figli e salute

Dipendenza da videogame e social, quando c’è da preoccuparsi (e quando no)

Videogiochi e social sono fatti per coinvolgere e trattenerci il più possibile. Chi li progetta sfrutta meccanismi cognitivi ed emozionali per farci restare attaccati alla consolle o al telefonino. È facile non riuscire a staccarsi. Ma dov’è il limite tra una cattiva abitudine e una patologia? Ecco che dice la scienza

Pubblicato il 18 Nov 2019

Andrea Millozzi

Blogger & Maker, HiTech Lover

privacy minori

A qualunque genitore sarà capitato almeno una volta di porsi qualche domanda sull’impatto che potrebbero avere i videogame e i social network – adesso anche Tik Tok! – sulla salute e sulla qualità della vita dei figli.

Anche io, da papà, ho sentito l’esigenza di affrontare questo tema, proprio perché credo sia molto importante riuscire a capire fino a che punto l’ossessione dei figli per i videogame, o per Instagram e per i social in generale, rappresenti davvero una dipendenza (ed è quindi una vera e propria patologia che può impattare seriamente in modo negativo sulla salute e sulla qualità della vita), o se invece è solo una questione più inerente ad una migliore e oculata gestione del tempo passato a svolgere le proprie attività preferite.

Dipendenza da social e videogame, no allarmismi

Così mi sono informato, cercando di approfondire l’argomento attraverso la lettura di studi scientifici, articoli autorevoli sul tema e ascoltando quello che si dice al riguardo nei dibattiti pubblici. il risultato di queste ricerche mi porta a sostenere che, nonostante le notizie preoccupanti che leggiamo ogni giorno sulle fatidiche dipendenze che affliggerebbero i ragazzi appartenenti alla cosiddetta Generazione-Z (quelli in pratica nati con il tablet in mano), tutto sommato, possiamo stare tranquilli.

Comunque questo non significa che possiamo abbassare la guardia perché, come in tutte le cose, il troppo stroppia sempre e anche l’eccesso sconsiderato di videogame e di ore passate a guardare stories sui Social in determinati casi può trasformarsi da semplice e “normale” cattiva abitudine ad un campanello di allarme, per un problema più serio che potrebbe anche richiede l’intervento di un supporto medico.

L’allarme in Cina e Usa

L’allarme intanto corre da Ovest a Est. Ha fatto scalpore la decisione di Pechino di imporre un vero e proprio coprifuoco sui videogame, ritenuti “colpevoli” di influenzare negativamente i ragazzi. Regole stringenti a cui tutti i giovani minori di 18 anni devono attenersi: obbligo di registrazione online con carta di identità, orari fissi, sia di accesso al gioco che di durata, e tetti massimi di spesa.

Non solo la Cina, il dibattito è vivace anche negli USA, dove non sono mancate le polemiche dopo le recenti dichiarazioni di Trump: «Dobbiamo fermare la glorificazione della violenza nella nostra società. Questo include i videogiochi violenti che sono ora molto comuni. È molto facile per i giovani problematici circondarsi con una cultura che celebra la violenza. Dobbiamo fermare la cosa, e deve essere fatto immediatamente. Il cambiamento culturale è difficile, ma ognuno di noi può scegliere di costruire una cultura che celebra il valore e la dignità di ogni vita umana. È questo che dobbiamo fare».

L’Entertainment Software Association ha prontamente replicato alle parole del Presidente americano: «Come già segnalato alla Casa Bianca nel marzo 2018, numerosi studi scientifici hanno stabilito che non c’è connessione causale tra i videogame e la violenza. Più di 165 milioni di americani amano i videogame, e miliardi di persone li giocano a livello mondiale. Eppure in altre società, dove i videogame sono giocati allo stesso modo degli USA, non ci sono tracce di violenza pari a quella degli USA».

A favore dei videogame si è espresso anche Reggie Fils-Aime, ex-presidente di Nintendo of America, che in un tweet ha mostrato le statiche secondo cui anche nei Paesi del mondo in cui i videogiochi sono un’importante componente culturale, il problema delle violenze e delle sparatorie di massa non è minimamente paragonabile a quello degli USA.

La mania dei videogame vista con gli occhi di un genitore

Forse ci stiamo facendo prendere dal panico. Le istituzioni come le famiglie. 

