Mentre altre branche del diritto, come quello civile, si sono schiuse già da tempo al digitale in tutte le sue forme, quello penale resiste perché il suo impatto sulla libertà personale è talmente intrusivo da richiedere l’adozione di tutte le possibili cautele.
Ecco perché lo sforzo di ricostruire dall’interno dell’ordinamento italiano la via verso la dimensione digitale appare innovativo e apprezzabile. È quello che ha intrapreso Michele Papa, professore di diritto penale all’Università di Firenze, affrontando di petto la parte più difficile di una ricostruzione in chiave digitale e postmoderna del diritto penale: la parte speciale del codice. Per i non addetti ai lavori, parte speciale è quella che descrive i singoli reati, come si dice in gergo li “tipizza”.
Come convertire in digitale le “immagini-reato”
In Fantastic Voyage. Attraverso la specialità del diritto penale (Giappichelli, 2019), l’Autore si pone appunto l’interrogativo: come convertire le immagini-reato costruite nell’Ottocento e Novecento, in chiave naturalistica, nel prisma caleidoscopico del digitale. Il quesito è più che pertinente perché la parte speciale del codice, descrivendo i reati, ha una natura “visuale, immaginativa, pittorica, iconografica, rappresentativa, figurativa della realtà”.
In altre parole, descrivere un reato, tipizzarlo, è un po’ come dipingere un quadro. Il pennello è costituito dal linguaggio che “genera la visualizzazione mentale di una forma, di una specifica modalità di manifestarsi dell’ingiusto”. Questa forma di narrativa iconografica possiede un potente valore performativo poiché da essa discendono tanto i doveri per i consociati, i quali apprendono quali comportamenti sono vietati, tanto la delimitazione del potere di punire. Non poco davvero! Ecco allora il nodo: se la parte speciale del diritto penale dipende dalla “produzione di un immaginario visivo capace di veicolare messaggi normativi” cosa succede quando a crollare è il presupposto della realtà sensibile, smaterializzata, virtualizzata, relativizzata.
Nel postmoderno tecnologico il legislatore non può più affidarsi alla mimesis, all’imitazione della realtà, per produrre immagini visive del reato. E questo per la semplice ragione che la copia della natura non funziona: è vero certo che già due pittori diversi nel Seicento potevano rappresentare lo stesso evento in modo completamente diverso; però l’evento, storico o mitologico che fosse, aveva la sua sostanza, la sua consistenza.
Il nodo ora è che “occorre rendere visivamente l’immagine dell’illecito, mediante uno sforzo di immaginazione creativa; occorre immaginare una forma paradigmatica che nella realtà sensibile non c’è”. Il passaggio, molto delicato e problematico, consisterebbe oggi nell’affidarsi non a una forma analogica bensì a una digitale, nella quale la norma non rappresenta ma significa mediante un’indicazione cifrata o numerica. Equivarrebbe a rinunciare a descrivere il reato, perché impossibile, per limitarsi a enunciare le condizioni della responsabilità dell’individuo. Tanto passaggio significherebbe però abdicare alla funzione narrativa della norma che ha la missione di parlare alla comunità ovvero: descrivo, io legislatore, il reato, per farti sapere quello che puoi o non puoi fare; appendo al tuo corridoio una galleria di quadri che rappresentano altrettanti reati nei quali non devi incorrere. Non è una scelta da poco, considerato anche che la missione della costruzione iconico-narrativa del reato è anche quella di limitare il potere del giudice. Eppure, con questa novità bisogna pure rassegnarsi a fare i conti: “la forma delle cose non parla più; di fronte alla tela bianca, il legislatore non sa cosa dipingere, non sa come dare forma al fatto tipico”. Bella situazione! Non vi è certezza per il cittadino, che non riesce a conoscere la norma penale, e per il giudice, che scivola facilmente dalla interpretazione alla creazione.
Le due strade che si aprono
Difficile ammetterlo ma “nell’era digitale, le norme non sono parole incise sulla pietra, ma sono dati, informazioni”. Si aprono a questo punto due strade. La prima, quella più impervia, consiste nell’accettare la svolta digitale fino in fondo: “eliminata la mediazione del tratto iconografico continuo, il fatto o meglio: il divieto, è identificato unicamente in base all’elencazione cifrata delle condizioni che devono verificarsi perché la sua violazione possa dirsi sussistente”. La seconda, preferita dall’Autore, è quella analogica che non passa per un impossibile ritorno al passato bensì per la strettoia della “realtà aumentata” ossia: “aggiungere al tratto morfologico della visione una molteplicità di informazioni ulteriori”. Non è vero forse che oggi l’immagine è accompagnata da una quantità di informazioni che la trasformano in ipertesto? Con prudenza, il diritto penale potrebbe cominciare a considerare questa via.
Difficile esercizio quello di Michele Papa, che ha lanciato con eleganza e grande cultura un ballon d’essai in una vera e propria terra incognita.
Da ora, si può dire, il dibattito è ufficialmente aperto.