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Disinformazione, cosa succede se è uno Stato a influenzare i social? Un caso controverso



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La disinformazione sui social può distorcere la realtà e influenzare le decisioni delle persone. Il caso Vivek H. Murthy contro lo Stato del Missouri, in discussione alla Corte Suprema Usa, mette in dubbio se il Governo possa influenzare le piattaforme social per rimuovere contenuti, sollevando questioni su Primo Emendamento e libertà di espressione

Pubblicato il 5 giu 2024

Alessandra Lucchini

Avvocato cassazionista – DPO



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La disinformazione in rete è una delle problematiche più significative emerse negli ultimi anni che caratterizzano in modo molto rilevante l’esperienza dei social media. Secondo Giuseppe Riva [1] la maggior parte delle fake news non solo è totalmente falsa, ma presenta i fatti in modo distorto, orientato esplicitamente al supporto di tesi pregiudiziali cercando di ingenerare nel lettore odio e disgusto. Pur essendo una visione ormai un po’ datata è indubbio che questo fenomeno sta assumendo un perimetro sempre più ampio.

Examining Murthy v. Missouri: Government's Impact on Social Media

Le fake news sono pericolose “perché cambiano la percezione della realtà e influenzano le decisioni delle persone” [2].

Ma che cosa succede se è lo Stato ad influenzare i social per non pubblicare notizie e informazioni vere o false o a cancellare post non “graditi”?

La causa Vivek H. Murthy contro lo Stato del Missouri

La riflessione è sorta a seguito della lettura di un articolo [3] sulla causa Vivek H. Murthy contro lo Stato del Missouri pendente davanti alla Corte Suprema degli Stati Uniti, la cui discussione è avvenuta il 18 marzo scorso. Si tratta di un caso particolare in cui i giudici dovranno stabilire se la comunicazione diretta del Governo federale degli Stati Uniti con le piattaforme di social media, in particolare su contenuti online relativi all’emergenza pandemica, abbia violato il diritto alla libertà di parola dei privati cittadini e, nello specifico il Primo Emendamento che garantisce la libertà di stampa [4].

Il caso nasce dall’azione di due funzionari degli Stati del Missouri e della Louisiana (guidati dall’allora procuratore generale del Missouri, Eric Schmitt) e cinque utenti di social media che hanno fatto causa al Governo degli Stati Uniti nel distretto occidentale della Louisiana, sostenendo che la Casa Bianca durante gli anni 2019 – 2020 si fosse impegnata in una campagna di “coercizione informale e clandestina per mettere a tacere le voci con cui non era d’accordo” nei confronti dei social media. Secondo i ricorrenti l’amministrazione Biden ha per anni convinto le piattaforme di social media come Facebook e X a rimuovere post che includevano, tra le altre cose, informazione sui vaccini, sulla pandemia di Covid-19 e sulle elezioni del 2020. Il Governo federale avrebbe esercitato pressioni sulle società di social media affinché censurassero le opinioni conservatrici e le critiche all’amministrazione Biden, in violazione del diritto alla libertà di espressione sancito dal Primo Emendamento.

Le posizioni delle parti possono così riassumersi: i ricorrenti sostengono che l’amministrazione Biden e i funzionari dell’agenzia hanno violato il Primo Emendamento quando hanno chiesto alle società di social media di rimuovere determinati contenuti. Sostengono inoltre che la Casa Bianca ha esercitato pressioni su Facebook affinché eliminasse i gruppi che pubblicavano notizie e informazione sul Covid-19 o sui vaccini; tale comportamento, coinvolgendo il Governo nel processo decisionale di queste società di social media, avrebbe soffocato il diritto delle persone di esprimere i propri punti di vista, il che equivale a una censura incostituzionale.

Il Governo federale dal canto suo sostiene, invece, che le istanze di “moderazione” da parte dei funzionari erano già in linea con le politiche delle piattaforme. Sostiene inoltre di non aver violato il Primo Emendamento perché non ha costretto o minacciato le aziende a eliminare e cancellare o non pubblicare alcuni contenuti. In più, secondo gli avvocati dello stato, “gli utenti dei social media hanno il diritto del Primo Emendamento di essere liberi dalle restrizioni governative sulla loro libertà di parola, ma non hanno il diritto del Primo Emendamento di pubblicare contenuti su piattaforme private che le piattaforme preferirebbero non ospitare”. Il Primo Emendamento e le preoccupazioni sulla censura, dicono ancora, non impediscono al Governo di esprimere un’opinione su quali informazioni siano o non siano veritiere quando si tratta di salute pubblica, o di dire a una piattaforma di social di combattere la disinformazione non pubblicando alcune notizie.

