La serie videoludica Mafia, ambientata in un arco temporale che va dagli anni Trenta ai Sessanta del 1900 negli Stati Uniti d’America, non lesina sulla dura narrazione, durante ciascuno e tutti i suoi tre capitoli (più uno) che lo compongono. E nemmeno sull’osceno rapporto che i mafiosi hanno con Dio.
Di seguito si parlerà quindi tra realtà e virtualità; tra verità e fantasia, tra passato e presente, tra oltre Atlantico e Italia, di Mafia: The City of Lost Heaven; Mafia: Definitive Edition; Mafia: II e Mafia: III.
Mafia: Definitive Edition, la donna nella rappresentazione mafiosa del videogame
Il contesto
«Per Cosa nostra la Chiesa era quella che, se ci fosse stato un latitante, lo avrebbe nascosto».
Con queste parole, a Famiglia Cristiana, il già mafioso e pluriomicida di professione Salvatore Grigoli nonché tra i sicari di don Pino Puglisi, “confessava” urbi et orbi quel che neppure gli uomini di Stato, sovente, hanno mai avuto il coraggio di pubblicamente proferire.
Dio e mafia non sono sempre stati ossimoro. Anzi, se di antagonismo espresso tra le due componenti si può oggi parlare, è perché più che storia, essa, è cronaca.
A distanza di quasi tre decadi da quell’esecuzione avvenuta a Brancaccio firmata da Cosa nostra, con un esemplare nonché inequivocabile colpo alla nuca a un pastore di Dio, è bene ricordare di come e di quanto nel frattempo, quella ancestrale connivenza tra sacro e profano, invece combattuta da Puglisi, inerisse non solo certune mele marce talari ma coinvolgesse anche importanti venature del potere di Mater Ecclesiae, come l’allora Istituto per le opere di religione (in acronimo IOR, la cosiddetta banca di Dio) retto dal “leggendario” arcivescovo statunitense Paul Marcinkus, l’“Andreotti” vaticano. Un uomo che riecheggia il leader democristiano non soltanto per l’inestricabile binomio di luci e di ombre che lo ammantava, ma anche per le laconiche per quanto brillanti freddure cui riservava ai suoi interlocutori, tra cui l’ormai imperitura frase de «la Chiesa non si governa ad avemarie».
Sempre Grigoli, infatti, in quell’iconica interlocuzione col quotidiano cattolico, preciserà: «Non [che la Chiesa] fosse [necessariamente] collusa, ma perché aiutava chi aveva bisogno. [Era] un territorio neutro». Peccato (non nel senso clericale) che in questa guerra, o si sta di qua o si sta di là. Perché di neutrale, nella lotta alla mafia, non c’è neanche il morto.
La realtà “reale”
Dell’apparentemente impossibile liaison tra sacralità e criminalità mafiosa, del resto, se n’è sempre vociferato fin dalla notte dei tempi, ove la criminalità organizzata veniva alla peggio intesa, per i porporati, come un fatto di pecorelle smarrite, quali erano assunti i picciotti: persone da “salvare” e non già da condannare con la rieducazione carceraria statuale. Nella “migliore” delle versioni, invece, la Chiesa o perlomeno una sua parte, era addirittura lusingata da cotanta “devozione” ostentata da uomini così potenti, ricchi e influenti quali sono quelli d’“onore”.
Nel magnifico saggio a quattro mani di Saverio Lodato e Roberto Scarpinato, titolato Il ritorno del Principe, quest’ultimo quale Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Palermo, riferendosi fin dall’Italia risorgimentale, positivizzerà che: «la cultura cattolica nella sua versione controriformista, antirisorgimentale, antiliberale e anticonciliare, i cui frutti sono stati l’obbedienza acritica ai superiori (perinde ac cadaver, obbedire sino alla morte, era il motto dei Gesuiti), il conformismo culturale, la doppia morale dei vizi privati e delle pubbliche virtù, l’appiattimento dell’etica solo sulla morale sessuale, il relativismo etico che consente a ciascuno – vittime e carnefici, dittatori e oppressori, mafiosi e antimafiosi – di avere il proprio Dio senza sentirsi in contraddizione con i precetti evangelici, la surrogazione della cultura dei diritti con quella dell’elemosina e infine il machiavellismo», hanno principiato un (in)aspettato retroterra culturale pregno di humus per una distorta per quanto forte interpretazione deistico-mafiosa.
Questo cocktail impazzito non poteva che oltremodo stimolare le riflessioni degli intellettuali, tra cui Augusto Cavadi che ne ha indagato e dato conto nel libro Il Dio dei mafiosi, ove “elabora” una “teologia mafiosa” dai risolutati «un po’ inquietanti. [Con] imbarazzanti analogie: [infatti] a volte accade che anche tra i credenti ci sia chi non prende abbastanza le distanze dalla cultura mafiosa. [Quanto compiuto dagli “uomini d’onore”] non appare sempre irriducibile, inassimilabile, rispetto alle strumentalizzazioni operate dalla cultura mafiosa», come ebbe anche a esplicitarlo nell’intervista per Avvenire.
Riassumendo, quindi: i mafiosi, per la Chiesa, erano persone committenti più peccati che reati, circostanze per cui la (ri)soluzione non poteva che essere spirituale anziché terreno-statuale. E soltanto a partire dall’ultimo decennio del XX secolo si è assistito a un’entità ecclesiale che, dal suo vertice, ha condannato espressamente e senza riserve l’essenza mafiosa.
Si badi che ciò significa che questa abiura accadde ben dopo il definitivo accertamento giurisdizionale del Maxiprocesso di Palermo del gennaio 1992 che cristallizzò perpetuamente l’esistenza unitaria di Cosa nostra. È infatti “soltanto” del 1993, ben «Dopo il chilometro e mezzo di autostrada polverizzato a Capaci e dopo quella domenica mattina che aveva trasformato via D’Amelio in una strada di Beirut», per dirla con le parole del già procuratore Gian Carlo Caselli che, vibrante, dalla Valle dei Templi di Agrigento, l’allora pontefice Giovanni Paolo II gridò quel «Convertitevi» riecheggiante in ogni angolo della Terra. Un urlo che superò il suo pontificato arrivando sino al successore, Benedetto XVI («La mafia è strada di morte») per poi deflagrare in plateale e ribadita per quanto clamorosa scomunica del Papa più disruptive mai apparso, Francesco. Per pubblici ammonimenti che si sono condensati sino a istituire, per la prima volta in oltre 2000 anni, il Gruppo di lavoro sulla “scomunica alle mafie” presso il Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale: per un’evoluzione del verba volant non soltanto impressa nello scripta manent bensì con volitiva cogenza del futuro de iure.
E se ben tre Vescovi di Roma consecutivi e radicalmente diversi, come sono i summenzionati, hanno predicato e persino agito contro la mafia, fortunosamente, pare oggi trovarci davanti a un’epoca in cui il sentiero antimafia trent’anni fa intrapreso, sta diventando una vera e propria strada di cammino confessionale.
Ebbene, è in quest’excursus cotanto scabroso, per poi essere redimente, che si contestualizza la serie videoludica Mafia.
Tra il sacro e il profano: la realtà “virtuale”
Lo si chiarisca sin da ora: essa è una tipologia di videogiochi destinata esclusivamente alla fruizione di un pubblico adulto (PEGI +18). La stragrande parte dei personaggi apparsi nei vari capitoli di Mafia, non sono mai singolarmente esistiti: così come i fatti videogiocati, se non per certuni soggetti (come la persona di “don Calò”, al secolo Calogero Vizzini, già capo-cittadino di Villalba e storicamente acclarato capomafia dell’immediato secondo dopoguerra di Cosa nostra) o circostanze evocate (come il proibizionismo o l’operazione Husky in Sicilia). I medesimi creatori concepiscono, inoltre, questi videogiochi come contenuto di puro entertainment.
Con che coraggio, allora, è possibile scrivere e mischiare una cosa tanto alta come la religiosità e un’altra cotanto bassa per quanto tragica, com’è la mafia, a un’“amenità” quale parrebbe essere il videogioco?
Con la stessa intrepidezza di Peppino Impastato che gridava con un’allora rivoluzionaria diffusione via etere, qual era Radio Aut, che «La mafia è una montagna di merda!»
