Internet ha comportato un mutamento profondo nella rappresentazione sociale della personalità individuale e nelle modalità di interferenza nella sfera privata: navigando in Rete ciascuno lascia delle “tracce digitali” che possono essere trattate al fine di ricostruire la personalità e identità del loro titolare.
Infatti, grazie ai moderni algoritmi di ricerca, sempre più raffinati e performanti, vari piccoli dettagli della nostra vita, di per sé insignificanti, possono essere aggregati fra loro, riconducendo ad una dimensione unitaria le informazioni frammentate. Il diritto individuale che oggi, nell’era di Internet, deve essere riconosciuto e tutelato è quindi quello di poter mantenere il controllo di tali frammenti, di consentire consapevolmente che altri ne facciano un uso conforme alla volontà della persona cui i dati si riferiscono, di opporsi ai trattamenti indesiderati, di poter cancellare le tracce digitali ritenute fuorvianti rispetto alla rappresentazione veritiera di sé o che semplicemente si desidera tenere nascoste a tutti o ad alcuni. Spesso questo nuovo diritto individuale è stato definito “diritto all’oblio”.
Diritto all’oblio e diritto dell’identità personale
Ciò considerato, il diritto alla rettifica dei dati e alla loro cancellazione (artt. 16 e 17 GDPR) sono in realtà diritti strumentali alla realizzazione di un altro diritto, impropriamente qualificato come diritto all’oblio sempre nel titulus dell’art. 17, che consiste di fatto nel non vedere continuamente riproposte dai mezzi di comunicazione notizie riferite alla propria persona che, per via del trascorrere del tempo, hanno perso i caratteri dell’interesse pubblico e dell’utilità sociale. Dunque, il cosiddetto diritto all’oblio non è rivolto a cancellare il passato, ma a proteggere il presente, in quanto ha sovente per oggetto avvenimenti che, nel momento del loro accadimento, non rientravano nella sfera della privacy, ma erano caratterizzati dall’interesse pubblico alla loro conoscenza. Il diritto all’oblio sorge dunque a tutela della reputazione individuale e può essere sacrificato soltanto nel caso in cui, per qualche ragione oggettiva, l’interesse pubblico per quella notizia si risvegli. Il rischio, però, è che la pretesa di oblio non si fondi su elementi immanenti all’informazione di cui si chiede la cancellazione (decorso del tempo, inattualità e sopraggiunta inutilità sociale dell’informazione), ma sulla percezione di ogni individuo che la rappresentazione online della propria personalità appaia distorta rispetto alla realtà.
Il bene giuridico tutelato dal diritto in questione è quello dell’identità personale, fondato sull’art. 2 Cost., che la Corte di Cassazione (sentenza 22 giugno 1985, n. 3769) ha definito in questi termini: «Ciascun soggetto ha interesse, ritenuto generalmente meritevole di tutela giuridica, di essere rappresentato, nella vita di relazione, con la sua vera identità, così come questa nella realtà sociale, generale e particolare, è conosciuta o poteva essere conosciuta con l’applicazione dei criteri della normale diligenza e della buona fede soggettiva; ha, cioè, interesse a non vedersi all’esterno alterato, travisato, offuscato, contestato il proprio patrimonio intellettuale, politico, sociale, religioso, ideologico, professionale ecc. quale si era estrinsecato od appariva, in base a circostanze concrete ed univoche, destinato ad estrinsecarsi nell’ambiente sociale». Secondo la medesima pronuncia, l’identità personale rappresenta «una formula sintetica per contraddistinguere il soggetto da un punto di vista globale nella molteplicità delle sue specifiche caratteristiche e manifestazioni (morali, sociali, politiche, intellettuali, professionali, ecc.), cioè per esprimere la concreta ed effettiva personalità individuale del soggetto quale si è venuta solidificando od appariva destinata, in base a circostanze univoche, a solidificarsi nella vita di relazione».
In un primo momento, la giurisprudenza della Corte di Cassazione si è concentrata sull’esigenza di tutela della cosiddetta “privacy storica”, cioè il «giusto interesse di ogni persona a non restare indeterminatamente esposta ai danni ulteriori che arreca al suo onore e alla sua reputazione la reiterata pubblicazione di una notizia in passato legittimamente divulgata»; tuttavia «quando il fatto precedente per altri eventi sopravvenuti ritorna di attualità, rinasce un nuovo interesse pubblico all’informazione – non strettamente legato alla stretta contemporaneità fra divulgazione e fatto pubblico – che si deve contemperare con quel principio, adeguatamente valutando la ricorrente correttezza delle fonti di informazione» (Corte di Cassazione, terza sezione civile, sentenza 9 aprile 1998, n. 3679). Da allora, per un lungo periodo le pronunce giurisprudenziali in tema di diritto all’oblio hanno riguardato perlopiù casi di persone che, essendo state protagoniste molto tempo addietro di fatti di cronaca (spesso giudiziaria) di cui si erano occupati i tradizionali mezzi di comunicazione, rivendicavano il diritto a che tali notizie non venissero più riproposte. In altre parole, l’insorgenza del diritto ad essere dimenticati veniva collegata essenzialmente al decorso del tempo, per via della quale l’interesse pubblico e l’utilità sociale di talune notizie era scemata.
