l'analisi

Disinformazione, il caos dei nuovi media non regolamentati

La delega della lotta alla disinformazione (social) ad un attore privato non garantisce il pluralismo informativo e, anzi, aumenta il rischio della censura a nocumento di agenti non appartenenti ai media tradizionali. Ecco perché serve accelerare sulla regolamentazione per evitare ulteriori fenomeni distorsivi

Pubblicato il 02 Nov 2020

Matteo Monti

dottore di ricerca in diritto pubblico comparato

fake news

I social network hanno ormai assunto un ruolo rilevante per il dibattito pubblico e lo svolgimento delle campagne elettorali. Tuttavia, oltre che rappresentare uno spazio di libertà e un’espansione del cosiddetto marketplace of ideas, essi hanno determinato l’emergere di nuovi poteri privati che agiscono nel circuito democratico e hanno comportato una serie di fenomeni distorsivi, quali ad esempio l’information disorder e l’esplosione della disinformazione online.

In questo senso, è opportuno ricordare come nel passato prossimo i media tradizionali – ancorché per la maggior parte attori privati – fossero stati regolamentati per il ruolo da essi giocato nel funzionamento della democrazia liberale in Europa: questo è avvenuto, infatti, sia per i giornali che per la radio-televisione. Lo stesso, invece, non è avvenuto e non sta avvenendo per i social network, che agiscono nell’assenza di cornici legislative certe in relazione al ruolo “pubblico” che queste piattaforme hanno assunto.

In questa prospettiva, se non bisogna cadere nella facile retorica di sminuire un nuovo mezzo di comunicazione come portatore di “pericoli per la democrazia” elogiando il funzionamento dei “vecchi” mass media, non bisogna nemmeno rimanere ciechi alle problematiche che i nuovi fenomeni possono “importare” in circuiti democratici che si sono strutturati intorno a determinati media.

Così, per richiamare un fenomeno ormai pop come quello della disinformazione, non si può non rilevare come la leggenda del panico scatenato dalla trasmissione radiofonica della guerra dei mondi di Welles fu in realtà ingigantita dai giornali per “screditare” l‘allora nuovo mezzo di comunicazione: “ci fu un motivo specifico per cui i giornali si accanirono su Welles e il suo programma: durante gli anni della Grande Depressione i giornali cartacei avevano perso molta pubblicità a favore della radio. Diversi editori e direttori di giornali non vedevano l’ora di poter attaccare le emittenti radiofoniche, sostenendo magari che erano pericolose e diffondevano il panico, e colsero il programma di Welles come un’ottima opportunità”.

La situazione non appare però la stessa in relazione ai social network e alle Internet platform: numerosi studiosi hanno, infatti, rilevato il profondo impatto di questi nuovi media sulla democrazia, dalla disinformazione sistemica alla distorsione delle regole delle campagne elettorali. Insomma, non si è di fronte a un fenomeno indebitamente tacciato come foriero di rischi e pericoli per il funzionamento (tradizionale) delle democrazie liberali europee.

Le azioni dei social network nel campo del discorso pubblico

In questo contesto sistemico, dopo le azioni intraprese dai social nel contrasto alla diffusione di informazioni false sul COVID-19, si è assistito recentemente a nuovi interventi, soprattutto di Facebook, nell’ambito della content regulation.

Facebook, infatti, dopo la istituzione di una sorte di corte suprema, scimmiottante un organo di natura “costituzionale” per la definizione dello “speech” legittimo sulla piattaforma, ha intrapreso una serie di azioni volte a regolare contenutisticamente il marketplace of bubble ideas a cui ha dato origine.

Ecco che, con un occhio alla campagna elettorale presidenziale americana, soprattutto, il gigante di Menlo Park ha da un lato “bannato” i gruppi ritenuti violenti dalla propria piattaforma e dall’altro ha posto in essere una serie di azioni atte a “garantire” l’integrità delle elezioni.

Dal primo punto di vista il social network di Mark Zuckerberg ha infatti intrapreso una serie di azioni – quali la rimozione degli accounts, l’impossibilità di promozione mediante ads, l’applicazione di uno sfavore algoritmico e il divieto di raccolta di denaro e fundraising – contro numerosi account, gruppi e pagine legate sia alle teorie cospirazioniste di QAnon che ai gruppi individuati come attivi – secondo il social – nella diffusione e nell’incitamento alla violenza, come i cosiddetti Antifa negli Usa.

Queste azioni hanno chiaramente un risvolto politico volto alla rimozione dal social di quei movimenti ritenuti “estremisti”, la cui censura viene spesso legittimata in base al dogma di popperiana memoria del “paradosso della tolleranza”. Più volte ci si è interrogati sulla legittimità e l’opportunità democratica di queste azioni di censura: non ci si può infatti esimere dal chiedersi se un quasi o simil foro pubblico come Facebook, sul quale si svolge ormai il discorso pubblico, possa arbitrariamente decidere l’esclusione di determinate ideologie o idee politiche.

