il ricorso

Dipartimento di Giustizia Usa contro Google: così comincia la rivoluzione antitrust sul digitale

Il Dipartimento di Giustizia statunitense ha annunciato una causa nei confronti di Google, accusandolo di comportamenti anti-concorrenziali. L’azione segue il recente report contro le big four. Così lo scontro entra nel vivo: come cambierà l’esperienza utente di questi prodotti?

Pubblicato il 21 Ott 2020

Riccardo Berti

Avvocato e DPO in Verona

Franco Zumerle

Avvocato Coordinatore Commissione Informatica Ordine Avv. Verona

Il Dipartimento di Giustizia statunitense ha annunciato una causa nei confronti di Google, un ricorso di 64 pagine, depositato il 20 ottobre avanti alla Corte distrettuale di Washington D.C.: si concentra sul monopolio Google in tema di ricerca web e di mercato degli annunci pubblicitari.

La causa è evidentemente in linea con quanto riportato dal recente report contro le big four della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti e si fa portavoce, in sede giudiziale, delle preoccupazioni espresse dall’House Judiciary Committee. Se il Dipartimento di Giustizia seguirà con altrettanta determinazione le conclusioni del report con riguardo alle altre società analizzate, è verosimile che questa sia solo la prima di una serie di iniziative giudiziali contro i colossi della Silicon Valley.

Da questo punto di vista è anche evidente che l’Unione Europea non starà a guardare e verosimilmente adotterà iniziative simili visto che lo strapotere di Google è evidente anche nel vecchio continente.

I punti dei Dipartimento di Giustizia statunitense contro Google

Secondo il Dipartimento di Giustizia Google gli Stati Uniti hanno solamente tre motori di ricerca “generalisti”: Google, Bing e Duck Duck Go (il motore di ricerca orientato alla privacy).

Da un po’ di tempo a questa parte, infatti, il quarto player del settore (Yahoo) si limita a proporre i risultati di ricerca di Bing.

  • Questo porta Google a controllare (secondo l’atto) direttamente o indirettamente circa l’80% delle ricerche web che vengono svolte negli U.S.A.
  •  Secondo l’atto, la situazione è particolarmente preoccupante nel settore mobile, dove gli utenti tendono a non cambiare il motore di ricerca proposto di default dal sistema (sebbene ammetta che si tratta di un’operazione piuttosto facile da completare) e cita a sostegno un documento interno proprio di Google del2018 che lo conferma.
  • Inoltre, sempre nel settore mobile, Google implementa una politica con i produttori per cui “lega” la scelta del proprio motore di ricerca alle app necessarie per rendere appetibile il sistema (come i Play Services che rendono accessibile il Play Store).

I comportamenti anticoncorrenziali

I comportamenti anticoncorrenziali elencati nell’atto comprendono:

  • la distribuzione del motore di ricerca sui dispositivi Android (attraverso varie politiche di accordo con i produttori),
  • l’accordo (pluriennale) con Apple per essere proposto come motore di ricerca di default su Safari,
  • gli accordi con i browser “minori” per essere proposto come motore di ricerca di default
  • e le politiche per controllare la prossima generazione degli strumenti di ricerca.

La preoccupazione del Dipartimento di Giustizia è soprattutto quest’ultima, avendo osservato un preoccupante accentramento in capo a Google degli strumenti di ricerca implementabili su smartwatch, smart speaker, smartTV, automobili connesse, etc.

La reazione di Google

Il Colosso di Mountain View ha reagito all’azione legale con un comunicato, diffuso il 20 ottobre, in cui si afferma che il ricorso del Dipartimento di Giustizia è profondamente sbagliato e che non aiuterà i consumatori ma anzi li danneggerà.

Google, nel comunicato, insiste sul fatto che i soggetti che si rivolgono a Google per i loro annunci pubblicitari sul web lo fanno per libera scelta e non perché costretti.

L’azienda poi afferma che l’azione non farà altro che falsare il mercato, consentendo a motori di ricerca concorrenti, e di minor qualità, di ottenere rendite di posizione immotivate.

La nota si concentra poi sul fatto che:

  • è semplicissimo cambiare il motore di ricerca predefinito sui dispositivi Android;
  • Google è utilizzato sugli iPhone e proposto sul browser Safari nei dispositivi Mac solo per una scelta di tipo qualitativo del loro concorrente di Cupertino;
  • Google non è il motore di ricerca predefinito su Windows.

Secondo Google i consumatori non sono più quelli degli anni ’90, che dovevano essere “difesi” dalla normativa antitrust altrimenti avrebbero continuato ad utilizzare software preinstallati credendo che non ci fossero alternative (alternative che avrebbero dovuto essere installate seguendo una procedura complessa, spesso attraverso supporti esterni come CD-ROM).

L’azienda poi evidenzia l’errore di prospettiva del Dipartimento di Giustizia, che secondo Google non ha ben compreso come gli americani utilizzano Internet nel 2020. Secondo l’azienda di Mountain View, infatti, Google non compete unicamente con gli altri motori di ricerca “generalisti”, ma soprattutto con gli strumenti specifici (ad. Esempio Kayak ed Expedia per i voli, Amazon per gli acquisti, etc.) e, in questo senso, la posizione dell’azienda non può essere considerata di monopolio.

La questione all’esame della Corte di Washington lascia in effetti perplessi, molti in Europa ricordano infatti lo scarso impatto della “guerra dei browser” sulla posizione dominante di Internet Explorer. Ora come allora, una battaglia giusta in linea di principio si è tradotta in soluzioni pratiche macchinose per gli utenti ed estremamente poco incisive dal punto di vista delle quote di mercato (al tempo infatti Internet Explorer era un browser al passo con i tempi e solo l’arrivo di Chrome con lee sue innovazioni ha scalzato il browser Microsoft dal proprio trono).

In conclusione

C’è quindi da augurarsi che il Dipartimento di Giustizia, in caso di successo della propria iniziativa antitrust siano in grado di proporre alla Corte di Washington delle soluzioni efficaci per calmierare efficacemente lo strapotere di Google senza impattare sull’esperienza degli utenti.

Per ora, le conclusioni dell’atto depositato dal Dipartimento di Giustizia non sono molto confortanti, concentrandosi sulla generica richiesta alla Corte di “introdurre i rimedi strutturali necessari per eliminare ogni danno anticoncorrenziale”.

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