Alcuni anni dopo, nella sentenza 25 giugno 2004, n. 11864, la Corte di Cassazione (prima sezione civile) ha ricondotto il diritto all’oblio nell’ambito dei diritti della personalità: il diritto all’oblio salvaguarda la proiezione sociale dell’identità personale, l’esigenza del soggetto di essere tutelato dalla divulgazione di informazioni (potenzialmente) lesive in ragione della perdita di attualità delle stesse, sicché il relativo trattamento viene a risultare non più giustificato ed anzi suscettibile di ostacolare il soggetto nell’esplicazione e nel godimento della propria personalità. Questa ricostruzione si fonda sul principio per cui la libera manifestazione del pensiero – e quindi il diritto di cronaca – riconosciuto e tutelato dall’art. 21 Cost. incontri comunque un limite nei diritti inviolabili dell’uomo (art. 2 Cost.) e, in particolare, nel diritto alla pari dignità sociale di ogni cittadino (art. 3 Cost.).
Il diritto alla contestualizzazione dell’informazione
L’utilizzo di Internet per la diffusione di informazioni anche di tipo giornalistico impone di considerare il diritto all’oblio sotto un diverso profilo, poiché l’informazione presente online non è cancellata, ma permane disponibile o quanto meno astrattamente disponibile nella Rete. La giurisprudenza italiana ha allora iniziato a dare rilievo al diritto alla contestualizzazione dell’informazione, in modo da non vedere travisata la propria immagine sociale. Significativa a tale proposito è stata la sentenza della terza sezione civile della Corte di Cassazione 5 aprile 2012, n. 5525, che per la prima volta si è occupata del diritto all’oblio in connessione alla permanenza delle notizie in Internet, cioè nell’archivio online di un quotidiano: un personaggio politico, arrestato per corruzione nel 1993 e successivamente assolto, lamentava il fatto che nell’archivio online di un’importante testata giornalistica comparisse, pur a distanza di molti anni, la notizia del suo arresto, senza però alcuna menzione della successiva assoluzione. Per la Corte, «il diritto all’oblio salvaguarda in realtà la proiezione sociale dell’identità personale, l’esigenza del soggetto di essere tutelato dalla divulgazione di informazioni (potenzialmente) lesive in ragione della perdita (stante il lasso di tempo intercorso dall’accadimento del fatto che costituisce l’oggetto) di attualità delle stesse, sicché il relativo trattamento viene a risultare non più giustificato ed anzi suscettibile di ostacolare il soggetto nell’esplicazione e nel godimento della propria personalità. […] emerge allora la necessità, a salvaguardia dell’attuale identità sociale del soggetto cui la stessa afferisce, di garantire al medesimo la contestualizzazione e l’aggiornamento della notizia già di cronaca che lo riguarda, e cioè il collegamento della notizia ad altre informazioni successivamente pubblicate concernenti l’evoluzione della vicenda, che possano completare o financo radicalmente mutare il quadro evincentesi dalla notizia originaria, a fortiori se trattasi di fatti oggetto di vicenda giudiziaria, che costituisce anzi emblematico e paradigmatico esempio al riguardo». Quindi, occorre «garantire la contestualizzazione e l’aggiornamento della notizia già di cronaca oggetto di informazione e di trattamento, a tutela del diritto del soggetto cui i dati pertengono alla propria identità personale o morale nella sua proiezione sociale, nonché a salvaguardia del diritto del cittadino utente di ricevere una completa e corretta informazione», altrimenti «la notizia, originariamente completa e vera, diviene non aggiornata, risultando quindi parziale e non esatta, e quindi sostanzialmente non vera».
Dunque, in questo interessante caso la Corte non ha riconosciuto alla persona protagonista delle notizie il diritto all’oblio, ma solo il diritto alla contestualizzazione di tali informazioni, che però potrebbe presupporre che chiunque gestisca un archivio online sia tenuto ad implementare un sistema di aggiornamento costante di tutti i suoi contenuti per non incorrere in responsabilità civile (risarcimento del danno ingiusto) e talvolta anche penale (illecito trattamento dei dati personali). Tuttavia, i giudici di legittimità non si sono soffermati su quali debbano essere le modalità tecniche con cui realizzare in concreto questa contestualizzazione, né hanno chiarito se l’onere di provvedere a ciò spettasse unicamente al quotidiano cui apparteneva l’archivio storico online o per qualche verso anche ai motori di ricerca.
