La proporzione delle donne nello studio e nelle professioni dell’informatica è bassissima, in Italia in maniera particolare in confronto ad altre nazioni occidentali, e per di più in decrescita negli ultimi decenni. Non è questa una grande perdita di opportunità sia per la società sia per le donne stesse? che cosa fare? Un convegno tenuto all’Università di Tor Vergata lo scorso 19 ottobre, Digital Women, ha cercato di tracciare il bilancio della situazione e di rilanciare la sfida, sia a livello accademico sia politico. Al di là degli interessanti contenuti discussi, questo convegno può essere l’occasione per fare qualche considerazione più ampia.
In questo campo è abbastanza facile essere d’accordo sulle idee generali: chi si può ragionevolmente opporre all’impegno che siano date a tutte e a tutti pari opportunità? chi può sensatamente dubitare del fatto che questo sia in qualche modo un arricchimento per la scienza e la cultura intera? Appena però si entra nel dettaglio della questione, è molto facile scontrarsi con prospettive diverse, che riflettono in qualche misura la storia complessa e a volte travagliata del femminismo e dei gender studies.
Una domanda ovvia è per esempio se in questo terreno le donne abbiano davvero mediamente le medesime capacità degli uomini, oppure se vi siano reali differenze che giustifichino una situazione di fatto in cui diversi studi e professioni siano più ricercati dall’uno o dall’altro sesso. Se l’ipotesi giusta è più o meno la prima, perdere il 50% delle risorse umane ha effettivamente un risultato disastroso: mediamente, se un’Università o un’azienda seleziona i dieci migliori (uomini), in realtà solo cinque ne sono degni, gli altri occupano senza sufficiente merito il posto che statisticamente dovrebbe essere occupato da donne.
Ma se l’ipotesi giusta è la seconda, sarebbe disastroso proprio incoraggiare «parità di genere» e forzare quote rosa: cinque donne occuperebbero abusivamente il posto di uomini migliori di loro. Pensare che la questione venga di per sé risolta da libere condizioni di ingresso per tutte e tutti, in maniera che spontaneamente si formi un equilibrio basato sui propri talenti e predisposizioni, purtroppo è ingenuo: anche senza che vi siano esplicite dissuasioni, per scoraggiare anche la più talentuosa ragazza basta che un ambiente venga percepito come solo maschile, e in gran parte lo sia, magari con l’annesso deprecabile stile da caserma che i maschietti son bravissimi a creare quando sono tra loro. E viceversa, ovviamente: c’è da sospettare che lo schiacciante predominio femminile nei corsi di laurea di scienze della formazione non sia solo l’esito di predisposizioni individuali, ma anche di una subliminale dissuasione nei confronti dei ragazzi.
Anche una risoluzione empirica del problema esige dunque impegno. Giustissimo. Ma anche ovvio: c’è invece qualcosa di diverso che si possa e debba dire, e che magari consenta, se non di uscire da questa alternativa, almeno di guardarla da un’altra prospettiva?
La questione della presenza delle donne nell’informatica ha avuto un breve momento di notorietà quest’estate in seguito alla nota vicenda di un dipendente di Google che in un memorandum lamentava la politica della sua azienda e sosteneva che le donne hanno sì ottime qualità soprattutto umane, ma non quelle che servono per l’informatica: forzare la presenza femminile con una «discriminazione positiva», come s’usa dire, sarebbe dunque solo un omaggio al politically correct, che finalmente bisognerebbe avere il coraggio di denunciare. Come è finita la storia è noto: il dipendente è stato licenziato. Il mare di polemica suscitato dalla vicenda è stato sinceramente poco interessante, con tuttavia almeno un’eccezione notevole: il commento di un importante ex-dipendente di Google, Yonatan Zunger, che nel dare un giudizio completamente negativo del memorandum avanzava una considerazione anomala: l’autore di esso non solo mostrava di non sapere che cosa significhi promuovere un ambiente sereno di lavoro, ma anche di non aver capito nulla di che cosa sia la sua professione: perché tutte le qualità che descriveva come inutili per l’informatica sono in realtà quelle determinanti. Scrivere qualche pagina di codice corretto e funzionante, argomentava, lo sanno fare tutti: basta studiare un manuale. Ciò che è decisivo è invece il modo in cui questo codice (per esempio) viene incontro alle persone:
L’ingegneria non è l’arte di costruire apparecchiature: è l’arte di risolvere problemi. Le apparecchiature sono un mezzo, non un fine. Risolvere problemi significa anzitutto capirli — e giacché tutto lo scopo delle cose che facciamo è risolvere problemi nel mondo esterno, problemi che riguardano persone, ciò significa che comprendere le persone, e il modo in cui esse interagiranno con il tuo sistema, è fondamentale in ogni passo della costruzione di un sistema.
