I meccanismi d’indicizzazione utilizzati da Facebook nel sistema di organizzazione dei contenuti visualizzabili all’interno della propria piattaforma favorirebbero, mediante una serie di “incentivi tecnologici” da viralizzazione massiva delle informazioni, la promozione di articoli giornalistici divisivi, specie provenienti da siti più conservatori e di estrema destra, in grado di fomentare polemiche, indignazione e violenza verbale, secondo quanto rilevato da “The Washington Post”.
Ma pensare che la causa della disinformazione sia determinata esclusivamente dalle caratteristiche dell’ambiente digitale come sede naturale dell’accentuata polarizzazione comunicativa, etichettando i social network come il “male assoluto” è illusorio se non si contestualizza lo scenario complessivo del settore editoriale e giornalistico preposto al compito istituzionale di fornire informazioni di qualità nell’esercizio di una funzione/missione indispensabile per stimolare il sano dibattito pubblico e incrementare gli standard democratici esistenti.
La disinformazione è un business: è ora di vegliare sulle piattaforme social
Le “colpe” di Facebook
I monitoraggi interni effettuati, già nel 2018, dal Dipartimento “Civic Integrity” di Facebook descrivono uno scenario inequivocabile, confermato da una corposa quantità di documenti disponibili, sui risultati delle strategie maggiormente attrattive per catturare il pubblico e incrementare il livello di “engagement”: più aumenta l’intensità dell’esasperazione emotiva dei contenuti maggiore è l’attenzione degli utenti verso il relativo flusso comunicativo polarizzato nell’ambito di un circuito a “senso unico” di estremizzazione informativa privilegiata dagli algoritmi nella selezione degli articoli condivisi in base al numero di commenti negativi.
Sembra quindi risultare “vincente”, ad esempio, la strategia comunicativa di criticare e deridere gli avversari politici incentivando, con un linguaggio altamente emotivo, ostile e “partigiano” carico di rabbia e di indignazione morale, un’intenzionale divisione ideologica premiata da un incremento esponenziale delle condivisioni rispetto ai post “neutri” o che diffondono valori positivi, come rileva uno studio effettuato dall’Università di Cambridge.
In questi termini emerge l’impatto dei cosiddetti “incentivi perversi”: la consapevolezza di alimentare la polarizzazione informativa per ottenere la spendita di una maggiore viralizzazione in grado di favorire la diffusione dei propri contenuti, con la complicità tacita – se non del tutto palesemente intenzionale – dei mass media impegnati nella produzione di contenuti divisivi per sfruttare il modello di business esistente.
Le responsabilità dell’industria editoriale
Se è vero che da Facebook potrebbe emergere il peggio dei contenuti esistenti secondo un vero e proprio circolo vizioso piegato alle logiche pubblicitarie del profitto, limitarsi a liquidare il problema come una responsabilità esclusiva imputabile all’azienda californiana oltre ad essere riduttivo e superficiale è soprattutto fuorviante, perché non prende in considerazione la circostanza che l’industria editoriale, avendo investito molto negli scorsi anni sul traffico proveniente dai social network, ben consapevole delle dinamiche di funzionamento del meccanismo di pubblicazione utilizzato da Facebook, piuttosto che disincentivare tale pratica resistendo alla tentazione, ha alimentato la crescente produzione di “contenuti oscuri e divisivi”, sfruttando il sistema per esigenze di posizionamento ottimizzato degli articoli a discapito della qualità, pertinenza e continenza dell’informazione.
In altri termini, “Facebook non può essere ritenuto l’unico responsabile della disinformazione se non cambiano le dinamiche dei media sottostanti”, come ha giustamente sottolineato Mark Zuckerberg a propria discolpa, sostenendo che, dopo gli errori del passato, come il caso “Cambridge Analytica”, per cercare di invertire la rotta, nonostante l’azienda si fosse impegnata a modificare il funzionamento dei propri algoritmi per ridurre l’impatto di viralizzazione dei contenuti negativi e dare priorità “alle notizie affidabili, informative e locali”, il cambiamento di tale policy ha determinato un brusco crollo del traffico in molte testate giornalistiche con un calo di ricavi talmente rilevante da provocare anche, in alcuni casi, il licenziamento massivo di personale alle dipendenze di redazioni giornalistiche e persino la chiusura definitiva di alcuni piccoli siti di informazione locale.
Il risultato paradossale è stato che, rispetto all’iniziale successo di chi è riuscito a rendere virali i propri contenuti – sebbene forti e divisivi – sfruttando i meccanismi di indicizzazione dei social network, i successivi cambiamenti algoritmici, nel favorire le interazioni di qualità, hanno provocato, come effetto opposto, una generale contrazione del mercato editoriale con implicazioni negative alla base del malcontento diffuso da parte degli operatori che si sono ritenuti danneggiati dal nuovo approccio selettivo di Facebook.
La marcia indietro di Facebook di fronte alle rimostranze degli editori
Di fronte a tali inaspettate reazioni, secondo il citato report giornalistico, Facebook, non solo per paura di subire accuse di pregiudizio politico avrebbe ottimizzato il suo algoritmo di feed di notizie per proteggere gli editori conservatori, ma inoltre al fine di compensare la riduzione di visibilità dei contenuti riferibili agli editori conservatori e di destra, avrebbe anche apportato (al netto delle rituali smentite), modifiche algoritmiche per diminuire anche la viralità dei siti di notizie liberali.
In un documento del 2019 realizzato dal team di integrità civica di Facebook si evidenzia la tendenza del giornalismo a disincentivare la creazione e la produzione di contenuti originali e approfonditi anche in mancanza di investimenti, privilegiando intenzionalmente la scelta profittevole di confezionare titoli “a effetto” da diffondere sui social per ottenere un maggiore numero di click da cui dipendono i ricavi legati alle campagne pubblicitarie.
Non vi è dubbio che Facebook non abbia incentivi economici ad arginare concretamente la diffusione di fake news, in assenza di un diretto interesse sotteso alla circolazione di informazioni vere e affidabili, rispetto alla diretta e specifica finalità lucrativa di stimolare, mediante sistemi di profilazione del comportamento degli utenti, la condivisione di contenuti per generare traffico in grado di incrementare i ricavi pubblicitari ottenuti.
Conclusioni
Alla luce di tale legittima inclinazione connessa alla natura commerciale di una piattaforma che resta – ad oggi – un’attività imprenditoriale, non bisogna di certo aspettarsi da Facebook interventi efficaci e risolutivi che potrebbero – anche indirettamente – compromettere il proprio modello di business.
Eppure, ancora una volta, in attesa di attendere una risposta da parte dell’industria dei media nella capacità di affrontare e superare i problemi esistenti di fronte ad un’attuale sfera pubblica frammentata da interessi settoriali di parte o intenzionalmente faziosi, in quanto volutamente asserviti alla finalità di incentivare l’esasperazione politica del dibattito, al netto di una ristretta cerchia inconsistente di operatori convinti sostenitori della valenza pubblica della funzione editoriale, chi ha compiuto un’azione concreta è stato Mark Zuckerberg che, presentando il white paper “Online Content Regulation” sulla regolamentazione dei contenuti online, ha invocato per la prima volta l’esigenza di una reale cooperazione tra operatori telematici e legislatori, nell’ottica di superare anche le implicazioni negative degli “incentivi perversi”.