L’ingiunzione preliminare e il primo grado di giudizio

Il 4 luglio 2023 il tribunale di primo grado ha emesso un’ingiunzione preliminare che ha vietato ad alcune agenzie e ai membri dell’amministrazione federale di contattare i servizi social media per chiedere il blocco della pubblicazione di materiali (salvo quelli illeciti).

Nella sua sentenza, il giudice di primo grado Doughty ha scritto: “I querelanti probabilmente riusciranno nel merito a stabilire che il Governo ha usato il suo potere per mettere a tacere l’opposizione. Opposizione ai vaccini contro il Covid-19-; opposizione al mascheramento del Covid-19e lockdown; opposizione alla teoria della fuga di dati dal laboratorio del Covid-19-19-19; opposizione alla validità delle elezioni del 2020; opposizione alle politiche del presidente Biden; dichiarazioni secondo cui la storia del laptop di Hunter Biden era vera; e opposizione alle politiche dei funzionari governativi al potere. Tutti furono soppressi. È abbastanza significativo che ogni esempio o categoria di discorso soppresso fosse di natura conservatrice. Questa soppressione mirata delle idee conservatrici è un perfetto esempio di discriminazione dei punti di vista del discorso politico. I cittadini americani hanno il diritto di impegnarsi in un libero dibattito sugli importanti problemi che affliggono il Paese. Se le accuse avanzate dai querelanti sono vere, il caso in questione comporta probabilmente il più massiccio attacco contro la libertà di parola nella storia degli Stati Uniti.”

Il tribunale distrettuale ha pertanto concluso che i funzionari del Governo, tramite canali sia privati che pubblici, hanno chiesto alle piattaforme di rimuovere contenuti, hanno esercitato pressioni per cambiare le loro politiche di moderazione e le hanno minacciate, direttamente e indirettamente, di conseguenze legali se non avessero ottemperato. E ha funzionato: quella “pressione incessante” ha costretto le piattaforme ad agire e rimuovere i contenuti degli utenti. Addirittura, tali azioni non si sono limitate agli attori privati, ma anche gli account gestiti da funzionari statali sono stati soggetti a censura. Ad esempio, una piattaforma ha rimosso un post del Dipartimento di Giustizia della Louisiana, che raffigurava cittadini testimoniare contro politiche pubbliche riguardanti il Covid-19, per violazione della sua “politica di disinformazione medica” e “diffondere disinformazione medica”. In un altro caso, una piattaforma ha rimosso un post di un legislatore statale della Louisiana che discuteva dei vaccini Covid-19. Allo stesso modo, una piattaforma ha rimosso diversi video contenenti testimonianze riguardanti il Covid-19, pubblicati dalla Contea di St. Louis. Di conseguenza, il tribunale distrettuale ha emesso un’ingiunzione contro i funzionari del Governo vietando loro una serie di attività, tra cui “incontrare”, “comunicare” o “segnalare contenuti” alle aziende di social media “con lo scopo di sollecitare, incoraggiare, esercitare pressioni o indurre in qualsiasi modo la rimozione, la cancellazione, la soppressione o la riduzione di contenuti contenenti libertà di parola protetta”.

Le agenzie governative interessate dall’ingiunzione includevano il Dipartimento di Giustizia, il Dipartimento della Salute e dei Servizi Umani, il Dipartimento di Stato, i Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie e il Federal Bureau of Investigation. Oltre a numerose società di social media, l’ingiunzione impediva al Governo di comunicare con tre programmi accademici della Stanford University e dell’Università di Washington che studiavano la diffusione della disinformazione online: l’Election Integrity Partnership, il Virality Project e lo Stanford Osservatorio Internet.