A chi ha un figlio probabilmente sarà capitato, in diverse occasioni, di tornare a casa e di trovarlo in piedi, in mezzo alla stanza, davanti alla TV, tutto eccitato, rosso in viso, sudato, con il joypad in mano, intento a giocare ai videogame. Oppure di beccarlo al PC, concentratissimo, a guardare e ad ascoltare a tutto volume le prodezze del suo youtuber preferito mentre si cimenta con il videogioco del momento. Oppure, ancora, di sorprenderlo sorpreso sul divano, con in mano l’inseparabile consolle, e in testa le cuffie con microfono mentre comunica, urlando, con i suoi amici online, sparando a tutto spiano contro altrettanto agitati nemici virtuali. Ovviamente parlargli in questi momenti equivale a parlare con il vuoto… e non è proprio una bella sensazione.

Di solito quello che fa emergere in noi genitori un’effettiva preoccupazione (spesso abbinata ad una ansia di fondo) è la elevata frequenza con cui assistiamo allibiti a questi comportamenti: e ovviamente, quando per la centesima volta ci si ritrova a rimproverare un figlio perché non solo non ha studiato, ma ha passato tutto il giorno ai videogame, e magari anche i voti scolastici hanno preso una brutta piega… qualche domanda cominci a fartela!

Ma il “gaming disorder” esiste? Oxford dice no!

Servirebbe in realtà un approccio scientifico, non allarmistico. Appunto: cosa dice la scienza al riguardo? Il dibattito è tutt’ora in corso: proprio pochi mesi fa l’OMS ha preso la decisione di inserire definitivamente il “gaming disorder” fra le malattie mentali accertate.

Ma poco dopo una ricerca dell’Oxford Internet Institute ha messo fortemente in discussione questa scelta, dimostrando come, laddove c’è “dipendenza”, questa non sia attribuibile ai videogiochi ma per lo più a fattori esterni.

Lo studio, di cui è coautore il professor Andrew Przybylski, direttore della ricerca presso l’Oxford Internet Institute, si chiama: “Violent video game engagement is not associated with adolescents’ aggressive behaviour: evidence from a registered report”.

Andrew Przybylski, con la dottoressa Netta Weinstein, docente senior presso la School of Psychology dell’Università di Cardiff e co-autrice del rapporto, è convinto che nello studio dell’OMS non si sia esaminato il contesto più ampio di ciò che accade nella vita di questi ragazzi: «questo è qualcosa che cerchiamo di affrontare con il nostro nuovo studio», hanno detto.

«Alla luce dei nostri risultati non crediamo che esistano prove sufficienti per giustificare l’idea che il gioco sia un disturbo clinico a sé stante», ha affermato Przybylski.

Insomma, distratti dalle nostre ansie, rischiamo di perdere di vista altri pericoli, ugualmente concreti ma molto più probabili.

Maggio 2019: il “gaming disorder” diventa una malattia mentale, ecco i sintomi

Stando ai dati ufficiali, nonostante l’irritazione che un genitore prova a rivivere troppo spesso certe situazioni, per la maggior parte delle volte tutto rientra nella “normalità”, e non c’è nulla di cui preoccuparsi. Si tratta di comuni episodi che non hanno alcun peso rispetto alla tematica del cosiddetto “gaming disorder“.

Al contrario, se oltre a questi episodi che si ripetono frequentemente nel tempo, si notano stati di nervosismo, ansia, angoscia, inquietudine e/o apprensione, allora forse vale la pena approfondire la situazione, per comprendere se realmente si sia di fronte ad un problema e, nel caso, studiarne i dettagli per stabilirne il livello di gravità in modo da attivarsi e trovare un rimedio.

Ma praticamente, come facciamo a capire con certezza se nostro figlio soffre o meno di questa fatidica “dipendenza” da videogiochi?

Vediamo che dice la scienza ufficiale.

Nel giugno del 2018 il “gaming disorder” è stato inserito nell’undicesima revisione della ICD (International Statistical Classification of Diseases and Related Health Problems).