Come la forma è, sempre, anche sostanza: così anche il percome un messaggio è veicolato, connota la destinazione e l’impatto di quel significato. Quanto più se, oggi, quel canale è il punto di riferimento delle nuove generazioni, proprio le stesse che debbono poter essere messe in condizione di apprendere, anche attraverso le loro proprie metriche di linguaggio, qual è il videogame, cosa siamo.
Perché, altrimenti, sarebbe confondere la semplicità con il semplicismo. La prima è cosa buona e parte dalla complessità per ridurla (senza minimizzarla), appunto, a semplicità: esattamente come il tap del dito sullo smartphone, che è un semplice gesto aduso per controllarlo, reso possibile proprio perché dietro, tra hardware e software, vi hanno lavorato decine di migliaia di ingegneri, per anni. Il semplicismo, invece, è quella cosa ove sarebbe tutto facile. Ma a parole: perché la realtà è più complessa di come, semplicisticamente, la si dipinge e qualora si sbagliasse, è sempre colpa di altri. L’esempio classico, oggi, è il commento da social come per anni, invece, è stato il ridurre la lotta alla mafia a una questione di soli buoni e cattivi, o, al contempo, quella di degradare il videogioco quale anche strumento comunicazionale, a giochino per “disadattati” o, al più, per bambini.
Ad anni Venti del XXI secolo del III millennio ormai da tempo inaugurati, infatti, il videogioco non è solo più un asset commerciale e di intrattenimento (anche quando esso è primariamente a ciò deputato), ma può essere un archetipo valoriale e culturale inusitato per quanto imprescindibile della società 4.0 (soprattutto nell’ex post pandemia), ma anche e maggiormente, un mezzo che attraverso il ludus, permette l’apprensione di nuovi concetti.
È per questo, quindi, che a mezzo secolo di distanza dall’avvento dei videogame come fenomeno masso-commerciale, è imprescindibile trattare di siffatto prodotto anche come medium, pure dalla prospettiva istruttivo-didattico-educazionale: perché ormai i videogiochi sono «un metodo formidabile di apprendimento per la didattica scolastica del futuro», che è già presente. E, per continuare con la prosa dello psichiatra Federico Tonioni, or ora citato, ai microfoni di Radio Popolare: «questo non deve spaventare, perché è un’evoluzione e non un problema», in quanto e, questa volta evocando un expressis verbis di don Pino Puglisi, è quel: «parlare di mafia [anche] a scuola, in modo capillare» che fa tutta la differenza del mondo tra lo stare di qua o di là della barricata.
Perché, ormai, il videogame è la cosiddetta decima arte e la mafia, da quel così lontano 1992, è un fenomeno criminale ormai acclarato: ma che non deve essere dimenticato, pure nella relativa calma degli apparenti pochi omicidi odierni. Perché la violenza armata è “solo” un’aggravante dell’associazione di tipo mafioso ex articolo 416-bis del codice penale. Cioè a dire che il puzzo rugginoso del sangue che scorre per le strade è solo una parte, l’extrema ratio, identificante la mafia.
Bisogna pertanto disporre della capacità e, ancor prima, dell’onestà intellettuale e dell’apertura mentale in grado di avere occhi nuovi non solo per guardare ma per vedere e osservare questa società dell’onlife di un mondo informazionale.
Perché, per virgolettare la filosofa Lorenza Saettone descrivente la videoludica: «il luddismo ha abbagliato le persone che, per questo, hanno sbagliato a capire chi fosse il cattivo». Perché il Moloch non è mai, in re ipsa, una tecnologia: ma chi la usa.
L’innovazione, anche educazionale, garantita dal videogioco è infatti un armamentario che può e anzi ormai quasi imprescindibilmente deve essere impiegato indirettamente o direttamente nello spiegare anche la complessità della realtà: come estrinsecato nel prossimo venturo manuale accademico destinato all’insegnamento, di pugno delle professoresse Manuela Valentini e Cristina Tonini Cardinali dal titolo Gioco, attività motoria, disabilità.
Come? Sfruttando la leva dell’interazione videoludica in grado di far scoccare la scintilla curiosale della conoscenza del gamer. Insomma, vedendo il videogame come spunto, come trampolino di lancio di un’esperienza ludo-narrativa da approfondire poi pure su altri ambienti, ambiti e fonti. Ma che già la storyline del videogioco può fornire, se non dipingendo un quadro ex se esplicativo, almeno contornando dei pixel descrittivi ed estrinsecanti il reale. E sì, anche la Storia, finanche quella più tragica, di questo nostro beneamato Paese, insanguinata dalle stragi di mafia, può trarne giovamento.
Un traguardo troppo ambizioso? Forse. Ma, prima, ci si conceda il beneficio del dubbio di questa lettura: tra storia e metanarrazione; tra reale e virtuale e tra interazione, divertimento, tragicità, erudizione nonché lievitante riflessione.
Mafia: tra l’originale e il remake
Impressiona pensare che, nel 2002, quando apparve sugli scaffali il capostipite del brand, con quel titolo denominato Mafia: The City of Lost Heaven, un videogioco potesse, altisonante, aprirsi nientepopodimeno che con un passo biblico: «Noi che siamo i forti abbiamo il dovere di sopportare l’infermità dei deboli, senza compiacere noi stessi» (Romani 15).
In un’entrata in scena forse ritenuta persino, oggi, “troppo”: tant’è vero che nella “restaurazione” di diciotto anni dopo, con l’uscita di Mafia: Definitive Edition, i nuovi sviluppatori, statunitensi di Hangar 13, ometteranno letteralmente quest’inscrizione.
A proposito, nelle due successive sezioni di articolo ci si riferirà esclusivamente al videogioco originale, salvo che non si esprima espressamente che la menzione videoludica occorra all’edizione «definitiva». Il perché di questa scelta è presto detta: The City of Lost Heaven, è e rimane il titolo sulla mafiosità contenutisticamente da “battere”, non soltanto all’interno della medesima serie ma per l’integrale panorama storico-videoludico, persino se, appunto, comparato diacronicamente col suo remake del 2020, con quest’ultimo capitolo che può e anzi deve intendersi, a ragione, come un altro storytelling perché legittimamente non fedele ricostruzione uno-a-uno di quello all’epoca sviluppato dai cechi di Illusion Softworks.
Inoltre, seppur ambientati negli USA, il raffronto sarà quasi sempre fatto con la nostrana mafia siciliana, per comparazioni fenomeniche non sincronicamente intese.
«Verrà il giudizio…»
Si entri nel vivo. Del gioco. Fin dal nome o, meglio, dal cognome del suo protagonista, impersonato dal gamer. Thomas (Tommy o Tom) Angelo, dapprima comune taxista e per una serie di circostanze (im)prevedibili, divenuto mafioso.
Angelo. «Angelo», esattamente come gli esseri spirituali che assistono e servono Dio. Per un cognome iscritto nelle sacre scritture e che, duplice, descrive fin dal nomen la parabola espiante e con ciò ascendente, compiuta dall’avatar “impersonificato” durante tutta la campagna in singolo e che porterà effettivamente l’Angelo ad addivenire a un sacrificante «“angelo” che dalla terra trapassa al cielo. Che dal nome suo proprio, dopo un percorso di redenzione ed espiazione dantesco, lo diviene di fatto», come il sottoscritto ebbe a evocare nel capitolo La mafia nel nuovo medium per il libro Mafia e mafie: Cosa nostra e la dote vincente.
E allora non stupisce, parlando di video-gioco, che al passo biblico in epigrafe; al cognome del protagonista evocante nientemeno che un ambasciatore di Dio, lo stesso richiami fin dalle prime cinematiche, la citazione materna di matrice fideistico-cristiana del «Le vie del Signore sono misteriose», usata per spiegare l’inspiegabile; per giustificare anche l’ingiustificabile.
Ma, al netto di questi manierismi, quand’appare, graficamente, un primo riferimento religioso? Esso è esibito nella camera da letto di Sarah, figlia del bartender Luigi del locale-copertura di proprietà del boss Salieri per cui lavora Tommy, quale futura moglie del nostro. In particolare, in alto e perpendicolarmente al letto della donna, apparendo in scena alle spalle del main character, proprio quando un’ancora per poco single fanciulla, principierà una dolce discussione che tra allusioni e chiedo-non-chiedo, la porterà a proferire il noto «Trovo che tu sia un cattivo molto buono» e con Tom che prontamente per quanto dolcemente, le risponderà: «A volte sono un buono molto cattivo», prima che i due si uniscano in romantico bacio.