La sentenza di appello: tra persuasione e coercizione

Il giorno successivo al deposito della sentenza di primo grado, il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha presentato ricorso in appello davanti alla Corte d’Appello del Quinto Circuito degli Stati Uniti. Il Dipartimento di Giustizia ha chiesto una sospensione dell’ingiunzione di Doughty, affermando che “ciò impedirebbe di collaborare con le società di social media su iniziative per prevenire gravi danni al popolo americano e ai nostri processi democratici prima delle elezioni del 2024”.

L’8 settembre 2023, la sentenza del Quinto Circuito ha confermato parzialmente la sentenza del tribunale distrettuale contro l’amministrazione Biden. La Corte ha ritenuto che alcune delle comunicazioni tra il Governo federale e le società di social media per cercare di combattere la presunta disinformazione sul Covid-19-19-19 “costringevano o incoraggiavano in modo significativo le piattaforme di social media a moderare i contenuti”, violando il Primo Emendamento.

La Corte ha ritenuto che il tribunale distrettuale non abbia commesso errori nel determinare che diversi funzionari, nello specifico la Casa Bianca, il CDC e l’FBI, probabilmente hanno esercitato coercizione o incoraggiato significativamente le piattaforme dei social media a moderare i contenuti, rendendo così tali decisioni riferibili ad azioni di Stato. In tal modo, è probabile che i funzionari abbiano violato il Primo Emendamento. Tuttavia, secondo la Corte molti dei funzionari citati nella denuncia stavano esercitando legittimamente il potere governativo, “adempiendo alle proprie responsabilità”, o semplicemente “impegnandosi in un’azione legittima” e pertanto la decisione deve essere assunta con le dovute cautele. Anzi, ancora più significativamente, la Corte afferma di essersi raramente trovata di fronte a una campagna coordinata di questa portata orchestrata da funzionari federali che mette a repentaglio un aspetto fondamentale della vita americana.

A tal fine ha concesso la revisione del caso davanti alla Corte Suprema che, nell’ottobre 2023, ha accettato di esaminare la controversia, revocando le ingiunzioni adottate dai tribunali di grado inferiore e consentendo al contempo al Governo federale di continuare a contattare le società di social media senza restrizioni.

La Corte ha ascoltato le difese orali il 18 marzo 2024.

La discussione davanti alla Corte Suprema degli Stati Uniti

Durante la discussione sono emersi spunti molto interessanti sui quali vale la pena soffermarsi.

Il primo punto importante riguarda la distinzione tra persuasione e coercizione che viene sostenuta dall’avvocato dello Stato, il viceprocuratore generale degli Stati Uniti Brian Fletcher: In sostanza il viceprocuratore sostiene che l’opera di persuasione delle piattaforme di social media oltrepasserebbe il limite solo quando trasmettesse una minaccia di azione avversa da parte del Governo, circostanza che nel caso di specie non si è verificata [5]. Inoltre, secondo lo Stato i reclamanti non hanno alcuna legittimazione ad agire perché non hanno dimostrato la minaccia imminente che il Governo abbia indotto una piattaforma a moderare i loro post, né il nesso di causalità tra l’intervento del Governo e le cancellazioni dei post o degli articoli. Secondo questa linea di difesa la sentenza della Corte di appello si basa su due errori giuridici fondamentali: da un lato, ha erroneamente ritenuto che anche le comunicazioni non coercitive, come i consigli sulla salute pubblica degli organi dello Stato, abbiano potuto trasformare le scelte editoriali delle piattaforme private in una azione statale. Dall’altro, la Corte ha confuso la persuasione con la coercizione.

Nella discussione si legge che un governo democraticamente rappresentativo ha (e deve avere) legittimamente un ruolo da svolgere come partecipante al discorso pubblico, anche cercando di persuadere oratori ed editori privati (come le società di social media) a considerare le implicazioni più ampie dei loro discorsi e delle loro decisioni editoriali.

Sarebbe strano, afferma l’avvocato dello Stato, se agenzie governative specializzate non potessero condividere le loro ricerche e raccomandazioni con le piattaforme le cui pratiche sono così importanti per la salute pubblica. Il Primo Emendamento non dovrebbe pertanto essere un ostacolo agli sforzi del Governo volti a informare e influenzare le decisioni e le pratiche dei social media, purché i funzionari governativi operino in modo da rispettare l’autonomia editoriale di tali soggetti. In sintesi, mentre la persuasione rispetta l’autonomia editoriale, la coercizione no e nel caso in discussione non c’è stata alcuna forma di coercizione [6].  