Questo è esattamente quanto lui stesso, così raccontava, aveva dovuto imparare con fatica nella sua carriera. Il giudizio negativo nei confronti del memorandum si estendeva anche al modo in cui l’autore distingueva rozzamente qualità maschili e femminili. Ma se ciononostante in questa distinzione ci fosse qualcosa di vero? Chiunque conosce anche superficialmente la storia dei gender studies sa bene che la tesi è tutt’altro che peregrina. Il celebre studio di Carol Gilligan del 1982 Con voce di donna. Etica e formazione della personalità sosteneva per esempio, a partire da un’analisi dell’evoluzione del senso morale nei bambini e nelle bambine, che i primi sono più propensi a ragionare a partire dai princìpi, le seconde più portate a riflettere sulla base di un rapporto personale. Ciò mostrerebbe una chiara differenza nelle qualità personali (che peraltro, sostiene Carol Gilligan, farebbero bene ad integrarsi nella società): da una parte una maggiore attenzione sulla generalità, dall’altra la capacità di vedere le circostanze concrete in cui sono in gioco le persone. Da qui si potrebbe capire, per esempio, perché normalmente gli uomini sono migliori medici, le donne migliori infermiere. Ma tutto il «femminismo della differenza», seppure in modalità differenti, ha portato avanti l’idea secondo cui il vero obiettivo non è un’imitazione dei modelli maschili e un’omologazione ad essi: le donne sono, appunto, differenti. Le obiezioni nei confronti di queste analisi sono facili: non si perpetuano forse così gli stereotipi che incastrano le donne in ruoli sociali «materni» e (guarda caso!) subordinati e peggio pagati di quelli maschili? Obiezione lecita, che però in questo caso non funzionerebbe, perché il «femminile» (posto che sia davvero tale) sarebbe l’essenziale. Continua il nostro commentatore:
In sostanza, l’ingegneria si occupa di cooperazione, di collaborazione e di empatia, sia nei confronti dei tuoi colleghi sia nei confronti dei tuoi clienti. Se qualcuno ti ha detto che l’ingegneria è un campo in cui te la puoi cavare senza occuparti di persone o sentimenti, mi dispiace dirti che ti hanno mentito. Il lavoro solitario è qualcosa che accade solo ai livelli più bassi, e anche allora è possibile solo perché qualcuno al di sopra di te — in genere il tuo capo — ha speso molto tempo per mettere in opera nel tuo gruppo di lavoro le strutture sociali che permettono a te di pensare solo a programmare.
Queste considerazioni sono non solo giuste, ma confermate da una miriade di semplici osservazioni. Esiste certamente nell’informatica un livello astratto, quello più propriamente logico-matematico, che ovviamente è indispensabile (e, aggiungiamo, sarebbe bene che nell’insegnamento non fosse diluito e mascherato dietro giochi e giochetti: discorso che meriterebbe più spazio). Ma difficilmente, almeno in questi anni, esso costituisce l’aspetto determinante: è raro che un progresso avvenga grazie ad un algoritmo innovativo, per esempio. L’aspetto decisivo, sulla base del quale qualsiasi nuovo apparecchio e qualsiasi nuova applicazione vengono giudicati, è l’esperienza che con essa può avere l’utente: come egli possa avere qualcosa di più utile, arricchente, o anche solo divertente.
