La passione sfrenata per il gioco online, che in taluni casi assume i connotati di dipendenza “patologica”, non è un fenomeno che interessa soltanto l’individuo – giovane o meno giovane che sia – ma è la spia di un fenomeno più profondo che investe l’intera società e l’economia: sono queste le vere “gaming addicted”.
Cos’è il gaming disorder
L’enorme popolarità dei giochi online – da Fortnite a World of Warcraft – genera crescenti interrogativi sui rischi per la salute mentale dei giovani utenti.
E’ in aumento infatti il numero dei ragazzi che, spinti da un irrefrenabile impulso al gioco, si isolano dalla vita sociale e dal mondo circostante, perdendo la nozione del tempo e finendo per essere letteralmente “terrorizzati” dalle occasioni di contatto offline con i propri coetanei. Ma la loro patologia è quella di tutta la società
Del tema si è occupato recentememte anche il Guardian, focalizzando l’attenzione sulla dott.ssa Henrietta Bowden-Jones, psichiatra e fondatrice a Londra del primo centro di dipendenza da Internet finanziato dal servizio sanitario nazionale del Regno Unito: una clinica, ove ci si concentrerà in primo luogo sui disturbi della salute legati al gioco. Del resto, la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità ha posto l’accento sull’argomento, inserendo – a partire dal 2018 – la dipendenza dai videogiochi nella lista delle nuove patologie: il gaming disorder viene definito come uno schema di comportamento persistente o ricorrente così grave, da “danneggiare altre aree come quella personale, familiare, sociale, educativa e occupazionale”.
Tuttavia, nonostante il sensazionalismo con cui vengono periodicamente segnalati dai media i casi estremi di “gaming addiction”, gli esperti suggeriscono prudenza. Il dott. Richard Graham, consulente nel campo della psichiatria adolescenziale al Nightingale Hospital di Londra, evidenzia l’opportunità di andare oltre il restrittivo e semplicistico modello tradizionale, basato sulla disintossicazione digitale, per sviluppare un approccio ampio e articolato, capace di comprendere le spinte motivazionali che innestano nei giovani il desiderio di muoversi con successo in un’economia digitale.
Società ed economia malate
Ci sembra questo il punto decisivo: la passione sfrenata per il gioco online, che in taluni casi assume i connotati di dipendenza “patologica”, è la spia di un fenomeno più profondo, che investe da tempo la nostra società e la nostra economia, ove è andato in crisi il sistema di opposizioni binarie su cui si reggeva nel passato il rapporto tra il lavoro e il gioco, tra la produzione e il tempo libero, tra la prosa del giorno feriale e la poesia del giorno di festa.
Per intendersi, l’arco della vita quotidiana è concepito tradizionalmente come un involucro: una sorta di uovo, all’interno del quale il “rosso” del tuorlo (ossia il tempo del lavoro, contrassegnato da una successione di istanti organizzati in maniera sequenziale, nei quali l’impegno è finalizzato all’acquisizione di risultati concreti) viene tenuto costantemente distinto dal “bianco” dell’albume (ossia il tempo del gioco: una dimensione soggettiva, destrutturata, dedicata allo svago e al divertimento). Oggi questa separazione è andata in frantumi: è come se dentro il guscio dell’uovo il “bianco” del tempo libero e il “rosso” del lavoro avessero cominciato a mescolarsi, a confondersi ed a sovrapporsi. Dando luogo a una melassa indistinta, nella quale il significato liberatorio dei gioco, sempre evocato a gran voce, rischia di essere de-potenziato e riassorbito.
La logica del labourtainment e il culto della performance
Nei nuovi luoghi del lavoro, vere e proprie “cattedrali” della new economy, si afferma infatti la logica del labourtainment, che coniuga le dinamiche tradizionali del mondo del lavoro (labour) con varie formule legate all’intrattenimento (entertainment), per cui l’inserimento in un contesto professionale viene percepito dal neoassunto come occasione per estendere i propri hobby e le proprie passioni.