In fondo, persino per un all’epoca rampante uomo d’onore, non si poteva dire che con quella risposta avesse fatto spergiuro: del resto, Lucifero non fu proprio un angelo caduto dal cielo?
Dopo quell’ultimo proferire sigillato dalle palpitanti e unitesi labbra, tra i due cala un focoso silenzio ove si intuisce l’appropinquarsi della prima notte d’amore tra i (futuri) promessi sposi. Ed è esattamente sotto la “benedizione” dei due angioletti con gli occhi pudicamente rivolti verso un altrove rispetto l’alcova traboccante di appassionata passione, che la scena stacca.
In quella cinematica in dissolvenza che evoca la deflorazione di Sarah, quello stesso uomo, l’indomani mattina, abbracciandola nel risveglio, tra sé e sé e col senno del poi, proferirà con una voce fuori campo: «[Lei] era un angelo, avevo avuto parecchie ragazze in precedenza, ma quella era una cosa diversa: completamente diversa. Capii che se avessi dovuto passare il resto della vita con qualcuno, quel qualcuno sarebbe stata lei», Sarah.
Lei, l’“empirea” Sarah: ricorda qualcosa? Sì, la donna nella rappresentazione mafiosa del videogame.
Il vero exploit, però, avverrà dopo. Con un’intera missione ambientata nella dimora del Signore: la Chiesa di Downtown più importante di tutta Lost Heaven.
Perché il contesto che portò Sarah e Tommy, quella notte, ad approfondire la loro conoscenza, non fu affatto faceto. In quanto, galeotto non fu né il libro di Paolo e Francesca né la paternità mafiosa di Luigi, bensì una tentata aggressione di gruppo a fini sessuali, di un branco di giovani che già avevano precedentemente molestato la signorina.
Dopo aver spento a suon di mazzate l’emergenza “contingental-securitaria”, Angelo avvisa il boss Salieri, che prende la tentata aggressione per fine di libidine, come un affronto al suo totalitario controllo territoriale e dà mandato di spaccargli «tutte le ossa», talmente tanto che «quei bastardi dovranno girare sulla sedia a rotelle». Non uccidendoli bensì menomandoli al punto «che i bambini ridano davanti ai loro musi ammaccati. Voglio che tutti vedano che succede quando qualcuno invade il mio territorio». Attenzione: questa funesta presa di posizione è data, in primis, dal fatto che dei cani sciolti si fossero permessi di spadroneggiare nel “suo” territorio (creando un vulnus all’“onore” e al prestigio della Famiglia) e in secundis dall’aver concentrato le loro “attenzioni” nientemeno che verso una discendente della “famigghia”, oltraggiandola. Non quindi, per porre “rimedio” in termini di “giustizia” a una potenziale aggressione bruto-carnale (neanche per la logica biblica dell’occhio per occhio, dente per dente).
L’incarico per annichilire il gruppetto criminale sarà conferito allo stesso Thomas e al suo collega-in-crime Paulie. I due, così, formeranno la spedizione di rappresaglia.
Scovati i malandrini, il duo ne invalida i componenti fuorché due che, capita l’antifona, sgommano in automobile. Dopo un rocambolesco inseguimento e tallonati da Tom e Paulie, i fuggitivi si schianteranno rovinosamente. Feriti e incastrati nel rottame fumante, diventano facile carne da macello. Paulie, in particolare, esasperato e stressato dall’intero affaire e dopo un’esitazione dell’Angelo nonché trascendendo l’esplicito mandato della missione impartito dal boss, sparerà a freddo tre colpi all’incidentato guidatore, Billy. Uno (il cadavere) e trino (gli spari) proprio come la Trinità che, evidentemente, si manifesterà di lì a qualche istante dopo, ossia quando il compare di Tommy si principierà a fare lo stesso coll’altro passeggero privo di sensi ma, inaspettatamente, facendo cilecca: la Colt 1911, infatti, si incepperà. Così rinunciando nel dare il colpo di grazia a un passeggero (solo apparentemente) già defunto.
Circostanza che costerà poi cara al “casato” criminale dei Salieri: perché proprio il succitato involontariamente “graziato” sopravviverà all’incidente stradale e riconoscerà in Angelo la responsabilità dell’omicidio (dando peraltro inizio a una concatenazione di eventi dalle grosse ripercussioni narrative).
Ma non è qui che premeva soffermarsi, bensì all’iconica ambientazione di missione non casualmente denominata «Il Prete» e strettamente connessa a questa appena estrinsecata.
E così, proprio dentro la dimora di Dio e con un accorato e caldo ricordo di Billy promosso da un retorico sacerdote, si assiste all’estremo saluto del giovane. Qui, il parroco si lascia all’ipocrisia parolaia del commiato, quello ove persino il peggior criminale ha il diritto di essere ricordato per “aver fatto (anche) cose buone”.
Ma l’accento è da porsi in quello che accadrà di lì a breve, dentro la casa di Dio: perché Angelo, individuato e riconosciuto durante la funzione funeraria, prenderà parte a una sparatoria di massa cui sarà l’unico superstite. Assieme al presbitero.
Terminata la strage, in un lungo e significativo dialogo con lo stesso, Tommy dirà: «Padre, quelli [cui lei stava ricordando con dolci parole] erano criminali: truffatori e assassini. Quello nella bara lì davanti, voleva violentare la mia ragazza. Forse Dio voleva che accadesse. Ma molta gente vivrà meglio a partire da oggi».
Il reverendo, di tutta risposta, chiederà come possa un uomo come lui, dopo aver fatto quello che ha appena commesso, nel riuscire anche soltanto a guardarsi in faccia. Thomas non replicherà se non porgendo una sostanziosa mazzetta di risarcimento per i danni arrecati e per comprarsi il silenzio. È l’“offerta che non si può rifiutare” al di là della spiritualità, per poi concludere: «preghi per la mia anima, padre: perché ne avrò bisogno».
La scena si chiude con il pastore che conta i centoni appena ricevuti. Di quella strage non se ne parlerà, in città: anche grazie a quella connivenza tra pavidità, opportunismo, corruzione e secretata spiritualità “confessoria” garantita dal don.
Cosa nostra non ha mai compiuto una strage simile entro le mura confessionali, come probabilmente la memoria può essere andata nell’evocazione del massacro di innocenti compiuto nel 2015 a Charleston e compiuto da un bianco razzista lupo solitario: poi condannato a morte e con pena ancora da eseguire. La mafia, in Italia, ha però attentato a due simboli religiosi con autobombe sapientemente piazzate e sincronizzate per esplodere contemporaneamente, in quello che è un tassello di alcuni dei processi più importanti della Storia nostrana, come la cosiddetta trattativa Stato-mafia presso la Corte d’Assise d’Appello e con decisione prevista tra pochi giorni. In quella notte estiva del 1993, Cosa nostra rese inagibili le chiese di San Giovanni in Laterano e quella di San Giorgio in Velabro, non a caso con i nomi di battesimo dei rispettivi Presidenti della Camera dei Deputati (Giorgio Napolitano) e del Senato della Repubblica (Giovanni Spadolini). Parlando di quell’attentato, l’allora Presidente del Consiglio dei ministri Carlo Azeglio Ciampi, dirà: «ebbi paura che fossimo a un passo da un colpo di Stato. Lo pensai allora, e mi creda, lo penso ancora oggi.»
C’è infine un ulteriore dettaglio su cui è necessario riflettere, durante il mesto confronto tra il salvatore di anime e il peccatore virtuale, infatti, in un certo frangente il parroco dirà al protagonista: «Le vie del Signore sono insondabili», mutatis mutandis, un’iconica frase religiosa, peraltro evocata fin dai primi istanti di gioco nientemeno che dal ricordo che Thomas fa di sua madre, citandola con la locuzione «Le vie del Signore sono misteriose». Fa specie come e quanto una sostanzialmente identica citazione, possa assumere tutt’altro, opposto, significato in virtù di chi la pronunci e in quale circostanza.
Sia concessa un’ulteriore riflessione: perché è rilevante denotare come gli stessi “uomini d’onore” di un certo “lignaggio” si definiscano «don» (sia nel videogame quanto nella realtà e viceversa): termine usato, per altisonante rispetto, sia per significare i membri del clero, sia per dare lustro a note e nobili persone della laica società. Mafiosi inclusi. Intersezione tra sacro, laico e “profano” per una connotazione che non stupisce i conoscitori di mafia: perché la classe cui originariamente si fa discendere la nascita di Cosa nostra nell’Italia post-unitaria, è proprio quella istruita, facoltosa, ricca e potente di una certa nobiltà isolana.