L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) in quella occasione ha descritto la dipendenza da videogiochi come uno spettro ben preciso di comportamenti legati al gaming:

  • una serie di comportamenti persistenti o ricorrenti che prendono il sopravvento sugli altri interessi della vita;
  • anche quando si manifestano le conseguenze negative dei comportamenti, non si riesce a controllarli;
  • questi atteggiamenti portano a problemi nella vita personale, familiare e sociale, con impatti anche fisici, dai disturbi del sonno ai problemi alimentari.

Dopo quasi un anno, il 25 maggio 2019, durante la 72esima Assemblea Mondiale della Sanità, i 194 membri dell’OMS hanno riconosciuto definitivamente il “gaming disorder” come malattia mentale, inserendola ufficialmente nell’ICD-11: disposizione che entrerà in vigore dal prossimo 1 gennaio 2022.

«La definizione di ‘malattia mentale’ ha l’obiettivo di aiutare i medici a formulare la diagnosi»: ha spiegato Vladimir Poznyak, del Dipartimento per la salute mentale dell’OMS. «Abbiamo deciso di inserire questa nuova patologia sulla base degli ultimi sviluppi delle conoscenze sul tema» ha aggiunto Poznyak. «Per essere riconosciuto come problema mentale, il ‘gaming disorder’ deve durare almeno 12 mesi, ma ci possono essere eccezioni per casi particolarmente gravi. Chiaramente non tutti i videogiocatori soffrono del disturbo: anzi, i ‘malati’ sono solo una minima parte».

«Credo che l’Organizzazione Mondiale della Sanità abbia fatto molto bene, sia perché in questo modo famiglia e pediatri porranno maggiore attenzione a questo fenomeno, sia perché chi produce i videogiochi dovrà pensare alle conseguenze che questi possono avere sui minori» sottolinea Cherubino Di Lorenzo, neurologo presso il Centro Cefalee dell’Istituto Neurotraumatologico Italiano di Roma, intervistato dal Corriere.it.

«I videogiochi stimolano i circuiti del cosiddetto ‘reward’, cioè della ricompensa. I ragazzini, facendo questi giochi monotoni e ripetitivi, spesso con musiche ipnotiche e stimolazioni luminose intermittenti, riescono ad alienarsi e a ottenere delle micro-ricompense che instaurano la dipendenza. Allo stesso modo, si genera frustrazione quando non riescono a ottenere la vittoria nella prova del videogioco. Negli anni passati ci sono stati in particolare dei casi di giochi via web – ricorda l’esperto – in cui ci si limitava a premere un bottone mentre la musichetta e le lucine andavano avanti e i ragazzini passavano le nottate sveglie a continuare, esattamente come accade con le slot machine».

Non tutti i giochi vengono per nuocere

Nonostante tutto, pur riconoscendo che il problema esiste ed è reale, non è per niente facile stabilire quando ci si trovi davanti ad una vera e propria patologia: come sostengono anche molti studiosi, il rifugiarsi nei videogame potrebbe essere solo una conseguenza di altri problemi che spesso affliggono chi gioca troppo, come l’ansia, la depressione o rapporti sociali e familiari difficili.

Se non si sta attenti, c’è il rischio concreto non solo di medicalizzare inutilmente chi non ne ha bisogno, ma anche di demonizzare ancor di più un’attività già immeritatamente malvista.

Comunque non scordiamoci che ufficializzare una malattia porta anche a un altro tipo di conseguenze: ad esempio, per una assicurazione, grazie a questa inclusione del gaming disorder nell’ICD-11, sarà più facile creare, e vendere, dei servizi ad hoc; ma non solo: una diagnosi riconosciuta facilita la possibilità di fornire trattamenti sanitari a pagamento e l’offerta di nuove costose terapie. Oppure permette la nascita di servizi cuciti su misura come quello degli EduGamer.

Per esperienza personale, da ex videogiocatore incallito, i videogiochi non sono perdite di tempo, esattamente come non lo sono gli altri tipi di gioco!

Lo dice la scienza: giocando s’impara… a prendere decisioni, a costruire mappe del territorio, a gestire la propria squadra. Il gioco stimola l’attenzione e la concentrazione. Migliora i riflessi e, secondo la tipologia scelta, permette anche di acquisire nuove nozioni, come ad esempio l’apprendere una lingua straniera o fare di conto, influendo in modo positivo sull’autostima. Quanto detto ovviamente è applicabile anche ai videogiochi.

