Esistono due tipi di industrie, quelle che sono già state stravolte dall’innovazione digitale e quelle che lo saranno.
L’iperbole non è mia, compare a volte nei discorsi di Margrethe Vestager, vicepresidente esecutivo della Commissione europea, che adesso riassume in sé tutte le competenze sul digitale. (“for a Europe fit for the digital age”). In realtà la parola “stravolte” non rende al meglio l’inglese disrupted, che implica sì lo smarrimento dello stravolgimento ma anche la rinascita di innovazione che da esso può derivare. E come passare dalla sola distruzione alla creazione di valore è la sfida che l’Europa ha di fronte, visto che finora ne è rimasta ai margini.
L’ho raccontato il 5 dicembre a How can we govern Europe di Eunews.
La portata, la velocità e la profondità della rivoluzione digitale sono tali da non poter essere affrontate su scala nazionale, e forse perfino la dimensione macroregionale dell’Unione Europea a volte è insufficiente, per tanti aspetti – si pensi all’ultimo e più dibattuto, quello fiscale con le minacce di guerra commerciale conseguenti all’istituzione di una web tax in alcuni Paesi europei.
Ma se si guarda alla scala europea, all’inizio di questo nuovo decennio, qualche elemento di riflessione può essere utile a tracciare alcune idee sulle vie alternative che può prendere lo sviluppo del web. La sfida – detto in sintesi – è se dal “modello europeo”, uscito perdente dalla prima fase della digitalizzazione (quella dell’espansione, dominata dalle big tech statunitensi e in misura minore ma crescente da quelle cinesi), possano uscire strumenti utili alla seconda fase, nella quale l’espansione digitale ha “invaso” temi cruciali della nostra democrazia economica e della nostra democrazia tout court: dalla concorrenza all’innovazione e le condizioni che le favoriscono, dalla difesa dei “vecchi” diritti fondamentali alla emersione e tutela di nuovi diritti, dal pluralismo alla privacy.
Tra tutte le sfide digitali che si pongono alla concorrenza e – aggiungerei – alla democrazia globale, mi concentrerò su due che hanno un carattere più strettamente economico, e una terza che ha una dimensione più politica (anche che, come vedremo, queste dimensioni sono tra loro strettamente connesse): la concorrenza, l’innovazione, i diritti.
La concorrenza: il vincitore prende tutto
Grafico 1: capitalizzazione di mercato delle prime dieci compagnie internet (fonte Nasdaq, giugno 2019)
La prima lettura di questo grafico può essere esclusivamente geografica: l’Europa è fuori dalla classifica della capitalizzazione delle prime dieci compagnie internet al mondo, dominata dalle società multinazionali basate negli Stati Uniti, insidiate solo dalle emergenti cinesi. La seconda lettura è sul modello di business che caratterizza questa classifica: quello delle piattaforme digitali, che generano valore connettendo persone e mercati. Le grandi società dell’elenco dei “top ten” forniscono servizi e prodotti diversi, e hanno anche diverse storie e caratteristiche; ma sono tutte accomunate da un elemento: è il network, la stessa connessione, che genera valore. E dunque più grande è il network, più valore si crea.
La tendenza al monopolio non è un incidente, un lato oscuro o inquietante dell’altrimenti gloriosa epopea delle internet company: è un elemento strutturale di un modello nel quale il vincitore prende tutto. In un modello del genere, si può dare un’altra forma di concorrenza, non quella che si svolge nel mercato ma una competizione per il mercato, in cui la piattaforma più efficiente vince ma può essere scalzata, in successione, da un altro vincitore-che-prende-tutto. E all’inizio dello sviluppo delle internet company questo è successo; adesso però non è più così. I potenziali vincitori di domani più facilmente si fondono, o vengono acquisiti, dai regnanti di oggi.