Un secondo punto interessante riguarda la tesi secondo cui le società di social media (e in particolare Facebook) e il Governo federale avrebbero dovuto (e dovrebbero) essere partner, far parte della stessa squadra, soprattutto in un momento come quello della pandemia in cui il fine comune non poteva che essere il bene pubblico.

Infine, dalla discussione emergono le preoccupazioni dei giudici che ammettono che “di solito non annulliamo le conclusioni dei fatti che sono state approvate da due tribunali di grado inferiore”. Si intravede già da questo passaggio che la scelta dei giudici sarà molto difficile e combattuta.

La decisione verrà presumibilmente emanata a giugno 2024.

Disinformazione, libertà di stampa e diritto alla libertà di espressione

Le argomentazioni orali nel caso Murthy sono arrivate in un momento in cui tribunali e politici sono alle prese con il potere dei social media di influenzare ogni cosa, dalle decisioni mediche di un paziente all’esito di un’elezione presidenziale. Attualmente, inoltre, gli Stati di Florida e Texas stanno approvando leggi che mirano a vietare ai social network di rimuovere contenuti e profili politici che violano le regole delle piattaforme. La legislazione texana è diretta a vietare che le società di social media impediscano agli utenti di esprimere il proprio punto di vista, mentre la legge della Florida, più ampia, vuole vitare il deplatforming e la pratica dello shadow banning. La Corte Suprema dovrà deciderne la costituzionalità.

La rilevanza di questa controversia assume una enorme portata a livello di limiti dell’intervento del Governo degli Stati Uniti sulla libertà di stampa ma anche a livello più ampio di tutti gli Stati democratici sulle piattaforme di social media. 

Il meccanismo attraverso cui uno Stato può intervenire sulle piattaforme per evitare che vengano pubblicate notizie e informazioni ritenute fake, o nel caso in cui siano già pubblicate che vengano cancellate, si scontra profondamente con la libertà di stampa e il diritto di pensiero ed espressione che costituiscono principi e valori fondamentali in tutti gli Stati democratici. Ritenere che uno Stato possa intervenire a “limitare” la disinformazione, come sembra lasciar presagire il caso commentato, pone dei grossi interrogativi sul concetto di disinformazione, ma soprattutto sulla individuazione di chi sia il soggetto cui spetta di decidere se una informazione sia falsa o meno, e con quali limiti.

Gli attacchi alla libertà di espressione da parte dei governi, uniti a un’ondata di disinformazione in tutto il mondo durante la pandemia di Covid-19, hanno avuto un impatto devastante sulla capacità delle persone di accedere a informazioni accurate e tempestive per aiutarle a far fronte alla crisi sanitaria globale, ha dichiarato Amnesty International nel suo rapporto Silenced and misinformed. Freedom of expression in danger during Covid-19 del 2021 [7]. E su questo non possiamo che convenire. Tra le dichiarazioni erronee, le voci e le teorie cospirative relative al Covid-19 vi sono state la banalizzazione dei rischi del virus, l’equiparazione del Covid-19 all’influenza stagionale, la messa in dubbio dell’efficacia delle misure di mitigazione e controllo, come l’uso delle mascherine, la promozione di trattamenti non provati o dannosi e la critica allo sviluppo e alla distribuzione dei vaccini e delle motivazioni delle misure di salute pubblica. Come scrive Paglieri in materia di “disinformazione” sul Covid-19 è successo di tutto di più “dalle iniziali grida contro la minaccia asiatica si è passati alle misure draconiane in casa nostra, il tutto condito da un crescente e confuso chiacchiericcio collettivo sui social media[8].

Il diritto alla libertà di espressione è pertanto una condizione indispensabile per il pieno sviluppo della persona, indispensabile per qualsiasi società ed essenziale per la promozione e la protezione dei diritti umani, ma è anche una componente essenziale del diritto alla salute, data la sua particolare importanza nel garantire che le persone possano accedere alle informazioni per essere in grado di prendere decisioni sulla propria salute e godere del più alto standard di salute raggiungibile.