Per non parlare della nuova frontiera della Realtà Aumentata e, ancor di più, della Realtà Virtuale: quanto può valere in termini di apprendimento e di arricchimento personale, la possibilità di indossare un visore con dentro il proprio smartphone e lasciarsi catapultare in un istante all’interno di mondi paralleli in cui è permesso fare qualsiasi cosa in prima persona, avendo come solo limite, la propria fantasia? Grazie alla Realtà Virtuale è possibile, ad esempio (ed io l’ho fatto), viaggiare dentro al corpo umano, esplorare dall’interno i dipinti dei grandi artisti, superare le proprie paure e imparare a parlare in pubblico, incontrare i propri amici sulla Luna, e tutto questo standosene seduti sul divano di casa!

Nel mondo delle consolle, tanto bistrattate, esistono dei videogiochi che permettono ai ragazzi di cimentarsi con la costruzione “fisica” di strumenti, oggetti e personaggi, che prendono letteralmente “vita” e interagiscono con l’ambiente circostante: è così che tuo figlio può trasformarsi in un robot gigante o che può provare l’ebbrezza di essere un vero pescatore. Il bello è che il tutto può essere elaborato attraverso la programmazione! (così impara anche a programmare).

Insomma, giocando si esplora, si conosce, ci si fa un’idea del mondo e, se si sta in compagnia, giocando si rafforzano anche i legami con gli amici. Attraverso il gioco (e i videogiochi), i ragazzi imparano e affrontano sfide fondamentali per la crescita.

Ecco spiegato il motivo per cui è davvero controproducente vietare i videogiochi: ovviamente, allo stesso tempo, non è indicato lasciare i ragazzi del tutto da soli, usando i videogame come babysitter.

Hikikomori: dalla depressione al ritiro sociale

Ma quindi i genitori come debbono comportarsi davanti a un figlio che non fa altro che passare da uno schermo all’altro: dalla Playstation al Nintendo, dallo smartphone al PC (o al tablet), per ricominciare il giro dopo poche ore… tutti i santi giorni!?

La domanda non è banale visto che spesso e volentieri, nonostante i nostri innumerevoli sforzi e la buona volontà di trovare meccanismi di contrasto a quella che a noi sembra essere una situazione estremamente negativa, alla fine dei conti non solo non otteniamo risultati, ma ci sembra addirittura che le cose peggiorino!

Ci si ritrova nella scomoda condizione in cui non solo non si riesce a comprendere la portata del problema, ma non si sa neanche da dove iniziare per riuscire a gestirlo!

Probabilmente la prima cosa che si sarà provato a fare sarà stata quella di adottare delle regole: stabilire dei giorni e degli orari in cui è possibile giocare ai videogame, concedere l’uso dello smartphone solo per alcune ore al giorno e solo per l’uso scolastico, o al massimo limitarne l’utilizzo solo a determinate App.

Nei casi limite si sarà provato anche a obbligare al rispetto di tali regole attraverso l’installazione di App ad hoc, come Family Link di Google, che permettono ai genitori di limitare le funzioni disponibili fino addirittura arrivare ad inibire completamente l’uso del dispositivo da remoto.

Nonostante tutto però la situazione con i figli sembra peggiorare: o perché continuano imperterriti a fregarsene dei nostri divieti o perché, proprio a causa di questi, il rapporto tra noi e loro diventa sempre più simile a quello di un datore di lavoro che ha a che fare con il suo dipendente.

Ci sono dei momenti in cui viene spontaneo chiedersi: «Sto forse sbagliando qualcosa?».

In effetti, potremmo non aver messo in atto la strategia migliore, presi come siamo dall’ansia alimentata dalle notizie che leggiamo in continuazione sui casi in aumento di ragazzi che, fagocitati dai videogiochi e dai social, cadono in depressione, abbandonano la scuola, lasciano le amicizie e, nei casi più gravi, iniziano a ritirarsi in casa senza più uscire, senza avere più una vita pubblica fino, nei casi limite, esaurirsi a tal punto da lasciarsi morire.

Sembra assurdo, ma il fenomeno è diventato talmente evidente che addirittura è stato coniato un termine per indicare proprio questa tipologia di ragazzi: hikikomori.

