondazione digitale degli istituti tecnici superiori (ITS) e utilizzando a questo scopo le risorse del Recovery.

Sarebbe utile riprendere anche quanto riportato nell’Osservatorio delle competenze digitali 2019, che in termini di policy ha raccomandato di “creare percorsi di laurea ICT trasversali o di filiera, incoraggiando la trasformazione di alcuni atenei o corsi di laurea in entità focalizzate ai temi trasversali del digitale (Cloud, Cognitive Computing etc.) e/o caratterizzate da un forte radicamento nel territorio o in settori specifici (filiere digitali, eHealth, macchine intelligenti, mobilità sostenibile, industrie creative e culturali, smart community) per fare di essi il “nodo accademico strategico” per conoscenze e competenze utili ad attivare interi ecosistemi digitali”.

La necessità di visione e strategia

La trasformazione digitale richiede allo stesso tempo una visione e una strategia e una governance multisettoriale “solida” che consenta di procedere su una prospettiva di medio-lungo termine, quindi in grado di sopravvivere ai cambi di Governo e andare oltre il campo breve dei cicli politici. Solo con questo orizzonte sarebbe possibile fare quelle riforme strutturali su fisco e PA, come nuove normative sul lavoro, sui prodotti e sui servizi finanziari, in grado di sfruttare appieno i potenziali guadagni dalle tecnologie digitali.

Negli ultimi 3 anni, per fortuna, qualcosa sta cambiando anche da noi. La strategia digitale del Governo, l’accelerazione dell’infrastrutturazione del territorio con la banda larga, l’avvio della sperimentazione del 5G, il lancio del Piano triennale per l’informatica pubblica, il Piano Industria 4.0 e il recente Piano Operativo della “Strategia Nazionale per le Competenze Digitali” rappresentano le principali azioni di sistema per riuscire a invertire la rotta.

Azioni che sembrerebbero anche aver stimolato le imprese e le istituzioni ad avviare un intenso inserimento della digitalizzazione nei processi produttivi e distributivi e nel contesto sociale, anche se il ritardo dell’Italia nello sviluppo del digitale appare ancora notevole, soprattutto nel settore pubblico. In questi termini la trasformazione digitale dell’amministrazione pubblica non è un’opzione ma una necessità.

Conclusioni

Le misure messe in campo finora dal Governo hanno fatto prendere coscienza del bisogno di recuperare i ritardi finora accumulati. In termini di digitalizzazione, l’attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNNR) può fornire importanti opportunità per recuperare questo ritardo.

Nella bozza aggiornata del PNNR gli investimenti per la missione “digitalizzazione, innovazione e competitività” sono saliti a 46,18 miliardi (il 20% del totale dei fondi del Next Generation EU). È ancora prematuro, vista la fase politica in corso, dare un giudizio definitivo sul Piano. Sicuramente va registrato il dato positivo dell’aumento delle risorse; bisognerà adesso guardare le azioni e le misure, perché se le ricette sono sbagliate e non si affrontano bene le priorità (livelli di capitale umano, offerta educativa, integrazione delle tecnologie digitali nel settore pubblico, struttura economica nazionale, istituzioni e governance) non scioglieremo mai quei nodi strutturali che frenano la nostra economia.

Questa maggiore consapevolezza non deve però farci illudere. Anche se ben indirizzati questi processi saranno lunghi, la “transizione” verso una nuova crescita potrebbe essere non breve e ci vorrà tempo prima di vedere i benefici reali. Non aspettiamoci perciò di scalare le classifiche DESI in breve tempo. Con la più bassa digitalizzazione e la minore crescita della produttività, l’Italia si troverà in zona retrocessione ancora per lunghi anni.

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Note

  1. Un fenomeno molto studiato in questi anni dalla letteratura economica, tant’è che l’elaborazione di politiche sull’economia digitale, in un contesto di rapidi cambiamenti, da diversi anni ha assunto un’importanza crescente, aumentando la domanda di nuovi dati e strumenti per studiare i legami causali fra innovazione digitale e produttività.
  2. Cfr. Banca Centrale Europea, Bollettino numero 8/2020, “L’economia digitale e l’area dell’euro”.
  3. Il settore pubblico può svolgere un ruolo importante nell’adozione digitale complessiva di un’economia. La trasformazione della pubblica amministrazione, la promozione delle opzioni digitali nell’istruzione pubblica e l’uso delle tecnologie digitali nel settore della sanità pubblica possono servire da trigger per una più ampia diffusione e più ampia accettazione delle tecnologie digitali nell’intera economia. Alcune delle economie più digitali dell’area dell’euro ottengono ottimi risultati in questo senso.
  4. Si veda, ad esempio, Kemp, S., “Digital 2020: April Global Statshot” , Data Reportal, 23 aprile 2020.
  5. Cfr. Cristadoro R., “Economia Digitale”, Banca d’Italia Nota Dipartimento di Economia e statistica, Anno 1, Numero 1, dicembre 2019  
  6. Da alcuni anni, l’OCSE è impegnato a potenziare gli strumenti statistici per monitorare l’andamento dell’economia digitale, attraverso un programma di misurazione basato su sei settori. Cfr. OECD “Measuring the Digital Economy”, 8 dicembre 2014 
  7. Stime recenti valutano il valore del mercato dei dati in Europa a 324 miliardi di euro nel 2019. Vedi Commissione europea, European Data Market Study, 2020.
  8. Ad esempio: D. Byrne, J. Fernald e M. Reinsdorf. 2016. “Does the United States Have a Productivity Slowdown or a Measurement Problem?” Brooking Papers on Economic Activity, Spring, pp. 109–157
  9. D. Andrews, C. Criscuolo e P. Gal (2016) “The Best versus the Rest: The Global Productivity Slowdown, Divergence across Firms and the Role of Public Policy“, OECD Productivity Working Papers No. 5.
  10. Cfr. Andrews, D., Criscuolo, C. e Gal, P.N., “The Best versus the Rest: Divergence across Firms during the Global Productivity Slowdown”, mimeo, agosto 2019
  11. Cfr. Cinquegrana G, “Economia digitale e produttività: errori di misurazione e fattori idiosincratici. Il caso italiano” in Economia Italiana, numero 1/2019.

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