Antitrust, le debolezze (e qualche forza) della Ue
Se questo è successo, non è solo per la forza gigantesca del business model delle piattaforme, ma anche, almeno in parte, per la direzione che la politica della concorrenza statunitense ha preso. Da qualche anno è in corso un ampio dibattito, a livello scientifico e politico, su quel che l’antitrust americano non ha fatto, quel che poteva fare e quel che potrà fare.
E l’Europa? L’Unione Europa, che della politica della concorrenza ha fatto uno dei suoi pilastri fondamentali, è insieme in una posizione di estrema debolezza e di qualche forza. La debolezza deriva dal fatto che è difficile, se non impossibile, inserirsi in una competizione nella quale i grandi hanno già “preso tutto”. Una Google europea non è all’orizzonte. Ma paradossalmente è proprio all’Europa che dagli Stati Uniti si guarda per sostenere un ritorno a un antitrust più aggressivo, che ripristini le condizioni di un mercato nel quale tutti possono giocare su un equo terreno di gioco. La direzione data all’antitrust europeo dalla stessa Vestager – confermata e rafforzata nel programma che, con una investitura più ampia e allargata alla politica industriale, ha nella nuova Commissione – così come gli interventi di alcune autorità nazionali, rendono evidente questo differente approccio. E anche tutti i suoi limiti: la difficoltà di utilizzare strumenti dell’antitrust novecentesco per affrontare situazioni del tutto nuove; di muoversi a livello macroregionale di fronte ad attori globali; di rincorrere un cambiamento tecnologico che, inevitabilmente, corre più veloce dei guardiani del mercato; di fronteggiare le ritorsioni che, nel nuovo clima geopolitico di guerra commerciale, arrivano non solo dal business ma anche e soprattutto dalle politiche statuali.
Si tratta non solo di tornare a una filosofia “delle origini” dell’antitrust e di aggiornare i suoi strumenti, ma anche di inventarne di nuovi. E potrebbe non bastare. In altre parole: nella tutela della concorrenza l’Europa, in passato accusata di essere statalista e protezionista per le sue industrie, ha qualche carta in più da giocarsi; è una partita molto difficile, benché necessaria; ma potrebbe non essere sufficiente per affrontare le altre sfide della digitalizzazione.
La partita dell’innovazione
Un’altra partita si gioca in parallelo, ed è quella dell’innovazione. Ci si deve chiedere se il modello di business sul quale si basa l’economia delle piattaforme, che hanno innovato profondamente creando settori e servizi nuovi o trasformando radicalmente quelli tradizionali, è un modello che continuerà a produrre innovazione, oppure se la loro capacità creatrice si è arrestata.
Non c’è una risposta univoca, né nella storia né nella teoria economica, a questo quesito; ma diversi modelli possibili. Ai due estremi, ci sono la grande impresa tradizionale, un sistema chiuso che produce innovazione al suo interno; e l’open software, sviluppato con un processo collaborativo al quale concorrono tutti e i cui risultati sono a disposizione di tutti. Le piattaforme digitali americane, pur essendo nate nel contesto culturale e fattuale della collaborazione di massa, della filosofia del “what’s mine is yours”, e portando nei loro slogan molto della carica visionaria di quelle origini, per la maggior parte operano ora come sistemi chiusi, come silos. Mentre l’Europa ha sviluppato molto i processi delle OSS, standard sviluppati e mantenuti con un processo collaborativo e poi resi disponibili attraverso alcuni sistemi di brevetti e patenti.
Non si può dire una volta per tutte e per tutti i settori quale di questi due sistemi sia più favorevole all’innovazione: la piattaforma proprietaria ha dalla sua due fattori decisivi che sono la velocità e la semplicità, laddove le procedure degli OSS possono essere molto lente e complicate. D’altro canto, l’innovazione in campo digitale si è sempre giovata dell’apporto collaborativo di massa, reso possibile dalle stesse potenzialità della tecnologia; e le stesse piattaforme proprietarie in molti casi hanno mostrato di non poterne fare a meno. Dunque, la sfida dell’innovazione è aperta, ma tanto più si giocherà sul terreno dell’interoperabilità e degli standard comuni, tanto più l’Europa avrà qualcosa da dire, potendo vantare una qualche esperienza del recente passato. E si può presagire che lo sviluppo dell’Internet of Things, essendo basato sulla connessione tra sistemi, servizi, reti, richiederà sistemi basati su interoperabilità e accessibilità, mal tollererà barriere proprietarie rigide.