Non è sempre tutto bianco o nero quanto piuttosto una scala di grigi. «Il male esiste, va affrontato: e il primo passo è riconoscerlo e nominarlo», dirà, un giorno, il cardinal Carlo Maria Martini.
«Non ero un uomo. Ho ucciso solo per dimostrare di esserlo» [Leonardo Vitale]
Concernendo Mafia: Definitive Edition, è singolare per quanto riuscito il richiamo che Frank Colletti, il borghese consigliere e white collar della famiglia mafiosa Salieri, descriverà l’estorsione (also known as pizzo): usando parole che l’accomunerebbero all’opera di San Michele, il santo protettore dei commercianti che difende gli imprenditori. Per una protezione garantita dai mafiosi per mali che, si sa, altrimenti sarebbero in primis causati proprio dai medesimi. Ma che l’associazionismo a delinquere di stampo mafioso, “genuinamente”, vede e “vende” come una protezione a trecentosessanta gradi: il che è anche concretamente vero, ovverosia non solo per i danni che loro stessi si asterranno dal fare, ma pure per quelli che il tessuto criminale di strada (alias comune e non mafioso), potrebbe arrecare. Garantendo in altri termini un servizio di “indagine” alternativo a quello delle Forze dell’Ordine, di cui talora si sono effettivamente serviti gli stessi taglieggiati (sul tendenzialmente efficiente “recupero” assicurato dai mafiosi, assurse alle cronache il caso riferito ma non giudiziariamente provato del fuoriclasse Maradona: all’epoca vistosi restituito parte della refurtiva dalla camorra).
Proprio come in una certa interpretazione pittorica dell’Annunciazione in cui l’Immacolata non riesce a guardare negli occhi l’Arcangelo, d’un tratto, anche nel gioco irromperà il quesito quale expressis verbis del sacerdote parlante con Tom in Mafia: The City of Lost Heaven: «riesci a guardarti in faccia? Le tue mani sono macchiate di sangue per sempre».
Un ingombrante interrogativo che riproporrà, immutato, sul tavolo al nostro alter ego virtuale, il laico detective Norman, quando lo incalzerà: «Ti pareva normale uccidere?»
Con l’Angelo che, seraficamente, a quest’ultimo risponderà: «Io non sono uno di quelli con la mania del sangue: non ho bisogno di violenza nella vita, ma non ho nemmeno rimorsi. [I Morello, quelli della famiglia mafiosa rivale] volevano fregarci: così noi dovevamo [fottere] loro, nessuna scusante. Per me era la stessa cosa: non mi importava del destino degli altri, tutti dicevano che era solo una questione di affari e che la Famiglia teneva uniti. Era diverso rispetto al vivere da soli: senza che nessuno che si curi di te. All’improvviso tutti quelli che incontri ti rispettano, tutti sanno che puoi aiutarli ma anche che puoi rovinargli la vita. Cercano tutti di entrare nelle tue grazie».
Perché sì, come dirà Sam, l’ormai non più amico di Tommy, nella missione finale: «Da qui non si torna più indietro, mi dispiace». In quanto è vero, una volta dentro a Cosa nostra, lo si è sino alla fine: potendone uscire solo da morto. O assassinato o sepolto dagli ergastoli.
E se ad Angelo toccò la prima, fu perché scardinò la legge dell’omertà. Perché ebbe a collaborare, per evitare la seconda dopo la commissione di decine di omicidi, proprio come il realmente esistito Giovanni Brusca con all’“attivo” 150 morti ammazzati.
Perché grazie la coadiuvante azione del poliziotto Norman, infine, Thomas Angelo confesserà dieci anni di vita criminale, contribuendo proprio grazie a questo, a smantellare l’intera Famiglia Salieri: e dopo un periodo di otto anni passato in isolata restrizione, la sua scelta in do ut des con la Giustizia gli garantì una vita nuova, con la moglie e la figlia, nella lontana e apparentemente sicura Empire Bay.
Per un conto, però, con la “Famiglia” che pagherà con il sangue: terminato a suon di lupara dal commando mafioso guidato da Joe Barbaro e Vito Scaletta, rispettivamente personaggio di spicco e protagonista di Mafia: II, il sequel.
E, si badi, che questo agrodolce finale fu più edulcorato di quanto in veritatem accadde, in Italia, quarant’anni fa: quando un davvero esistito Leonardo (Leuccio) Vitale divenne il «primo» pentito della storia di mafia.
Non solo egli fu un collaboratore di giustizia (ovverosia colui che utilitaristicamente confessa, descrive e denuncia, dall’interno, Cosa nostra allo Stato per ottenere benefici giustiziali in virtù della rottura mafioso-omertosa), ma essendo un vero e proprio nonché primo se non forse anche unico «pentito» di mafia. Pentito nella significazione propria della Treccani, di «rimorso, dolore e rammarico per aver fatto cosa che si vorrebbe non aver fatto». Perché oltre il coraggio di confessare, ebbe a: intellettualmente, sentimentalmente, moralmente, intimamente, eticamente e spiritualmente rinnegare la mafia.
Un esempio di chi, invece, collaborò ma mai ebbe a pentirsi fu il più importante collaboratore di giustizia di Cosa nostra: Tommaso (don Masino) Buscetta. Egli morì in Florida (USA) con la cultura mafiosa ancora viva (ma senza “esercitarla”) e protetto tanto dalle autorità federali statunitensi quanto da quelle italiane. Perché? In quanto senza un “tradimento” della consorteria dal di dentro, semplicemente, i delittuosi fatti mafiosi non si saprebbero, andando perennemente impuniti. È per questo che l’omertà è così importante, pressoché vitale, per le mafie. È ora palese, allora, del perché ogni «cornuto» che collabori con la Giustizia venga “condannato” a morte dalla mafia. Senza eccezioni. Per una decisione sanzionatoria imprescrittibile e immutabile. Ed è (anche) per questo che la mafia non venne giudizialmente, definitivamente riconosciuta nella sua unitarietà, per oltre centotrenta anni dallo Stato italiano (1861-1992).
Per questo è vitale non utilizzare a sinonimia i due termini (collaboratore di giustizia e pentito), essendo distinti e distanti: Leuccio, fu entrambi.
Oggi, per l’ordinamento giuridico italiano (sconti di pena e altri benefici) conta essere un collaboratore di giustizia. Perché il pentimento propriamente detto ha una valenza morale e al più di etica, non legale. Ed è giusto così: libera Chiesa in libero Stato.
Parimenti non bisogna gridare necessariamente allo scempio laddove persino stragisti sanguinari, anche quali assassini di ragazzini come Giovanni Brusca, escano dal carcere dopo un quarto di secolo di restrizioni: è stata infatti la loro corroborata parola a scoperchiare i sepolcri imbiancati del silenzio mafioso. L’importante è che lo Stato giochi a carte scoperte: il disvelamento della verità e la sua scoperta processuale non è un pranzo di gala. Lo sanno particolarmente bene gli statunitensi con il loro pragmatismo imperituro (da noi positivamente scimmiottato dapprima col terrorismo storico e poi con la mafia), ove per disarticolare importanti associazioni criminali, le fanno implodere dall’interno attraverso la collaborazione anziché tentare di schiacciarle penalmente dall’esterno, evitando così che si chiudano a testuggine. È, a oggi, solo un rumour ma, laddove davvero i federali fossero riusciti a convincere nella collaborazione “El Chapo” Guzmán, ossia uno dei più grandi narcotrafficanti dai tempi di Pablo Escobar, si renderebbe patente un’altra vittoria dello Stato (di cui, ovviamente, ne gioverebbe in termini di concessioni liberali persino un “macellaio” come Guzmán): perché più in alto un criminale collabora, più tellurico è l’impatto che si propaga nella criminalità.
Ma, ahinoi, tornando al sacrificio di Vitale rispetto all’Angelo, non valse giuridicamente la candela della sua vita: perché nell’Italia dei Settanta del XX secolo non ci fu neanche il contentino dei “buoni” trionfanti sul male. Dei buoni che almeno vincono una battaglia nella guerra all’illegalità malavitosa. Perché Vitale verrà cornuto e mazziato. Per capire il tragico paragone, pertanto, si ripercorra brevemente la sua ineffabile vita.