Questo è quanto si legge sul sito ufficiale di “Hikikomori Italia“, la prima associazione nazionale di informazione e supporto sul tema dell’isolamento sociale volontario:

«’Hikikomori’ è un termine giapponese che significa letteralmente ‘stare in disparte’ ed è utilizzato generalmente per riferirsi a chi decide di ritirarsi dalla vita sociale per lunghi periodi (da alcuni mesi fino a diversi anni), rinchiudendosi nella propria camera da letto, senza aver nessun tipo di contatto diretto con il mondo esterno.

È un fenomeno che riguarda principalmente giovani tra i 14 e i 30 anni e di sesso maschile, anche se il numero delle ragazze isolate potrebbe essere sottostimato dai sondaggi effettuati finora.

Al momento in Giappone ci sono di oltre 500.000 casi accertati, ma secondo le associazioni che se ne occupano il numero potrebbe arrivare addirittura a un milione (l’1% dell’intera popolazione nipponica). Si tratta dunque di un fenomeno incredibilmente vasto, eppure in pochi ne hanno sentito parlare, soprattutto al di fuori del Giappone.

Anche in Italia l’attenzione nei confronti del fenomeno sta aumentando. L’hikikomori, infatti, sembra non essere una sindrome culturale esclusivamente giapponese, come si riteneva all’inizio, ma un disagio sociale che riguarda tutti i paesi economicamente sviluppati del mondo. Come associazione nazionale stimiamo che nel nostro paese ci siano almeno 100 mila casi».

Matteo Lancini è uno psicologo. Insegna all’università Bicocca di Milano ed è specializzato nel trattamento della dipendenza da Internet tra i giovani. Ha scritto un libro intitolato: “Adolescenti navigati” e sta per pubblicarne un altro sui “ritirati sociali”.

Si tratta di un fenomeno in crescita riguardante quei ragazzi che si ritirano da scuola tra la preadolescenza e l’adolescenza, rifiutando tutti i rapporti sociali, rifugiandosi e sentendosi al sicuro in un solo luogo: Internet.

Intervistato dalla trasmissione Presadiretta (RaiTre) nella puntata “Popolari“, dice: «abbiamo capito che forse il “ritiro sociale” non ci sarebbe stato senza Internet, ma quello che abbiamo scoperto lavorando clinicamente in questi quindici anni, è che non è Internet a catturare questi ragazzi. Sono delle sofferenze, un senso di inadeguatezza, un crollo degli ideali, la difficoltà ad affrontare i compiti evolutivi di questa età, l’adolescenza, che spingono questi ragazzi a sentirsi improvvisamente non all’altezza delle aspettative».

«Vanno in una sorta di eremitaggio, si autorecludono volontariamente a casa. Sono prevalentemente maschi. In qualche modo tra la terza media e la prima superiore, a seguito di un avvenimento precipitante, non sempre un episodio di bullismo, una frase, uno sguardo, qualche cosa che a scuola improvvisamente ti dà ragione della tua inadeguatezza, ti fa sentire che tutta l’idea di successo che avevi coltivato durante l’infanzia, crolla. A questo punto, il dolore è molto forte e piano piano non riescono più a frequentare l’ambiente scolastico».

«Oggi avere successo tra i coetanei è una esigenza esagerata, forse come non lo è mai stata. In questo senso Internet c’entra in tante forme. Ma c’entra anche sul fatto che la popolarità è un concetto che ormai si è esteso. Non è più importante essere solo popolari a scuola, ma si cerca la popolarità attraverso la rete, cioè la popolarità generazionale in tutto il mondo».

«Il “ritiro sociale” assume forme anche molto drammatiche, alcuni pensano anche al suicidio: le aspettative sono crollate, non si intravede il futuro e la drammaticità della vita di questi ragazzi che ripetono le giornate tutte uguali. Quindi bisogna invece tollerare che Internet sia l’unica area di mediazione col mondo, in una società dove il virtuale è reale appunto si intersecano, e piano piano aiutare questi ragazzi a superare l’adolescenza, rientrando nella vita quotidiana».