La sede di Google a Zurigo è un ottimo esempio di questa logica: offre ai suoi dipendenti un coloratissimo contesto di lavoro, ove spiccano le pareti rosse, gialle, verdi e blu degli uffici, caratterizzati da grandi finestre a vetri che si aprono sull’ambiente circostante. Ma la struttura comprende anche un ristorante in stile Ikea, alcuni bar, spazi ricreativi con tavoli da biliardo, una biblioteca con caminetto, una nursery per i figli dei dipendenti, un giardino esterno. Tutto ha un’aria informale: i meeting vengono organizzati in piccole salette somiglianti ad igloo. Lasciato il tavolo da ufficio, equipaggiato con le più evolute tecnologie, gli impiegati possono andare a dondolarsi su un’amaca. Per riposarsi. O anche per lavorare in maniera inconsueta con il proprio laptop. Cabine a forma di uovo e di funicolare offrono spazi di relax per momenti di privacy. Scivoli e pertiche analoghe a quelle utilizzate dai pompieri rendono più agevoli e divertenti gli spostamenti tra i piani. Insomma, nelle stanze di Google si sperimenta un nuovo modello umano, a metà strada tra l’homo faber e l’homo ludens: il confine tra lavoro e gioco diventa poroso e transitabile.
Superata tale soglia, si entra in un vasto e indefinito territorio di frontiera, nel quale il lavoro diventa oggetto di ardite sperimentazioni, di straordinarie e coinvolgenti messe in scena, con l’obiettivo non solo di incrementare lo “spirito di squadra” dei dipendenti, ma anche di catturare l’attenzione dei media e il consenso dei consumatori. Si chiede dunque al knowledge worker di vivere in uno stato di permanente eccezione, di assumere la condizione dell’artista bohémien, inteso come outsider e imprenditore di se stesso, dandogli l’impressione di partecipare a un’impresa eccitante e d’avanguardia. Il corollario di queste situazioni è il culto della performance, l’esaltazione per la mobilità e la passione per l’estremo, un insieme di caratteri desunti dalle avanguardie artistiche del Novecento.
La disneyficazione degli spazi del lavoro
Il risultato è però la disneyficazione degli spazi del lavoro, accompagnata dalla progressiva rarefazione dei confini tra vita pubblica e vita privata. In altri termini, la logica del parco a tema viene estesa anche all’ufficio, al quale si applica un “principio di decontestualizzazione”, in modo che il lavoratore si senta totalmente coinvolto da uno scenario che lo avvolge e lo separa dall’ambiente circostante. Esemplare è il caso dell’agenzia pubblicitaria KesselsKramer, che ha “firmato” alcune campagne della Diesel: la sede è ospitata in una chiesa sconsacrata nel centro di Amsterdam. All’interno dell’edificio si possono incontrare, tra le altre cose, la riproduzione in scala di un fortino russo, una torre di avvistamento tipo Baywatch e, curiosamente, un busto di Lenin, nell’atto di liberare gli impiegati da un noioso e grigio lavoro d’ufficio.
Le distorsioni della Winner-Take-All society
Ma c’è di più: è l’economia stessa che ha introiettato al proprio interno una forte dimensione ludica, mescolando sempre più serietà e alea, esposizione al rischio e calcolo razionale. Fino ad assimilare i propri modelli ai principi dello show business. Particolarmente significative ci sembrano le suggestioni proposte dagli economisti Robert Frank e Philip Cook, i quali hanno coniato l’espressione Winner-Take-All society, in riferimento alle professioni dello spettacolo e agli sport di alto livello, per descrivere la tendenza del valore a distribuirsi in questi contesti in maniera ineguale, con una forte concentrazione attorno ad un numero sempre più ristretto di top performers (pensiamo a una cantante come Madonna o a una star del calcio come Ronaldo), i cui risultati economici non dipendono dalle prestazioni assolute che essi sono in grado di offrire, ma dalla posizione relativa che occupano nelle principali classifiche dei divi dello sport e dello spettacolo.