Leuccio discendeva da quattro quarti di mafiosità: dallo zio in particolare, ne seguì le orme fino a divenirne un sicario rodato. Indagato e assoggettato in custodia cautelare per un delitto cui veniva accusato, egli soggiornerà in carcere per circa un mese: un tempo non così lungo per un consapevole mafioso che sa di dover passare il “battesimo” carcerario per più o meno tempo, quale parte della propria vita di picciotto.
Eppure, Leouccio, vive quelle settimane non come un peso: ma a peso specifico. Lì, infatti, si convertirà a Dio.
Uscito per insufficienti indizi di colpevolezza, comunque, nella primavera 1973, spontaneamente si presenterà presso la Squadra Mobile di Palermo per costituirsi e confessare tutto quello che sapeva e aveva commesso. Era un fiume incontenibile, in piena e in pena.
Proferì tutto, ma proprio tutto: autoaccusandosi di omicidi, estorsioni e sequestri di persona; elencando vittime e carnefici; mappando mandamenti e annesse nomenclature familiari con rispettive alleanze (nomi del calibro di: Stefano Bontate; Giuseppe Calò; Bernardo Provenzano e Salvatore Riina), anticipando sostanzialmente di un decennio la rivoluzione fenomenico-delatrice del “boss dei due mondi”, Buscetta.
Decine e decine di pagine di dichiarazioni a verbale cotanto esclusive ed esplosive da… Non essere (volutamente) capite.
Seguì infatti un processo che si risolse quasi all’acqua di rose. Fuorché, sostanzialmente, per due individui: l’uomo che portò Leonardo ad affiliarsi, ovverosia lo zio Giovanbattista (Titta) Vitale, condannato ma già scomparso per lupara bianca e lo stesso Leuccio, condannato e da ultimo dichiarato seminfermo di mente, addirittura sottoposto alla “cura” dell’elettroshock.
Lo si gridi a pieni polmoni: il primo pentito della storia di mafia fu considerato un pazzo. Venendo rinchiuso per 11 anni, tra carceri e manicomi.
Lo si ripeta: il primo pentito della storia di mafia fu considerato uno squinternato.
«Ero pazzo quando uccidevo e non ora […]: ora sono rinsavito», dirà Vitale. Certo che per essere un folle, articolava discorsi particolarmente assennati…
La storia di Leuccio è quella della tragica fantasia che supera la dura realtà, consegnata alla memoria, al di là da queste righe: dall’Associazione Leonardo Vitale; dall’opera letteraria di Salvatore Parlagreco, L’uomo di vetro, con successivo lungometraggio e dal recente libro di Salvatore Agueci, Leonardo Vitale: la mia battaglia l’ho già vinta.
Ma, tutto questo, come diamine fu possibile? Risponderanno anni e anni dopo i magistrati al lavoro sul Maxiprocesso di Palermo: ciò avvenne «per il clima culturale dell’epoca, secondo cui soltanto un pazzo avrebbe potuto violare la ferrea legge dell’omertà».
Vitale era un morto che camminava. La mafia, però, non lo toccò per tutto il tempo che fosse, in vario modo, recluso. Affinché patisse la dura pena (tra carceri e manicomi) dello Stato prima di quella capitale di Cosa nostra.
In tal senso, dal pugno di Giovanni Falcone su quelle stesse iconiche carte processuali, si legge: «Scarcerato nel giugno 1984, [Leonardo Vitale] fu ucciso dopo [neanche sei] mesi, il 2 dicembre, mentre tornava dalla messa domenicale. A differenza della Giustizia dello Stato massomafiosa, la mafia percepì l’importanza delle sue rivelazioni e lo punì inesorabilmente per aver violato la legge dell’omertà. È augurabile che, almeno dopo morto, Vitale trovi anche tra i tanti Santi della Chiesa il credito che meritava e che merita».
Un finale tragico e vero, persino più devastante di quello di Mafia: The City of Lost Heaven. È l’incredibile storia di mafia: di quel reale che supera non solo il virtuale bensì la stessa immaginazione. Dio perdona, la mafia no.
«Mamma, ho sentito che hanno arrestato molte persone di cui io avevo fatto il nome indicandole come appartenenti alla mafia, fra questi c’era anche lo zio Titta. Mamma tutto ciò è successo a causa mia, e mi addolora molto di avere gettato nella disperazione molte famiglie ma spero che mi comprenderete. L’ho fatto e intendo andare sino in fondo. Tutti gli uomini che agiscono nel bene mi comprenderanno, io intendo aiutare la legge e la giustizia a stroncare questo cancro che infesta la nostra terra e così nello stesso tempo dare la possibilità a tutte queste anime di entrare nella grazia di Dio col pentimento dei nostri peccati. Mamma, Maria ma capite cosa fa la mafia, avete idea di tutti i crimini che commette solo per raggiungere lo scopo di guadagnare soldi, il vile denaro. Chi siamo noi, miserabili uomini che ci arroghiamo il diritto di giustiziare dei nostri simili, nostri fratelli, di sostituirci a Dio onnipotente nel dare la morte; pazzi, solo dei pazzi» (estratto di una missiva di Leonardo Vitale inviata ai familiari).
Leonardo Vitale è morto. Viva Leonardo Vitale
«Io non godo della morte del malvagio, a che si converta dalla sua malvagità e viva» (Ez 33, 11).
A distanza di quasi quarant’anni, oggi, il sottoscritto ritiene che Leonardo Vitale, già assassino di mafia redento in vita, possa un giorno addivenire a “primo” collaboratore di giustizia non soltanto a essersi pentito ma a farsi santo. Sarebbe, tra l’altro, la definitiva ed eterna presa di distanza clericale dalla perverso-religiosità mafiosa. Impossibile, folle o inaccettabile che possa sembrare, si sappia che il primo e unico santo canonizzato del cristianesimo direttamente da Gesù fu proprio il Buon ladrone.
Sarebbe la realtà che supera l’immaginazione. Ma non un miracolo perché, la storia anche di (anti)mafia, tra bruttezze e bellezze rispettivamente impensabili e insperate, ha reso possibile pure l’impossibile.
Scriverà Enrico Isidoro Guida per il Centro di Studi ed Iniziative Culturali Pio La Torre ONLUS: «Infine Vitale è riuscito a dimostrare, come poi hanno fatto personaggi come Don Puglisi, come la fede religiosa, se ben usata, può essere anche un’arma contro la mafia».
In tutto questo Thomas Angelo è più simile a un “semplice” collaboratore di giustizia (Buscetta) anziché a un pentito (Vitale). Il che lo rendo ancora più sfaccettato, umano.
Il rivisitato finale di Mafia: Definitive Edition
Nell’evocativa missione denominata «Il Santo e il peccatore» dell’ultimo Mafia, Thomas, dentro un bordello, si prodiga in un segno della croce prima di compiere un “salto della fede” stile Assasin’s Creed: balzo riuscito solo grazie all’onda d’urto dell’esplosione dinamitarda del locale da lui stesso attentato, che agisce sulla falsariga dello Spirito Santo nel non farlo precipitare rispetto un’altrimenti distanza troppo ampia. Per un “atterraggio” integro e che gli permetterà di raggiungere l’echeggiata chiesa cittadina per assistere alle esequie dello scavezzacollo Billy, e compiere un’altra mattanza.
Profano (casino) e sacro (luogo di culto) nel primo caso; sacro (commiato) e profano (omicidio) nel secondo: opposti in apparenti contrasti, ma inestricabilmente intricati in quanto attraenti.
Così come quando, Angelo si esibirà in un ulteriore e liberatorio segno della croce, nel penultimo livello denominato «Secondo lavoro», ovverosia all’esito di una missione tracotante di adrenalina, cioè quando lui e Barbaro compiranno il “colpo della vita”. Che anziché affrancarli dai servigi da picciotti, però, diverrà il preludio della fine di una vita: sia per Tommy che per il fraterno amico Paulie. Su vendetta del padre-padrino-padrone Salieri e del “Giuda” Sam Trapani.
Non è un caso allora che risvegliatosi l’indomani dal suddetto colpo, il protagonista venga accolto in cucina dall’inconsapevole neo-moglie Sarah, con un ficcante: «Non ci credo: “Gesù” finalmente è risorto». Perché ancora Thomas non lo sa ma quella palingenesi non gli deriverà dai cash fatti con la maxi-rapina in banca bensì, eterogenesi dei fini, con la perdita di tutto quello che aveva conseguito, dovendosi poi necessariamente “buttare pentito”.