«Questo fenomeno è molto legato ai nostri modelli sociali: io credo che il “ritiro sociale” esprima anche in qualche modo una contestazione che questi ragazzi ci dicono, di una società, molto competitiva, molto basata sull’estetica, molto basata sulla popolarità, poco a volte, sui meriti, e sulla competenza».

Come dargli torto.

Curiamo la “genitorite”

Federico Tonioni, responsabile al Policlinico Gemelli di Roma del primo centro pediatrico italiano che si occupa di dipendenza da Internet, intervistato dall’Università Cattolica del Sacro Cuore afferma: «Non bisogna concentrarsi sulle ore di connessione ma sull’intensità e i prodromi del ritiro sociale, nel senso: noi ci prendiamo cura di adolescenti che abbandonano la scuola, che hanno difficoltà nell’interazione dal vivo e realizzano online l’unica relazione possibile, per cui non è l’iperconnessione il fuoco del nostro intervento, che è il motivo stesso per cui non parliamo di dipendenza patologica, ma non si dovrebbe parlare né di dipendenza patologica né fare alcun tipo di diagnosi quando abbiamo di fronte degli adolescenti che hanno la mente come la creta fusa per cui sono in continuo divenire e non li possiamo incorniciare in una diagnosi.

Ma io credo che ogni mamma, ogni papà se lo sente quando un figlio può avere dei problemi. La mia proposta, perché non vuole essere un consiglio, per carità, è quella di condividere le esperienze quando i bimbi sono piccoli e di provare a fidarsi quando i figli sono adolescenti, perché la fiducia è sicuramente la distanza più sana da tenere con gli adolescenti.

Non lo è il controllo, che serve solo a far impazzire i genitori che controllano i figli… si confondono e non conoscono i figli… assolutamente! La distanza più pericolosa dai figli, quella che determina il vero gap generazionale sono i sensi di colpa inconsci dei genitori stessi».

Ascoltiamo il Professor Tonioni! Se davvero vogliamo migliorare la situazione, invece di concentrarci su quello che fanno i nostri figli “iperconnessi”, cerchiamo piuttosto di tranquillizzarci noi genitori: sarebbe già un ottimo inizio da cui partire!

Tanto per cominciare, analizzando i motivi della nostra inquietudine, emerge con certezza che noi genitori “moderni” dobbiamo necessariamente fare i conti proprio con il “gap generazionale”: una delle cause per cui ci sentiamo spiazzati e fuori luogo rispetto a questo nuovo modo di affrontare la vita da parte dei più giovani. Una situazione nuova a cui non siamo assolutamente abituati.

Se ci pensi, secoli fa i genitori avevano la possibilità di dare dei consigli di vita ai figli con la consapevolezza che le esperienze fatte sarebbero state, grosso modo, le stesse per entrambe le generazioni. Quando morivi, il mondo era più o meno lo stesso di quello che avevi trovato quando eri nato, oggi no. Il cambiamento, a causa della tecnologia che corre senza sosta, ha preso una piega esponenziale nel tempo.

Fino a pochi decenni fa, nessuno di noi avrebbe immaginato di vivere in un contesto in cui, per telefonare, sarebbe bastato portarsi dietro il cellulare, che oltretutto sarebbe servito per navigare su Internet, acquistare qualsiasi cosa nel mondo, addirittura per comprare delle criptomonete, mentre l’uomo arrivava sulla Luna e si preparava poco dopo ad arrivare su Marte! Se uno potesse tornare indietro nel tempo a quando era ragazzo e raccontarlo a qualcuno sarebbe preso sicuramente per pazzo!

Seguendo questo ragionamento, mi vengono in mente i miei genitori: non oso immaginare cosa potessero pensare di me quando, da ragazzino, passavo ore ed ore, a volte anche giorni interi, chiuso in casa a programmare in basic con il mio amato ZX Spectrum 48K, o quando mi segregavo volontariamente in cantina per ideare, progettare e costruire improbabili circuiti elettronici. Quello che è certo è che anche loro devono aver passato un bel grattacapo, senza sapere come comportarsi con questo figlio “smanettone”, tanto più che il PC all’epoca era un oggetto nuovo, totalmente sconosciuto, presente solo nei film o nei racconti di fantascienza.