Vale la pena di precisare che, nella costante giurisprudenza della Suprema Corte – che comunque non ha finora mai riguardato direttamente i motori di ricerca, ma solo i siti-sorgente – il diritto all’oblio non corrisponde al diritto alla rimozione dalla pubblica circolazione di notizie scomode o sgradite, al fine di “ripulire” la propria reputazione, ma semplicemente quello di salvaguardare la propria identità personale in Rete ottenendo l’aggiornamento di notizie che, seppure originariamente corrette, in relazione al trascorrere del tempo o al ruolo ricoperto nella vita pubblica dell’interessato possono risultare lesive per la sua reputazione.
Diritto all’oblio e diritto di cronaca
Fra le pronunce più interessanti degli ultimi anni si ricorda la sentenza della terza sezione civile della Corte di Cassazione, 26 giugno 2013, n. 16111: «In tema di diffamazione a mezzo stampa, il diritto del soggetto a pretendere che proprie, passate vicende personali siano pubblicamente dimenticate (nella specie, c.d. diritto all’oblio in relazione ad un’antica militanza in bande terroristiche) trova il limite nel diritto di cronaca solo quando sussista un interesse effettivo ed attuale alla loro diffusione, nel senso che quanto recentemente accaduto (nella specie, il ritrovamento di un arsenale di armi nella zona di residenza dell’ex terrorista) trovi diretto collegamento con quelle vicende stesse e ne rinnovi l’attualità. Diversamente, il pubblico ed improprio collegamento tra le due informazioni si risolve in un’illecita lesione del diritto alla riservatezza, mancando la concreta proporzionalità tra la causa di giustificazione (il diritto di cronaca) e la lesione del diritto antagonista».
Oppure, ancora più recentemente, la sentenza della terza sezione civile della Corte di Cassazione, n. 13161 del 24 giugno 2016, con la quale è stata imposta la cancellazione dagli archivi di un quotidiano locale di una notizia relativa a un fatto risalente al 2008, con la motivazione che – nonostante fosse tuttora in corso un procedimento penale a carico dei protagonisti di tale vicenda e che essa fosse, almeno per la comunità locale, di interesse pubblico – la facile accessibilità e consultabilità di quell’articolo via Internet avesse determinato una lesione del diritto dei ricorrenti alla riservatezza ed alla reputazione. Infatti, l’articolo poteva essere reperito facilmente, semplicemente digitando il nominativo dei ricorrenti in un motore di ricerca. Il direttore del giornale online, che aveva mantenuto visibile l’articolo oltre il momento in cui il protagonista della vicenda ne aveva chiesto la rimozione, è stato dunque ritenuto responsabile sul piano civile per non aver cancellato tempestivamente l’articolo. Con tale sentenza la Corte sembra aver sancito una “scadenza” del diritto di cronaca quantificabile in due anni e mezzo (tale era stato infatti il tempo intercorso fra la pubblicazione dell’articolo nel marzo 2008 e la richiesta al giornale di cancellare l’articolo, risalente al settembre 2010), indipendentemente dal fatto che la vicenda processuale cui l’articolo si riferiva fosse ancora in corso. Per la Corte, dunque, l’attualità della notizia va riferita non al processo, ma al fatto storico; decorso un certo lasso di tempo dall’evento (rimesso alla discrezionalità del giudice), il diritto alla riservatezza prevarrebbe sul diritto di cronaca e il trattamento dei dati personali, da un dato momento in poi, risulterebbe ingiustificato, essendo «trascorso sufficiente tempo perché le notizie divulgate potessero avere soddisfatto gli interessi pubblici sottesi al diritto di cronaca giornalistico». È evidente che, qualora venga dato seguito a questa interpretazione basata sul decorso del tempo, vi sarebbero significative ripercussioni sulla libertà di cronaca e sul diritto di tutti ad essere informati. Eppure, l’eventuale lesione del diritto alla riservatezza non può certo derivare dall’originaria pubblicazione dell’articolo, di per sé lecita, bensì dalla permanenza per un tempo indeterminato di notizie errate, non contestualizzate né aggiornate, riferite a vicende e ad episodi di vita trascorsa che non corrispondono all’identità attuale, memorizzate online e sempre reperibili tramite i motori di ricerca. Colpisce, comunque, che la Corte di Cassazione abbia avvalorato la tesi dell’obbligo di cancellazione dell’articolo contestato dall’archivio del giornale online, senza considerare affatto che la Corte di Giustizia Ue, nel caso Google Spain, abbia parlato solo di de-indicizzazione tramite i motori di ricerca e mai di cancellazione delle notizie pubblicate in origine lecitamente.