E parlando di morte, è di rilievo constatare che i funerali tra i mafiosi rappresentati nel videogame siano sempre location stracolme di formalità e ipocrisia: senza soluzione di continuità tra vittime e carnefici; martiri e traditori; assassini e innocenti; nemici e amici. Luoghi in cui si piange e si stringe la mano a persone cui si è lanciata una sentenza di morte che compirà o ha già compiuto, un altro membro della consorteria. Si pensi infatti che i due superboss Salieri-Morello, in guerra per spadroneggiare a Lost Heaven, si incontreranno fisicamente solo nelle occasioni funerarie. Di gente che avevano loro stessi eliminato, anche l’uno contro l’altro: de relato, al funerale di don Peppone, loro padrino e dai medesimi a suo tempo liquidato; poi, da Frank Colletti (il riciclatore ricattato da Morello, pertanto tradente Salieri e proprio perciò da quest’ultimo terminato).
Parafrasando il modo di dire, l’“ultima” via del Signore è perfetta per ritrovarsi tutti assieme: dagli amici mi guardi Dio, che dai nemici mi guardo io.
Giunti al the end dell’analisi sul I capitolo, tra originale e rivisitazione, ci si focalizzi in particolare nell’interpretazione che ne ha dato la nuova versione. Angelo, infatti, nell’epilogo del remake muore consapevole, senza sorpresa di essere arrivato a fine corsa per mano violenta (contrariamente allo stupore denotabile dall’interiezione che fa il protagonista nel capostipite). Qui, infatti, nell’Empire Bay del 1951, mentre è riuscito a (ri)farsi una vita grazie la nuova identità garantitagli dallo Stato in virtù della collaborazione e mentre annaffia il casalingo giardino, sarà chiamato alle spalle: «signor Angelo». Con Tom che, differentemente dall’episodio del 2002, in quell’istante di pronunzia: capisce; spegne l’irrigatore e lo ripone in giardino; si volta e quasi serafico, con un assenso fatto con il capo e rafforzato con un «Sì» vocalmente proferito, “accoglie” il dilaniante colpo di lupara.
Piccoli accorgimenti autoriali che fanno tutta la differenza del mondo e che contribuiscono a (in)segnare due giochi, l’originale e la palingenesi, narrativamente diversi. Perché si sa, il Diavolo si nasconde nei dettagli.
Diversamente dal monologo conclusivo tutt’oggi più significante in The City of Lost Heaven, questa dinamica della Definitive Edition, sottilmente differente, ha comunque il suo quid.
Anche perché, con i gargantueschi dovuti distinguo (dati dal fatto che il don di Brancaccio ha sempre e soltanto vissuto nel giusto), ricorda la testimonianza sacrificale di don Pino Puglisi: quando il commando di Cosa nostra parimenti composto come nel videogioco da due componenti, lo raggiunse alle spalle in parrocchia e prima di giustiziarlo lo chiamò per nome, con la futura vittima che rispose, quasi sorridendo, «Me l’aspettavo».
Oggi, Giuseppe Puglisi è beato quale martire cattolico ucciso da Cosa nostra perché fornente ai giovani derelitti della periferia, un’alternativa alla vita delinquenziale, trovando, per ciò solo, una prematura per quanto barbara morte.
Il “Papa” di Cosa nostra
Anche Cosa nostra ha avuto il suo “Pontifex”, ovviamente solo quale “nick-name” di un proprio eminente boss: Michele Greco, appunto, detto «Il papa». Soprannominato così in base alle sofisticate capacità di mediazione cui si rese artefice per calmierare, per edulcorare e per sedare le tensioni che emergevano, di volta in volta, tra le Famiglie. Condannato definitivamente almeno a cinque ergastoli, con il senno del poi di lui si ricorda la pubblica citazione, assimilabile in preghiera, tra le più significative della storia di mafia e proferite nell’ultima udienza del Maxiprocesso a Cosa nostra di Palermo, prima che la Corte si fosse ritirata in Camera di consiglio, la stessa che poi gli irrogò il primo «Fine pena mai». La formula pronunziata da dietro le sbarre, così recitava: «Io desidero fare un augurio. Vi auguro la pace signor Presidente [del Collegio giudicante], a tutti voi [i giudici] auguro la pace perché la pace è la tranquillità e la serenità dello spirito e della coscienza e per il compito che vi aspetta la serenità è la base fondamentale per giudicare. Non sono parole mie, sono parole di Nostro Signore che lo raccomandò a Mosè: quando devi giudicare, che ci sia la massima serenità, che è la base fondamentale. Vi auguro ancora, signor Presidente, che questa pace vi accompagni per il resto della vostra vita».
Mafia II: il “fedele” giuramento a Cosa nostra «ON-AIR!»
Mafia 2, rilasciato oltre dieci anni or sono, è l’esponente della serie dalla trama più intricata e sofisticata della serie: per un salto di qualità negli intrecci di potere, intrighi e tradimenti. Per la prima e unica volta tra i videogiochi criminali con budget elevato, inoltre, sarà mostrato in una scena d’intermezzo, il fedele rito di affiliazione a Cosa nostra.
Avviene a metà gioco: consesso segreto e ristretto composto dai più alti “uomini d’onore” della metropoli; vestiti eleganti; portamento affettato e ricercato; incisione sanguinante del dito con punta appuntita, ossia la cosiddetta “punciuta” con gocce di sangue colanti sull’immagine sacra che, passata per le mani, viene bruciata mentre l’affiliando pronuncia la frase grossomodo corrispondente a quella effettiva. Che, ricordata nell’opera letteraria intitolata Per non morire di mafia, del compianto giornalista Alberto La Volpe e del già Procuratore nazionale antimafia, Pietro Grasso, recita: «Giuro di essere fedele a Cosa nostra. Possa la mia carne bruciare come questo santino se non manterrò fede al giuramento». È il cosiddetto rito Sacro dei Beati Paoli. L’unica (importante) omissione è il bacio sulla bocca all’esito del rito, rappresentato a schermo con un più casto bacio sulla guancia.
«La famiglia nostra è più importante di Dio», chioserà il mammasantissima digitale durante la cerimonia. In questa fase del videogioco, siamo negli USA degli anni Cinquanta, di una cultura, anche mafiosa, tendenzialmente emancipante e anticipante i tempi rispetto la tradizione della Cosa nostra puramente siciliana. Si intravedono, infatti, i primi barlumi di una “de-mafiosizzazione” tradizionalista che ironicamente o meno, si dice colpire gli italiani che eradicano dalla Penisola per trasferirsi sine die all’estero.
In questo caso, in altri termini, è il principio di una mafia fedele alle “tradizioni” solo per le “feste comandate”, come appunto il giuramento di un “uomo d’onore”.
Lo si capisce fin dai primi istanti di gioco quando il primo riferimento religioso occorre nella casa familiare di Vittorio Antonio Scaletta, detto Vito, il protagonista del videogame, quand’ancora risulta essere soltanto un “ladro di polli” e che soltanto dopo il sollecito materno proferirà la preghiera pre-pasto: «Benedici Signore questo cibo che per la tua volontà stiamo per prendere. Provvedi anche per coloro che non ne hanno e rendici partecipi della tua benedizione: per Cristo nostro Signore, amen».
Vito, all’epoca era un ventenne di una Potenza impegnata nella Seconda guerra mondiale, quale fante appena rimpatriato perché ferito al fronte siciliano, avendo servito (di necessità in virtù) il 504° reggimento di paracadutisti, i soprannominati «Diavoli con i pantaloni gonfi» (Devils in Baggy Pants): anche qui è possibile vederci un collegamento. Devil, diavolo come è Vito sia in tempo di guerra che in tempo di pace e baggy pants per tutta quella refurtiva che avrebbe poi sottratto durante l’intera sua vita criminale e che gli costò oltre il fronte, un’altra reprimenda dello Stato: venendo successivamente condannato a dieci anni di detenzione in una prigione federale.