Facebook e le elezioni Usa

Dal secondo punto di vista, inoltre Facebook ha anche intrapreso una serie di azioni volte alla protezione delle elezioni presidenziali statunitensi, sia censurando l’attività di creazione di fake news posta in essere da agenti esteri, sia iniziando a sviluppare proprie regole da porre in campo per il periodo elettorale.

In questo senso per esempio, a quanto si apprende da fonti giornalistiche, il controllo di Facebook sugli agenti della disinformazione si è fatto più solerte, tanto che il tentativo di creare dei finti siti di informazione volti ad attaccare il candidato alla presidenza americana Joe Biden “da sinistra” è stato sventato dal social network.

Rispetto alle regole elettorali, nell’epoca della targetizzazione e profilazione dei cittadini-internauti e della pubblicità politica mirata, Facebook ha, invece, previsto una moratoria sulla possibilità di finanziare nuovi political advertising, nella settimana antecedente le elezioni statunitensi.

Queste azioni, se lette in un contesto unitario, dimostrano come i social network stiano cercando di arginare molte delle distorsioni che la campagna presidenziale statunitense del 2016 e il caso Cambridge Analytica avevano palesato.

Se le soluzioni risulteranno efficaci solo il futuro potrà dirlo.

Il consolidamento della democrazia della Silicon Valley

A prescindere dalla legittimità e opportunità di tali azioni, per un attore privato che gestisce uno spazio che ormai assomiglia a un vero e proprio foro pubblico e alla difficoltà di inquadrare i social network nelle tradizionali categorie giuridiche, non si può non rilevare come queste iniziative intraprese da Facebook (e Instagram) si inseriscano in un trend già avviato: l’emersione di poteri privati che occupano spazi tradizionalmente regolati o controllati dal potere pubblico.

Da questo punto di vista non si possono non rilevare, infatti, i tentativi di creazione di una democrazia parallela con proprie regole e limiti: la democrazia di Facebook.

Una democrazia transnazionale – che stona con i principi dei singoli ordinamenti costituzionali e con le regole “elettorali” delle singole nazioni – e orientata da palesi fini economicistici.

Questo trend, infatti, sembra confermato dall’assunzione di un paradigma di democrazia protetta sui social network con l’esclusione di gruppi e contenuti odiosi o inneggianti alla violenza, come da ultimo dimostrato dalla lotta ai gruppi Antifa e a quelli cospirazionisti QAnon. Questa esclusione evidenzia, tuttavia, una scelta di campo nemmeno coincidente con le tipiche teorie delle democrazie militanti: bandire dal marketplace of ideas movimenti di ispirazione anti-razzista o anti-capitalista o movimenti cospirazionisti, non (platealmente) razzisti, non è comune nemmeno alle tradizionali democrazie protette, come Francia o Germania. Colpiti dalla censura della democrazia militante sono infatti quei discorsi e organizzazioni di stampo razzista o terrorista che propongono Weltanschauung non compatibili con i valori delle Costituzioni post Seconda guerra mondiale.

Ma in egual modo alla stessa tendenza possono essere ascritte in prima battuta le regole elettorali di Facebook sul ban dei political advertising o in secondo battuta anche la lotta serrata alla disinformazione organizzata: dal primo punto di vista la “norma” di Facebook sulla propaganda elettorale, che sembra riprendere alcuni dei principi sulla par condicio e sul silenzio elettorale pre-elezioni, non sana tutte le problematiche irrisolte della propaganda online; dal secondo punto di vista la delega della lotta alla disinformazione ad un attore privato non garantisce il pluralismo informativo e, anzi, aumenta il rischio della censura a nocumento di agenti non appartenenti ai media tradizionali.

Conclusioni

Queste considerazioni valgono ovviamente all’interno di una prospettiva che inquadri i social network come non meri soggetti privati, o meglio che li consideri come soggetti privati che svolgano un servizio pubblico come può essere considerato quello relativo alla gestione di forum in cui si svolge il discorso pubblico o di media che compartecipano comunque alle dinamiche della propaganda elettorale.

Tuttavia, non si può non rilevare che sia in Europa che negli Stati Uniti si assiste ancora a una totale non regolamentazione di queste piattaforme digitali, non regolamentazione che soprattutto in Europa stona con le regole applicabili ai media tradizionali, come la carta stampata e la radio-televisione e con le pervasive regole in materia di propaganda ed attività elettorali.

Da questa prospettiva non può non rilevarsi come la mancata regolamentazione di questi media-fori comporti notevoli problematiche per il discorso pubblico, ma soprattutto determini l’emergere di soggetti privati privi di qualsiasi responsabilità democratica, che paradossalmente stanno finendo per rivestire un ruolo ormai irrinunciabile per quelli che sono da considerarsi i momenti più significativi delle democrazie stesse: quelli di sviluppo del discorso pubblico e del confronto elettorale.

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