Il caso di Vittorio Emanuele di Savoia
Per concludere questa rassegna giurisprudenziale, occorre evidenziare quali orientamenti la Corte di Cassazione ha espresso in relazione alla pretesa di oblio avanzata da un personaggio famoso. Nel caso di Vittorio Emanuele di Savoia, figlio dell’ultimo re d’Italia, che contestava al quotidiano “La Repubblica” di aver pubblicato nel 2007 un articolo che conteneva un riferimento a una passata vicenda penale dalla quale egli reclamava di essere stato assolto vari anni prima, la Corte (quinta sezione penale, 3 agosto 2017, n. 38747) ha ritenuto sussistente la rilevanza pubblica della notizia, poiché l’articolo che conteneva il riferimento all’omicidio era stato scritto in occasione della partecipazione di Vittorio Emanuele di Savoia a una cerimonia pubblica. Quindi, poiché il diritto all’oblio si deve confrontare «col diritto della collettività ad essere informata e aggiornata su fatti da cui dipende la formazione dei propri convincimenti», «non può dolersi Savoia della riesumazione di un fatto certamente idoneo alla formazione della pubblica opinione».
A diverse conclusioni è giunta invece la prima sezione civile della Corte di Cassazione (ordinanza 20 marzo 2018 n. 6919), che ha riconosciuto il «fondamentale diritto all’oblio» anche a un personaggio famoso (nella fattispecie, il cantante Antonello Venditti). L’interesse pubblico, infatti, non può essere considerato solo in relazione alla notorietà del personaggio, ma deve essere valutato in relazione al fatto in sé. Quindi, anche un personaggio noto al pubblico ha diritto «a che fatti o vicende – anche spiacevoli o addirittura diffamanti – che lo avevano riguardato in passato, non vengano sottoposti nuovamente, a distanza di tempo, all’attenzione del pubblico, in mancanza di un interesse apprezzabile ed attuale». Al di là del caso di specie, con questa decisione la Corte ha precisato i presupposti in base ai quali il fondamentale diritto all’oblio può subire una compressione, a favore dell’ugualmente fondamentale diritto di cronaca: «1) il contributo arrecato dalla diffusione dell’immagine o della notizia ad un dibattito di interesse pubblico; 2) l’interesse effettivo ed attuale alla diffusione dell’immagine o della notizia (per ragioni di giustizia, di polizia o di tutela dei diritti e delle libertà altrui, ovvero per scopi scientifici, didattici o culturali), da reputarsi mancante in caso di prevalenza di un interesse divulgativo o, peggio, meramente economico o commerciale del soggetto che diffonde la notizia o l’immagine; 3) l’elevato grado di notorietà del soggetto rappresentato, per la peculiare posizione rivestita nella vita pubblica e, segnatamente, nella realtà economica o politica del Paese; 4) le modalità impiegate per ottenere e nel dare l’informazione, che deve essere veritiera (poiché attinta da fonti affidabili, e con un diligente lavoro di ricerca), diffusa con modalità non eccedenti lo scopo informativo, nell’interesse del pubblico, e scevra da insinuazioni o considerazioni personali, sì da evidenziare un esclusivo interesse oggettivo alla nuova diffusione; 5) la preventiva informazione circa la pubblicazione o trasmissione della notizia o dell’immagine a distanza di tempo, in modo da consentire all’interessato il diritto di replica prima della sua divulgazione al grande pubblico».
Un equilibrio difficile
La giurisprudenza fin qui esaminata, talvolta oscillante, mostra la difficoltà di bilanciare adeguatamente i diritti della personalità, fra cui quello ad essere dimenticati, e il diritto di tutti ad essere correttamente e completamente informati. Il diritto individuale a non essere più ricordati dall’opinione pubblica in relazione a vicende trascorse da tempo – o almeno ad essere ricordati in modo aderente alle circostanze presenti e non più solo cristallizzato nel passato – è costantemente posto in relazione con il diritto di cronaca giornalistica e il diritto dell’intera società a ricevere le informazioni. La pervasività dei moderni mezzi di comunicazione, che può gravemente compromettere l’efficacia della tutela dei diritti individuali, costituisce infatti un rischio per la democratica evoluzione delle moderne società, fondate sul principio del pluralismo delle informazioni e della conoscenza critica.