I diritti
Oltre ai diritti della sfera economica – come quello alla libertà d’impresa, che esige un ambiente di libera concorrenza; i diritti del lavoro, e quelli a partecipare ai frutti del progresso sociale e tecnologico – le sfide della digitalizzazione investono tutta la sfera della politica.
Ed è proprio in questa che è nato, a cavallo del 2016, quello che ora comunemente si definisce il techlash, l’ondata di ripensamento critico sui frutti buoni e ricchi della rivoluzione digitale. Da questa ondata non dovremmo farci trascinare, dimenticando gli enormi progressi in termini di accessibilità alle informazioni, loro comunicazione, livellamento delle condizioni di partenza, riduzione del divide tra i produttori e i fruitori di informazione e conoscenza, e anche di strumenti di partecipazione alla vita democratica, che sono stati visibili nella prima campagna elettorale di Obama come nelle primavere arabe come in tanti posti nei quali sui social media corre un’informazione altrimenti compressa da regimi totalitari.
Però dal 2016 – con le campagne elettorali per il referendum su Brexit e per le presidenziali americane – sono esplosi alla luce i pericoli a cui sono esposti i diritti fondamentali delle nostre democrazie: privacy, pluralismo, partecipazione alla vita democratica. Per stare solo al tema del pluralismo dell’informazione (sul quale il Centre for Media Pluralism and Media Freedom dell’European University Institute produrrà tra poche settimana il suo Media Pluralism Monitor 2020, con rilevazioni aggiornate a nuove variabili dell’ecosistema dei media), la caduta dei vecchi cancelli (e controlli) all’accesso alle notizie, costituiti dai media tradizionali, ha allargato le potenzialità dell’informazione, ma anche esposto tutti ai rischi della disinformazione e misinformazione, ai pericoli di bolle autoreferenziali, fino all’odio in rete; e ha creato nuovi cancelli d’accesso, posseduti da pochi proprietari e regolati da criteri non conoscibili e non conosciuti.
Nuovi strumenti per nuovi diritti (e per difendere vecchi diritti)
In questo breve spazio non pretendiamo di affrontare la vastità e complessità di questi temi, se non per dire che, così come per la concorrenza, si tratta di trovare strumenti nuovi per difendere diritti “vecchi”, costitutivi della nostra convivenza democratica. Ma anche di riconoscere l’emersione di nuovi diritti e trovare il modo per garantirli a tutti. Uno di questi è la trasparenza, che si declina in modo particolare di fronte alla fonte di una notizia, di un testo, di un’immagine: il diritto di sapere se chi sta interagendo con me è una persona o una macchina, un’identità artificiale.
La California ha approvato a luglio una legge che vieta l’uso dei “(ro)bot” nei periodi elettorali. Il testo mette al bando l’uso di account automatizzati anonimi, nel periodo elettorale, per cercare di influenzare le elezioni (e anche di vendere prodotti). A pochi chilometri dal luogo in cui tutto è cominciato – la Silicon Valley – si fa un passo avanti verso il riconoscimento di un nuovo diritto: quello di sapere se sto leggendo il messaggio di una persona o di un robot. Un diritto che sarà arduo garantire, una legge di difficile attuazione, ma la cui enunciazione ci fa pensare che le sfide digitali esigono una nuova generazione di diritti.
L’Europa, che ha costruito una legislazione e un sistema di garanzie sulla privacy, e ha introdotto il diritto all’oblio, anche in questo potrebbe avere qualche strumento in più. Rovistando nelle cassette del passato, avendo il coraggio di buttare quelli vecchi e inventarne di nuovi.