Lavoro

Una nuova istruzione per preparare l’Italia alla rivoluzione 4.0

L’innovazione tecnologica ha un forte impatto sugli aspetti organizzativi e sulle competenze richieste ai dipendenti, specialmente per i profili intermedi: ecco perché il modo di fare formazione non potrà più essere lo stesso. O ci sarà un pesante impatto occupazionale. Ecco cosa è urgente fare

Pubblicato il 11 Gen 2021

Ruggero Colombari

PhD student, Politecnico di Torino

Paolo Neirotti

Politecnico di Torino

green ict

Sarà necessario che il mondo della formazione e dell’istruzione cambino, per accompagnare il Paese alla quarta rivoluzione industriale. Ed evitare così conseguenze sociali ed economiche negative.

Del resto, siamo in un momento in cui digitale e intelligenza artificiale entrano nelle fabbriche, nei sistemi produttivi, e non più solo nei sistemi di gestione e amministrativi dei “piani alti”: l’impatto è inevitabile, soprattutto per i “middle skill worker”.

Innovazione e occupazione, il contesto attuale

Lo scenario richiede attenzione, a maggior ragione visti gli ultimi dati.

Il settore manifatturiero, così come quello dell’agricoltura, sta registrando con la pandemia in corso forti perdite occupazionali, bilanciate solo in parte da un aumento nel settore dei servizi. Ciò che da qualche anno accomuna invece tutti i settori è lo stravolgimento del mercato del lavoro dovuto all’introduzione di nuove tecnologie come digitalizzazione e intelligenza artificiale. Si stima infatti che ne risentirà il 50% dei lavori: se da un lato “solo” il 15% potrebbe sparire, svolto dalle macchine e dagli algoritmi, il 35% cambierà in maniera sostanziale[1].

Questo ha un impatto sui cosiddetti “middle-skill worker”, professioni tecniche per cui sono necessari un diploma e formazione professionale, ma non una laurea (a oggi), come tecnici IT, specialisti di manutenzione e ispettori della qualità, operai specializzati della rete elettrica.

Le previsioni più pessimistiche parlano di una distruzione di posti di lavoro dovuta alle nuove tecnologie, in una polarizzazione del mercato del lavoro a cui sopravvivrebbero solo persone a bassa qualifica e specializzazione (come gig workers, assistenti familiari; ma non quelli che fanno lavori ripetiti facilmente automatizzabili) o al contrario molto qualificate (data scientist, medici…).

In questo scenario si genererebbero non pochi attriti, anche e soprattutto tra i giovani: mentre alcuni avranno accesso all’istruzione di alto livello, altri dovranno fare lavori meno qualificati e qualificanti[2]. In realtà, più che a una distruzione di tali middle-skill jobs (e, quasi di riflesso, della classe media), stiamo assistendo a profondi cambiamenti nella natura del loro lavoro.

Lo spauracchio della disoccupazione di massa

Nonostante le previsioni pessimistiche secondo cui le nuove tecnologie dovrebbero polarizzare totalmente il mercato del lavoro, eliminando la fascia intermedia, l’evidenza dice qualcosa di diverso. Le professioni con competenze intermedie sono sì in leggero declino rispetto al totale (da 50% negli anni ’90 a poco meno del 40% nel 2018[3]) complice anche l’aumento di impiego nel settore dei servizi, eppure le aziende continuano ad averne un forte bisogno. In molti paesi il numero di lavoratori con competenze intermedie aggiornate è molto inferiore al necessario e in calo, creando il cosiddetto “middle-skills gap”[4]. Negli Stati Uniti, per esempio, il 69% dei dirigenti delle risorse umane ritiene che le prestazioni delle aziende siano condizionate dalla difficoltà di attrare e trattenere figure intermedie competenti[5]. Negli ultimi due decenni tale gap si è allargato principalmente a causa di tre macrotrend:

  • invecchiamento della forza lavoro con competenze intermedie, soprattutto nei paesi industrializzati dove gran parte di questi lavori sono attualmente svolti da lavoratori prossimi all’età pensionabile e non si vede all’orizzonte un ricambio generazionale;
  • accademizzazione, per cui si mira al massimo livello di istruzione possibile indipendentemente dalle reali esigenze del mercato, che ha portato a un disinvestimento nello sviluppo delle competenze tecniche intermedie a favore di percorsi accademici non tecnici e di alto livello (vi è oggi un’inversione di questo trend con il diffondersi di ITS e lauree professionalizzanti);
  • digitalizzazione: sono necessarie nuove competenze con l’avvento dell’Industria 4.0 e le scuole superiori tecniche non tengono il passo con tale aumento della complessità, che renderà progressivamente non solo i tecnici e gli specialisti, ma anche gli operai sempre più “ingegneri”.

Operai e tecnici, sempre più ingegneri

Se da un lato la digitalizzazione rende i lavori amministrativi sempre più automatizzati e semplici, dall’altro i lavori operativi diventano sempre più complessi e centrali. Sono infatti gli operativi quelli che conoscono meglio il fenomeno e che possono fare sense-making dei dati. Altro tema di attenzione è il cosiddetto automation bias: nel momento in cui ha a disposizione molti più software e algoritmi, l’uomo tende a dare più importanza a ciò che dice la macchina rispetto a ciò che gli dicono esperienza e conoscenza. In ambienti sempre più digitalizzati, conoscere la teoria sottostante al fenomeno diventa imprescindibile per contrastare tale bias.

Anche in fabbrica, oggi, non vediamo più colletti bianchi e blu, bensì operai e ingegneri che si confrontano quotidianamente sulla risoluzione dei problemi. Se dieci anni fa l’ingegnere stava fuori dalla fabbrica, negli uffici, oggi i confini tra operativi e ingegneri sono sempre più labili. Questo ha tre implicazioni. Primo, saranno sempre più necessari e diffusi sistemi HR ad alto coinvolgimento. In molti ambiti gli operativi sono coinvolti in modo sempre più massiccio anche nello sviluppo prodotto, per esempio nel settore dell’automobile. Un conto è progettare un automobile, e un conto è costruirla. Coinvolgere gli operativi aiuta ad anticiparne i vincoli, e per farlo diventano fondamentali le soft skill di interazione, lavoro in team e leadership dei team leader per tirare fuori le idee dagli operativi e generare in loro autoefficacia. Solo allora si potranno vedere operai che prendono da parte un ingegnere per chiedergli se avesse risolto un problema emerso in un “circolo della qualità”.

Secondo, se è l’operaio quello che ha la conoscenza tecnica di dominio contestuale e tacita che può scovare eventuali errori dell’algortimo, è chiaro che il variabile dovrebbe pesare di più sullo stipendio. In Italia, però, spesso non funziona così. Terzo, ma non meno importante, l’aumento della complessità porta a un progressivo aumento della necessità di competenze. Sarà per esempio necessario saper comprendere e analizzare i dati e farlo in un modo scientifico, il tutto supportato da una forte base teorica. Il paradigma di formazione per le professioni tecniche intermedie è, come mai prima d’oggi, a un punto di non ritorno.

Implicazioni per la formazione: università, ITS e istituti tecnici

Per prima cosa, è urgente intervenire con forti investimenti nella formazione continua (erogata a oggi solo dal 60% delle imprese italiane contro il 75% della media OCSE[6]) anche per chi è già nel mondo del lavoro, un reskilling dei profili senior per affrontare la transizione da vecchi a nuovi lavori. Approcci come “training academy”, “living labs” o “teaching factory” faticano a decollare e diffondersi tra le aziende, e chi ne risente è proprio chi avrebbe più bisogno di formazione: la differenza tra profili non qualificati e profili molto qualificati, quando si parla di coinvolgimento in formazione continua, arriva addirittura al 40%[7].