Quanto va in scena appare come una mafia più “laica” e affarista di quella del primo episodio: del resto siamo in pieni anni Cinquanta americani. Anni ruggenti. Di una realtà che sta iniziando a vivere, per la prima volta dopo tempo, delle frizioni generazionali anche infra-mafiose (come il traffico di stupefacenti). Si badi che in Italia, nei medesimi anni, si era ancora profondamente radicati nella tradizione, religiosa inclusa. Storicamente il salto decisivo lo si ebbe nell’autunno del 1957, quando, presso l’Hotel delle Palme di Palermo tutti i capimafia esistenti, anche d’oltre Atlantico, tennero il meeting che costituì la “nuova” Cosa nostra, quella che si sarebbe consacrata nelle forme e nelle strutture odierne nonché la medesima che la rese la “regina” del traffico internazionale di droga, per tutta la seconda metà dello stesso secolo.
Prima di proseguire con l’ultima iterazione, solletica qui rilanciare alcune chicche: due citazioni e un dialogo ritenuti significativi.
La prima la proferisce Steve Coyne, sicario della Vinci family, che legittimerà una delle più spettacolari missioni del videogame (non a caso tra i frame della campagna marketing del videogioco), inaugurandola con un biblico: «occhio per occhio, dente per dente».
Il secondo virgolettato è dell’usuraio più celebre della città, Bruno Levine, che, a usuale monito per la restituzione del prestito impiega nientemeno che il versetto 24 del capitolo 22 dell’Esodo: «l’ira mia si accenderà, ed io vi ucciderò con la spada: e le vostre mogli saranno vedove, e i vostri figliuoli orfani». Un passo che spiazza il protagonista e il suo migliore amico Joe Barbaro, ma non il credente e praticante terzo “collega” dei “nostri”, Henry Tomasino: che con un’altrettanta risposta confessionale, si congederà elegantemente e col prestito ottenuto.
Il dialogo
Per un’exit strategy retorica dall’impasse che stupirà il Barbaro e che, all’esito della riunione, dirà:
Joe Barbaro: «Bel lavoro, Henry: com’è che conosci così bene la Bibbia, ti sei messo a leggerla?”
Henry Tomasino: «[L’usuraio] usa sempre la stessa citazione, vado in Chiesa alla domenica e ho chiesto al prete».
Joe Barbaro: «Uh, vai in chiesa?»
Henry Tomasino: «Già. E so perché non ci vai tu: usano paroloni; non ci sono puttane e il cibo fa schifo».
Joe Barbaro: «Già: è tutto vero».
Vito Scaletta: «Cazzo, non ci vado [in Chiesa] da… Dal 1945 [ora siamo nell’autunno 1951]».
Joe Barbaro: «Mì, da quando tua madre t’ha obbligato a confessarti?»
Vito Scaletta: «Già, quando mi ha picchiato per avere importunato una ragazzina».
Henry Tomasino: «E tu Joe, quanto tempo è passato?»
Joe Barbaro: «Pasqua».
Henry Tomasino: «Beh, neanche tanto…»
Joe Barbaro: «Del 1941, però!»
Henry Tomasino: «Come non detto: finirete all’inferno…»
Vito Scaletta: «L’hai capito solo adesso?»
Joe Barbaro: «Tranquilli: vi terrò due posti vicino a me».
Incidenter tantum, un’ultimissima e inedita pillola: durante la narrazione si scoprirà che Tomasino è un informatore delle Forze dell’Ordine, traditore della Famiglia.
La pronuncia del suo cognome evoca qualcuno? Si rifletta: «Tomasino». Tomasino quale perfetta consonanza di «don Masino». Sì, proprio il Tommaso Buscetta realmente esistito, solo con una emme in meno. Tra l’altro: ambedue soggetti eleganti; piacioni e peraltro assi nel traffico di eroina.
Un caso? Non credibile: seppure più che un “tributo” sarebbe un’“ispirazione” (anche perché Tommaso non fu né informatore né infiltrato bensì collaboratore di giustizia, e morì di morte naturale, contrariamente al digitale Tomasino. By the way, Cosa nostra ha avuto pochissimi infiltrati: Joe Pistone alias Donnie Brasco che riuscì a smantellare un’intera cellula italo-statunitense e Luigi Ilardo, spia “bruciata” e trucidata pochi istanti prima della conclusione della sua missione in incognito).
Mafia: III, così diversa e così uguale, questa mafia
Nel terzo capitolo numerato della serie, uscito nel 2016, gli sviluppatori del brand si distaccano dal troncone mafioso di Cosa nostra: almeno in medias res. A essere davvero “indagata”, infatti, è la questione razziale. In particolare, qui, la mafia siciliana è presente come antagonista.
Il videogioco si apre con una voce diacronica fuori campo, si scoprirà poi che è quella di un uomo di Dio dentro la sua stessa dimora, con alle spalle la Vergine con in braccio il bambin Gesù: l’ambientazione del videogioco è nel cuore della fittizia New Bordeaux (New Orleans) del 1968 e a parlare è l’afroamericano, religioso, padre James Ballard, diversi decenni dopo lo svolgimento dei fatti in gameplay.
Egli è un veterano pluridecorato della Seconda guerra mondiale, poi votatosi al Dio cattolico proprio in virtù di quell’esperienza: «Non amo parlare delle medaglie che mi sono guadagnato laggiù [in Francia]. L’unico modo per cui un uomo sopravvive a qualcosa del genere, è per la grazia di Dio». Nel videogame “frate” Ballard è un talare di frontiera, di quelle dure americane ove oltre alla morte violenta della criminalità, si aggiunge la lotta di classe e quella razziale, per giunta negli anni caldi di un redivivo e sanguinario scontro tra bianchi e neri.
In particolare, il “monaco” convive di necessità in virtù con la gang afroamericana di Sammy Robinson, boss dei Black Mob (mafia nera): un’organizzazione malavitosa tollerata, in quanto servente, alla mafia italiana metropolitana retta da Salvatore (Sal) Marcano.
Il prete Ballard, “frequentava” la malavita organizzata di colore per “assicurarsi” che non ci fossero problemi di “sicurezza” tra i fedeli nonché per la carità che il boss Robinson garantiva di tanto in tanto alla chiesa locale, per lo più persone emarginate, derelitte e segregate.
Il protagonista di quest’epopea criminale è Lincoln Clay, volontario eroe di guerra del Vietnam e membro dei Black Mob. Statunitense per ius soli, da padre presumibilmente italiano e con origini del continente nero e sprazzi dominicani, il Clay sarà sfregiato in piena testa da un colpo sparato dal figlio del boss Marcano, per un’alleanza tradita dagli italiani e che estinguerà completamente la mafia nera, ciò dopo aver compiuto assieme il “colpo del secolo” nientemeno che nella Federal Reserve, all’esito di una missione intitolata «Gesù ci ama tutti». Il perché scomodare, fin dall’epigrafe del livello, colui che risorse, è presto detto: considerando che il proiettile sparato dai Marcano sarà miracolosamente deviato dal cranio di Clay, che lo tramortirà ma non ucciderà e che, creduto morto, sarà salvato dal covo dato alle fiamme, in virtù del fortuito intervento di padre James: «Ancora non so cosa mi portò lì quella sera: fortuna; divina Provvidenza o qualcos’altro…», asserirà col senno del poi lo stesso Ballard.
Scopertolo vivo, dopo quanto accaduto, proprio per questo, l’irlandese e malavitoso Thomas Burke paragona il Clay a Lazzaro: l’amico di Cristo che secondo il vangelo di Giovanni Gesù ebbe a far risorgere quando ormai il fetore della putrefazione aveva infestato il sepolcro. If you know what I mean…
Dopo una lunga riabilitazione, accecato dalla vendetta, «Lincoln Clay decise di attaccare la mafia», per dirla con le parole dell’ex vicedirettore del reparto degli affari criminali del Federal Bureau of Investigation (FBI), Jonathan Maguire (colui che dedicherà l’intera sua vita, senza successo, nel dargli la caccia): la guerra si principia con Cassandra, neo-leader della banda haitiana, che con in mano la Sacra bibbia, citerà, in estasi, il versetto 10 del Salmo 58: «Il giusto si rallegrerà nel vedere la vendetta; si laverà i piedi nel sangue dell’empio». Per una mattanza che segnerà per sempre New Bordeaux. Bibbia che è sovente rinvenuta nei covi dei capimafia, come accadde per Bernanrdo Provenzano nel 2006: arrestato dopo una latitanza record di quarantatré anni.
Durante il suo climax di sangue, Clay dirà in faccia al suo stesso “padre” che ebbe a crescerlo fin dalla più tenera età e che gli salvò la vita: «Ci hai insegnato a porgere l’altra guancia, a non reagire: il problema è che non funziona. Non nel mondo reale.»