Siamo dunque in presenza di mercati iper-competitivi, dove un numero sempre più elevato di aspiranti si confronta – senza esclusione di colpi – per un numero sempre più ridotto di posizioni di vertice. Del resto, un’importante implicazione dei mercati WTA risiede nella loro tendenza a rinforzarsi da soli: un cantante che vende milioni di copie ad ogni disco, così come un attore che trasforma ogni film in un successo, diventano fenomeni mediatici, personaggi conosciuti anche al di fuori del proprio ambiente professionale.
Un successo che si autoalimenta
E’ dunque perfettamente logico che le case discografiche e le major cinematografiche propongano gli arrangiamenti e le parti migliori proprio a questi idoli della folle. S’innesca in questo modo un circolo virtuoso, per cui un successo alimenta a sua volta ulteriori successi, incrementando lo scarto con il gruppo degli inseguitori, che tendono a restare sempre più distanziati dal vertice della classifica. E’ un meccanismo noto a tutti, che oggi tende però a fuoriuscire dai confini tradizionali, trasferendosi dallo star system a molti altri settori: non è un caso se la metà dei premi nobel americani provengono da cinque università – Harvard, Columbia, Rockfeller, Berkeley e Chicago – sulle oltre mille presenti negli Stati Uniti. Una delle caratteristiche dei mercati WTA è infatti la loro capacità di appoggiarsi a logiche di rete per attivare meccanismi di influenza e contatti che permettono di mantenere e rafforzare la posizione dominante conquistata.
In definitiva, come suggerisce Semprini, i mercati WTA implicano “un’economia del desiderio e del simbolico, che rovescia la concezione classica del valore, secondo cui questo è direttamente proporzionale alla rarità di una merce”. Ora invece accade il contrario: il valore (simbolico, socioculturale e, infine, economico) di un prodotto e di una marca è direttamente proporzionale alla sua popolarità.
I mercati WTA tendono dunque a concentrarsi, offrendo delle vere e proprie rendite di posizione a chi si colloca al vertice della classifica: si pensi al (quasi) “monopolio” esercitato da Android tra i sistemi operativi per tablet e per smartphone. D’altro canto, per giungere nelle posizioni di testa e, soprattutto, per restarci a lungo, un’azienda deve continuamente “rilanciare”, mediante investimenti ingenti e sempre più costosi, tanto più se si tiene presente che la posizione dominante dipende da una prestazione superiore relativa. Deve quindi reclutare gli uomini migliori, investire in ricerca e sviluppo, lanciare continuamente nuove proposte, moltiplicare le occasioni di comunicazione, sviluppare nuovi mercati: è un processo che consuma sempre più energie. Di conseguenza, le organizzazioni sono soggette a un’entropia intrinseca, che può essere mantenuta sotto controllo soltanto puntando a uno sviluppo incessante, mediante il quale il valore creato riesca a superare le risorse consumate.
Nulla si inventa, tutto si ripete
Conclusione? Sono la nostra società e la nostra economia ad essere malate di “gaming addiction”, a divorare bulimicamente le proprie energie in una spirale al rialzo che non conosce più limiti. Un meccanismo perverso, che per reggersi in piedi ha bisogno di sfornare continuamente novità e sorprese, ma ove le forme inventate sono rarissime e il “gioco” finisce sempre per rinviare a qualcosa di già codificato e già costituito, a un universo di oggetti fedeli e complicati, di fronte al quale il giocatore può trovare spazio esclusivamente in funzione di proprietario e di utente, mai di creatore.
Davanti allo schermo del computer, il ragazzino affetto da ludopatia non fa che portare all’estremo questo meccanismo: imita il mondo degli adulti e le sue logiche, perde il senso della misura e dello scarto, fino a identificarsi totalmente con la realtà agita. Non inventa più nulla, ma – guidato da un’insaziabile coazione a ripetere – si prepara a un futuro di scelte scontate. Senza avventura né gioia.