Che cosa avrebbero dovuto fare i miei? Se mi avessero proibito di stare al PC o di “giocare” con l’elettronica, probabilmente sarei caduto in depressione: tutti i miei compagni amavano il calcio, qualcuno la musica, ma a me interessava solo la tecnologia! Invece, per fortuna, sono stati lungimiranti e, assecondando le mie passioni, mi hanno reso una persona felice e con determinate competenze, peraltro utilissime in un mondo dominato dall’informatica e dall’elettronica.

Se riportiamo il discorso ai nostri giorni, quando vedo mio figlio che gioca come un pazzo ai videogame e mia figlia che naviga ossessivamente sui social, da papà mi ritrovo nella stessa identica situazione dei miei genitori e mi chiedo: «Come mi devo comportare?».

Il gioco è una cosa seria

Differentemente dal passato, oggi conosciamo bene l’importanza della tecnologia e allo stesso tempo sappiamo quanto, sia i videogame che i social network siano parte integrante della nostra società, tanto da rivestire un ruolo centrale non solo nella nostra vita privata, ma soprattutto nel mondo del lavoro: infatti intorno ai cosiddetti eSport e agli Influencer, girano fatturati miliardari, e nelle scuole (ma anche nelle università), già ora, si insegnano materie inerenti sia ai videogame (Accademia Italiana Videogiochi) che ai social network.

Proprio recentemente ad esempio, ha fatto scalpore la notizia della nascita del primo corso universitario dedicato allo studio per diventare un perfetto “influencer”.

Non scordiamoci poi che la passione per i videogiochi è diventata talmente comune che ormai, in tutto il mondo, vengono organizzati tantissimi eventi, in cui migliaia di ragazzi e ragazze (e pure qualche adulto) si divertono a vestire i panni dei loro personaggi dei videogiochi preferiti. Il fenomeno è così diffuso che è stato coniato anche un termine per definirli: “cosplay“.

Quanto sarebbe dannoso quindi, per il loro futuro, precludere ai figli la possibilità di maturare esperienza con i loro passatempi preferiti? Non è invece molto meglio dare loro l’opportunità di “sporcarsi le mani” divertendosi, mentre imparano quello che potrebbe diventare addirittura un mestiere?

Piuttosto il nostro ruolo, quello che ci compete come genitori, dovrebbe essere quello di accompagnarli fino a dove possiamo, fino a quando la nostra presenza è gradita e non ci sentiamo di “intralcio”, per poi lasciarli subito dopo da soli a sperimentare, dandogli la possibilità di crescere, anche sbagliando, proprio come abbiamo insegnato loro ad andare in bicicletta.

Non dobbiamo aver paura che i videogame e i social network diventino delle ossessioni: c’è gente che fuma, che beve alcolici o che tutte le sere, per tutta la vita, passa il tempo davanti alla TV: tutto sommato, meglio una sana partita alla Playstation o una chattata con gli amici sui social, no?

Conclusioni

Ricapitolando, sebbene esistano delle evidenze che portano a considerare i videogiochi (ma anche i Social Network) , in base all’uso che se ne fa, come possibili precursori di malattie mentali definite “gaming disorder”, in realtà esistono ancora molti dubbi al riguardo.

Quella che invece è una granitica certezza è che un rapporto sano tra i genitori e i propri figli rappresenta la migliore prevenzione contro qualsiasi disturbo, mentale o comportamentale.

Perciò la prossima volta, invece di vestire i panni del solito tiranno che impone con la forza regole spesso inutili, meglio, molto meglio, tralasciare qualsiasi cosa tu stia facendo. Scendi dal “trono” dove ti eri autocollocato. Siediti accanto a tuo figlio per disputare insieme a lui una mega partita a Fifa e concentrati, cercando di non farti umiliare da calci volanti, dribbling mostruosi e fatidici goal di testa!

Quando si parla di patologie legate ai videogame, il dialogo e il divertimento sono le uniche medicine che funzionano davvero, e sono pure gratis e senza effetti indesiderati! Quindi… abbonda pure!

Insomma, distratti dalle nostre ansie, rischiamo di perdere di vista altri pericoli a cui vanno incontro i nostri figli, sempre connessi, ugualmente concreti ma molto più probabili, come: il cyberbullismo, l’attacco di hacker senza scrupoli, la pedofilia online e molte altri rischi su cui torneremo.

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