Padre Ballard non ostacolerà e, talora, addirittura aiuterà il Clay nei suoi propositi criminali («Sal Marcano merita di morire», dirà), come quella volta che coadiuvò nell’occultare e far esfiltrare un individuo portato in chiesa dal Clay, senza fare troppe domande ancorché mostrando esitazione e malcelata disapprovazione: eppure infine affidandolo proficuamente ai gesuiti. Quest’agire ricorda forse qualcosa, se non proprio l’incipit citazionista di quest’articolo-monografico? «Per [la mafia] la Chiesa era quella che, se ci fosse stato un latitante, lo avrebbe nascosto».
Pur consapevole della mattanza in essere, padre James non denuncerà mai il protagonista: interrogato sul punto, decenni dopo, dirà: «Nessuno sa che ho aiutato Lincoln, a parte voi [i giocatori, lo scoprono con una comunicazione documentarista diegetica]: non che volessi tenerlo segreto, è solo che non è venuto nessuno a fare domande». Ma se questa è la giustificazione che esibirebbe dinanzi allo Stato, senza successo, c’è da dirlo: perché non avendolo appreso nel segreto confessionale, il tacerne configurerebbe un crimine; lo stesso sacerdote saprebbe di avere poche speranze pure dinanzi a Dio: «Ho provato a conciliare la parte di me che aiutò Lincoln con la parte di me che giurò di seguire gli insegnamenti di Gesù Cristo: ma non ci riesco».
Nella realtà non si ricordano preti condannati definitivamente per mafia. In pochissimi sono stati processati e quasi mai furono sanzionati per reati anche soltanto indirettamente mafiosi (nel 2020 fece pertanto notizia la sentenza di primo grado per don Edoardo Scordio in virtù dell’irrogazione a quattordici anni di reclusione per ‘ndrangheta, anche se si tratta di sentenza lungi dall’essere irretrattabile).
Sicuramente quanto commesso virtualmente da padre Ballard sarebbe perlomeno suscettibile di integrare accuse per plurimi reati, tra cui quelli di favoreggiamento, anche aggravato, pure per mafia o addirittura il cosiddetto concorso esterno in associazione mafiosa. Certamente sarebbe inquisibile di omicidio laddove si volesse dare adito a uno dei tre finali del videogioco, ovverosia quello in cui padre James uccide il protagonista con un’autobomba.
Nondimeno la narrazione ha il merito di evidenziare un certo rapporto “malato” di accondiscendenza o tolleranza che si è anche avuto tra gli assassini e chi celebrava i funerali degli assassinati. La banalità del male e dell’ipocrisia.
Don Luigi Ciotti: «Siate eretici»
Un incredibile ed emozionante esempio di presbitero italiano, nel mondo, votato alla legalità per l’intera sua vita, è Don Pio Luigi Ciotti: protagonista di un nuovo capitolo della lotta alle illegalità. Quella del contrasto sociale alle mafie. Il suo attivismo non è solo repressivo (via Forze dell’Ordine; magistratura, etc.) ma anche alternativo, proattivo, ri-educazionale e rigenerativo.
Alternativo, come la proposta di legge di iniziativa popolare che, promossa dalla “sua” Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie (composto da un gruppo di volontari tra i più importanti dell’Unione europea; associazione inserita tra le eccellenze nazionali dall’Eurispes), diverrà fonte primaria della Repubblica al fine di poter usare (ri)socialmente i beni confiscati alle mafie.
Rigenerativo, come il Gruppo Abele, impegnato a «dar voce a chi non ha voce», aiutando a creare un’alternativa a donne e uomini, giovani e meno giovani, che altrimenti non l’avrebbero: tossicodipendenti, alcolisti, prostitute sfruttate e derelitti.
Proattivo: con l’opera di evangelizzazione, anche laica, che fa nelle istituzioni scolastiche, tramite il suo esempio, e che gli fece gridare nel 2014 al congresso di Slow Food Italia, di essere eretici: «perché eresia dal greco significa scelta. Eretico è la persona che sceglie. L’eretico è colui che più della verità ama la ricerca della verità. L’eresia dei fatti prima di quella delle parole. L’eresia che sta nell’etica prima che nei discorsi. L’eresia della coerenza, del coraggio, della gratuità, della responsabilità, dell’impegno. Oggi è eretico chi mette la propria libertà al servizio degli altri, chi impegna la propria libertà per chi ancora libero non è. Eretico è colui che non si accontenta dei saperi di seconda mano, chi studia chi approfondisce chi si mette in gioco in quello che fa chi crede che solo nel “noi” l’”io” possa trovare una realizzazione. Chi si ribella al sonno delle coscienze, chi non si rassegna alle ingiustizie, chi non pensa che la povertà sia una fatalità. Chi non cede alla tentazione del cinismo e dell’indifferenza che sono le malattie spirituali della nostra epoca».
Ri-educazionale, sancito dall’articolo 27 della Costituzione italiana sulla finalità della pena. Come quando, alla prefazione del manuale L’attività motoria nelle carceri italiane dei docenti Ario Federici e Daniela Testa, don Ciotti, riferendosi ai detenuti (anche mafiosi purché per la sola via collaborativa), di suo pugno, scriverà che «l’imperativo [è] riconsegnare alla società una persona responsabilizzata e cosciente, capace a sua volta di restituire positività. Ciò è possibile se quella persona in carcere non si è ammalata, avvilita e incattivita; se davvero il territorio e le istituzioni riescono ad accogliere e a essere comunità, non solo insieme di regole, pur necessarie. Una comunità che riconosce e si prende cura delle sue “parti” malate, invece di distruggerle finendo così per danneggiare e impoverire se stessa». Insomma, don Ciotti, si prende cura sia delle vittime che carnefici, per una rigenerazione teleologicamente e teologicamente orientata a dedicare, come dirà, la sua «vita a saldare la terra con il cielo». Per la sola interpretazione cristiana, sul tema, che avrebbe dovuto sempre essere.
Si diceva di come fosse un inedito il rappresentare in Mafia un’associazione criminale non italiana come baricentro della narrazione. Il che è congeniale per dare il là a un possibile trend, reale, dell’ultimo decennio: ovverosia, anche in Italia, un’alleanza territoriale tra certe mafie straniere come quella albanese e persino africane, nigeriana su tutte, che ha visto la Polizia di Stato rilasciare un incredibile per quanto recente focus sulla mafia nigeriana in Italia.
Avvicinandosi la chiusura, si menzioni uno dei monologhi finali di padre James: «Lincoln una volta mi disse che non poteva porgere l’altra guancia, che ‘il mondo non funzionava in quel modo’. Ho passato gran parte degli ultimi quaranta anni a tentare di smentirlo. Ma mi sono soltanto illuso. La compassione è diventata segno di debolezza e l’avidità è una virtù. I poveri sono considerati moralmente corrotti mentre gli eccessi dei potenti vengono celebrati. Mandiamo i nostri ragazzi a morire [in Vietnam], e per che cosa? Perché qualche furbo possa guadagnarci? Lincoln aveva ragione. L’ha sempre avuta. Non ci saranno altri Martin Luther King o Bobby Kennedy. Ma purtroppo ci sarà sempre un altro Sal Marcano. Un altro Sammy Robinson… Un altro Lincoln Clay. Siamo persone crudeli e malvage».
Un finale molto amaro, ma atavico e verosimilmente italiano, se si pensi a come, il Manzoni, fu “costretto” a far intercedere nientepopodimeno che la Provvidenza nel suo romanzo de I promessi sposi, ambientato in un’Italia alla mercè dei signorotti e potentati locali (così come mondiali), al fine di ottenere almeno lì, nella finzione letteraria, uno straccio di happy ending.
Una prosopopea, quella di Ballard, giusto più infiocchettata di quella realmente pronunciata, lacerante e dritta al cuore, sanguinante, nell’imminenza dell’attentato di via D’Amelio, ventinove anni or sono, dal già vertice del pool antimafia di Palermo, Antonino Caponnetto. Quando, disperatamente “aggrappato” al microfono del cronista, dirà: «È finito tutto. È finito tutto».
Ma c’è ancora speranza. Saremo noi, ciascuno di noi fintantoché potrà, perché lo vorrà, a smentire il Don Abbondio de «Il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare». Pertanto e quanto più, quindi, a pieni polmoni, gridando in rivisitazione la conclusione di una delle più importanti opere del XXI secolo, Gomorra: maledetti bastardi, si-amo ancora vivi!