L’esigenza di upskilling

Più a lungo termine, l’upskilling della forza lavoro richiede un grande lavoro alla base, con un più che mai urgente rafforzamento degli istituti tecnici. Come abbiamo ampiamente sottolineato, la teoria diventa importante, imprescindibile. Nei sistemi industriali in cui le scuole tecniche hanno lavorato poco sulla teoria e sulle basi teoriche, è più probabile che si verifichi il cosiddetto middle-skill gap, riconosciuto come uno dei motivi per cui paesi come il Regno Unito o gli USA stanno arretrando nel settore manifatturiero. Fortunatamente negli istituti tecnici italiani, a differenza di UK e US, l’approccio pedagogico è fondato non sul trasferire una professione, ma sul know-how, sul sapere il perché. L’avviso è quindi quello di non cambiare tale filosofia, e insistere su un approccio in cui la teoria è tanto importante quanto la pratica, in un contesto in cui i profili intermedi sono sempre di più chiamati a collaborare nel sense-making dei dati. Tuttavia, con la digitalizzazione è necessario che i curricola si aggiornino.

Le lacune del sistema educativo

A oggi, per esempio, l’insegnamento della statistica non ha un ruolo di rilievo in molti dei programmi di studio degli istituti tecnici, nonostante la crescente importanza di saper leggere un fenomeno, o un processo industriale, attraverso l’analisi dati. La formazione deve essere tesa a sviluppare tali capacità analitiche: sarà fondamentale padroneggiare nozioni come media e deviazione standard per poter essere coinvolti in miglioramenti di qualità di prodotto e di processi.

Negli ultimi anni, le aziende hanno cercato di colmare queste e altre lacune del sistema educativo di istruzione e formazione con percorsi di alternanza scuola-lavoro, oggi PCTO, e con l’erogazione di formazione “à-la-Netflix” tramite piattaforme come Coursera, Udemy o Udacity. In questo secondo caso, il lavoratore avrà bisogno di orientamento nella scelta dei contenuti (mentoring) e, con visione più a lungo termine, nella configurazione di percorsi formativi sensati, per i quali servono competenze pedagogiche non triviali da riprodurre in un contesto aziendale.

Istruzione 4.0: lo scenario futuro

Non è da escludere che tra non molto, probabilmente, in qualche fabbrica particolarmente automatizzata e digitalizzata si entrerà solo con un titolo di terzo livello. Lo stesso Politecnico di Torino ha creato un corso di laurea professionalizzante per formare operai 4.0. Politecnici e ITS, chiamati a formare figure tecniche di diverso livello, dovranno sempre di più collaborare e integrarsi in una “filiera della formazione tecnica” con aziende e istituti tecnici. In particolare, è l’università che può e deve avere un ruolo trainante e di collante.

Le sopraccitate competenze nella composizione di percorsi formativi vanno messe a disposizione degli ITS, delle academy, ma anche degli istituti tecnici, in ottica di rafforzamento e recupero dell’attrattività persa negli ultimi 50 anni, attrattività fondamentale per non incorrere nello skill gap sofferto dai settori manifatturieri di altri paesi. Trasferimento di conoscenze e tecnologie sviluppate tramite attività di ricerca, e formazione dei corpi docente per la didattica innovativa sono solo alcuni degli asset che università politecniche possono trasferire alle scuole tecniche superiori e di terzo livello, e di riflesso anche alle aziende, laddove si conducono percorsi di alternanza tra istruzione e formazione.

In conclusione

In ottica Next Generation EU, il paese sarà chiamato a capire queste esigenze e la loro urgenza, e “unire i puntini” facendo sistema, oltre a “ricalcarli” investendo. Si dovrà agire tanto sulla domanda quanto sull’offerta di formazione, e per farlo sarà sempre più imprescindibile mettere insieme tutti gli attori del sistema formativo.

__

Note

  1. Nedelkoska & Quintini 2018 (based on PIAAC data 2012)
  2. Da questo punto di vista, l’innovazione è la migliore ricetta per i sistemi di welfare: uno studio di Aghion (2017) mostra che più le imprese fanno innovazione, minore è il divario salariale tra personale qualificato e non qualificato.
  3. OECD Employment outlook 2017
  4. National Skills Coalition, 2015
  5. Bridge the Gap: Rebuilding America’s Middle Skills (Fuller, 2014)
  6. OECD Survey of Adult Skills (PIAAC 2012-2015)
  7. The Future of Work – OECD Employment Outlook 2019

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