Capita ancora troppo spesso che Facebook si astenga dall’intraprendere azioni concrete contro le fake news veicolate a scopo di manipolazione politica per ingannare l’opinione pubblica e “inquinare” le dinamiche elettorali in vista di votazioni anche decisive per la tenuta democratica degli Stati.
In particolare sta emergendo in questa fase che l’interferenza politica di Facebook è “a geometria variabile”.
Secondo una recente indagine del “The Guardian”, infatti, Facebook avrebbe ripetutamente consentito, in almeno 25 Paesi nel mondo, a diversi leader politici di utilizzare la sua piattaforma per ingannare il pubblico o molestare gli oppositori, nonostante sia stato a conoscenza di strategie politiche manipolatorie realizzate online.
Paesi non occidentali a rischio disinformazione via social
Tale scenario, peraltro, sembra concentrarsi prevalentemente nei Paesi “poveri”, piccoli” e “non occidentali”, rispetto invece all’impegno assunto dai vertici di Palo Alto di combattere, almeno come dichiarata priorità comunicativa in grado di attirare l’attenzione dei principali media, il flusso di informazioni false e fuorvianti veicolate nel dibattito politico esistente negli USA o in altri Paesi “ricchi”.
In altre parole, sulla base delle implicazioni “politiche” della questione determinate dalla rilevanza dello Stato coinvolto a livello globale, valutabile in termini di “costo” ragionevole da sostenere per rafforzare le “pubbliche relazioni” di Facebook, il social network tenderebbe ad agire rapidamente per rimuovere contenuti di manipolazione politica che interessano, ad esempio, gli Stati Uniti, Taiwan, Corea del Sud e Polonia, restando invece inerte e inoperoso sui medesimi casi riguardanti Afghanistan, Iraq, Mongolia, Messico e gran parte dell’America Latina.
Un licenziamento sospetto
In tale prospettiva, da mesi sta facendo discutere la notizia sul licenziamento – motivato formalmente per scarso rendimento – di Sophie Zhang come Data scientist di Facebook, rea – a detta della ricostruzione resa nota online – di aver diffuso un promemoria ove si addebita al social network la responsabilità di ignorare o agire lentamente in presenza di account falsi creati sulla sua piattaforma da regimi governativi e partiti di maggioranza con l’intento di alterare i processi politici ed elettorali in tutto il mondo, anche al fine di ostacolare i candidati avversari ostacolandone opinioni e critiche di dissenso.
Al netto delle ufficiali smentite comunicate dai vertici di Facebook, che evidenziano il costante impegno, anche mediante la creazione di appositi team di lavoro specializzati, per combattere le fake news di manipolazione politica rilevate online come indiscussa priorità aziendale, pur con la inevitabile difficoltà di vigilare su tutti i contenuti immessi dagli utenti a causa di “risorse limitate” rispetto alla vastità dell’ambiente digitale, i casi segnalati dalla dipendente licenziata sembrano essere specifici e circostanziati.
In particolare, come riportato dalla notizia citata, Zhang mette nero su bianco una serie di accuse mosse a Facebook come vero e proprio “fallimento” del social network per aver rinunciato, senza “preoccuparsi abbastanza” del problema, ad intervenire sugli abusi riscontrati all’interno della sua piattaforma, malgrado tali condotte siano in grado di “influenzare il destino politico” degli Stati.
Secondo il promemoria di Zhang – di cui si fa riferimento nell’articolo di BuzzFeed – Facebook ha “impiegato nove mesi per agire su una campagna coordinata che ha utilizzato migliaia di risorse non autentiche a supporto del Presidente Hernandez dell’Honduras su vasta scala con l’intento di fuorviare il popolo honduregno”.
I casi
Non si tratta di un caso isolato, poiché, ad esempio, in “Azerbaigian, il partito politico al potere ha utilizzato migliaia di risorse non autentiche per molestare l’opposizione in massa e attaccare gli oppositori del Presidente in carica, mediante bot e account falsi”, così come, in Albania, Argentina, Bolivia, Brasile, Corea del Sud, Ecuador, Filippine, Indonesia, Iraq, Italia, Messico, Mongolia, Polonia, Repubblica Dominicana, San Salvador, Tunisia, Turchia, e Ucraina, ove sono state rilevate “attività non autentiche” a sostegno di alcune fazioni politiche e a discapito di altre, mediante l’uso di bot e account falsi, mentre in India è stata scoperta “una rete politicamente sofisticata di oltre un migliaio di attori che lavorano per influenzare le elezioni locali”.
In alcuni dei casi scoperti, ad esempio in Corea del Sud, Taiwan, Ucraina, Italia, USA e Polonia, Facebook “ha agito rapidamente”, procedendo in modo spedito alla rimozione degli account non autentici, mentre in altri casi, “ha ritardato” gli interventi, come avvenuto, ad esempio, in Tunisia, Mongolia o nelle Filippine, pur in presenza di evidenze oggettive sull’esistenza di account falsi di manipolazione politica, dimostrando in questi casi un atteggiamento “troppo riluttante a punire potenti politici” con misure considerate “troppo indulgenti”.
Siamo di fronte a un problema preoccupante dalle dimensioni globali, considerato che i risultati di tale monitoraggio evidenziano l’accertamento di circa 672.000 account falsi con un tasso di coinvolgimento pari a 10,5 milioni di interazioni in grado senz’altro di manipolare il dibattito politico ed elettorale.
Di certo, con quasi 3 miliardi di utenti attivi, Facebook avrà un ruolo sempre più decisivo nell’agone politico globale, come piattaforma destinata inevitabilmente a “plasmare” la percezione dell’opinione pubblica nei confronti di attivisti, leader e attori politici con dirette ripercussioni sulla stabilità democratica e sociali di molti Stati.