Il ruolo del giornalismo e dei media indipendenti nell’era della disinformazione

Ed è per questo che il giornalismo e i media indipendenti svolgono un ruolo essenziale: perché garantiscono (o possono garantire) che le persone possano esercitare il loro diritto di accesso all’informazione e sono un attore chiave nel comunicare al pubblico la situazione di fatto e le misure adottate dal governo. E scegliere cosa non pubblicare e come dare priorità a ciò che viene pubblicato è fondamentale nei social media come negli altri settori dell’informazione e della stampa. Nel decidere quali libri pubblicare o vendere, ad esempio, gli editori e i librai esercitano indiscutibilmente i loro diritti di libertà di parola, così come i curatori di una mostra d’arte e i redattori che decidono quali articoli pubblicare su un giornale [9]. Il Governo non può decidere per loro.

Secondo Amnesty International, opinione che condividiamo pienamente, qualsiasi restrizione al diritto alla libertà di espressione per proteggere la salute pubblica deve soddisfare tutti gli elementi di un rigoroso test in tre parti.

In primo luogo, la restrizione deve essere prevista dalla legge, che deve essere formulata con sufficiente precisione per consentire a un individuo di regolare la propria condotta di conseguenza. In secondo luogo, le restrizioni devono essere imposte solo allo scopo di proteggere specifici interessi pubblici, che si limitano alla protezione della sicurezza nazionale, dell’ordine pubblico, della salute o della morale pubblica, o dei diritti o della reputazione altrui; infine, le restrizioni devono essere dimostrabilmente necessarie e proporzionate, e cioè devono costituire la misura meno restrittiva per raggiungere lo scopo specificato. Le restrizioni al diritto alla libertà di espressione che impongono divieti generalizzati alla diffusione di informazioni, comprese quelle basate su concetti vaghi e ambigui come “notizie false” o “diffusione di disinformazione”, sono incompatibili con il diritto e gli standard internazionali in materia di diritti umani [10].

Note


[1] Giuseppe Riva, Fake news, Il Mulino, 2018.

[2] Fabio Paglieri, La disinformazione felice, Il Mulino, 2020, pag. 11.

[3] Irene Doda, Una teoria del complotto alla Corte Suprema, Wired Newsletter, 23.03.2024. Su questo argomento si veda anche, tra gli altri, Elena Falletti, Stati Uniti: Primo Emendamento, poteri governativi e diffusione di fake news online, https://www.altalex.com/documents/2023/08/28/uniti-primo-emendamento-poteri-governativi-diffusione-fake-news-online.

[4] Il Primo Emendamento, nello specifico, vieta le restrizioni imposte dal governo alla libertà di parola, ma tale divieto non si estende agli enti privati come i social media che sono liberi di prendere qualunque decisione sui contenuti scelgano.

[5] Si veda a questo proposito, Vivek H. Murthy, Surgeon General, Et Al., Petitioners, v. Missouri, Et Al., Respondents – Oral Argument – March 18, 2024.

[6] A tal proposito è molto interessante il seguente passaggio della discussione: “Qualora i funzionari governativi costringano i social media a non pubblicare informazioni si avrebbe una violazione del Primo Emendamento, non solo perché viola i diritti di espressione dei social media stessi, ma perché viola i diritti delle persone le cui opinioni i social media ospitano”.

[7] https://www.amnesty.org/en/documents/pol30/4751/2021/en/.

[8] Fabio Paglieri, La disinformazione cit.

[9] Jennifer Stisa Granick, Vera Eidelma, The Supreme Court Will Set an Important Precedent for Free Speech Online, October 19, 2023, https://www.aclu.org/news/privacy-technology/the-supreme-court-will-set-an-important-precedent-for-free-speech-online.

[10] Nel rapporto si legge anche che il diritto internazionale non consente di vietare in generale l’espressione di un’opinione errata o di un’interpretazione scorretta degli eventi. Le leggi che vietano e criminalizzano le “notizie false” rischiano inoltre di avere un effetto raggelante sulla popolazione e sui media, inducendo all’autocensura per paura di rappresaglie. Come ha osservato il Relatore speciale delle Nazioni Unite sul diritto alla libertà di espressione, tali limitazioni spesso non sembrano essere imposte per il legittimo scopo di promuovere un’informazione accurata sull’emergenza sanitaria pubblica, ma per sopprimere informazioni rilevanti scomode per il governo o per usare la situazione come pretesto per reprimere i politici dell’opposizione, i media critici o i difensori dei diritti umani.

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