Basta leggere qualsiasi recensione per rendersene conto. Non citiamo poi neppure i problemi enormi (e dunque le possibilità parimenti enormi!) che nascono quando tutto ciò, come è sempre più il caso, s’incrocia con gli aspetti più essenziali della vita umana: quelli in cui le persone s’incontrano, si conoscono, si scambiano notizie, hanno la possibilità di intervenire nella scena pubblica, nell’informazione, nella cultura, nell’avanzamento della scienza. Questi sono esattamente i casi in cui si tratta anzitutto di comprendere le persone e i loro sentimenti. E se questo fosse il terreno in cui mediamente le donne sono più dotate e sensibili degli uomini? Stavo pigramente riflettendo a tali cose quando mi è venuto in mente di dare uno sguardo all’organigramma della società in cui oggi sono concentrati le maggiori competenze al mondo nella user experience: la Nielsen Norman Group. I tre ormai anziani fondatori (Jakob Nielsen, Don Norman, Bruce Tognazzini) sono uomini (già lo sapevo), ma gli altri membri più giovani? Sorpresa: su 15, ben 13 sono donne. La proporzione è di gran lunga superiore a quella che potrebbe derivare da una semplice variabilità statistica.
La storia dell’informatica, nella quale anche la presenza femminile è significativa e studiata, da un certo punto di vista sembra confermare questa tendenza. Prendiamo il caso di Grace Hopper: una delle fondatrici dell’informatica, è stata anche l’ideatrice del linguaggio di programmazione COBOL, sicuramente uno dei più longevi, ancora oggi usato. Molti diranno: purtroppo! Un linguaggio di programmazione verbosissimo e ridondante, ancora in uso solo perché nei decenni passati si è affermato come standard nel campo gestionale: «l’uso del COBOL paralizza la mente, il suo insegnamento dovrebbe dunque essere considerato un reato penale» (Edsger Dijkstra). Giudizio forse vero, salvo notare che il COBOL venne concepito con l’intenzione di rendere ogni capoufficio capace di programmare, in un linguaggio il più vicino possibile a quello naturale: un progetto, questo, che mette in primo piano quell’avvicinamento tra utente e macchina che è il cuore delle riflessioni sulla user experience e che forse fu intrapreso troppo presto. Nell’aprile del 1967 il Cosmopolitan dedicò un articolo entusiasta alle «computer girls», le ventimila programmatrici che erano all’opera nelle nascenti società di informatica dell’epoca (IBM in testa). La stessa Grace Hopper spiegava in quell’occasione: «È esattamente come preparare una cena: devi pianificare prima e pensare alla sequenza di ogni cosa in modo che sia pronta quando ne hai bisogno. Programmare richiede pazienza e la capacità di considerare ogni dettaglio. Per le donne programmare un computer è una cosa per così dire naturale»: ma questo esempio sarà uno degli stessi usato quarant’anni più tardi quando Jeannette Wing inizierà a parlare di «pensiero computazionale», ancora una volta un tentativo, discutibile ma interessante, di evidenziare le molte interconnessioni tra ogni attività umana e la programmazione.
È possibile che queste e simili osservazioni dimostrino che nell’informatica contemporanea esiste per l’intelligenza femminile un posto non soltanto specifico, ma più importante ancora che quello degli uomini. Forse in questo modo si spiegherebbe anche il successo tutto sommato limitato di iniziative che tendono a colorare di rosa il mondo dell’informatica (pensiamo a She++, Girls Who Code, Women Who Code, o in Italia RosaDigitale), un successo che in fondo pescherebbe prevalentemente in uno spirito di corpo e magari in un ammiccamento non dissimile da quello con cui il bel portatile miniaturizzato GPD Pocket è stato pubblicizzato come «more suitable for women’s delicate fingers». Tutto lecito e giusto, ma forse poco se la posta in gioco è la natura dell’informatica.
Ma anche se non ci si vuole arrischiare in un campo così scivoloso come la definizione di eventuali caratteristiche della mente femminile, tutta la vicenda sicuramente insegna una cosa: che guardare più attentamente a che cos’è l’informatica e a quali sono le multiformi qualità che essa mette in opera è un vantaggio per tutti: un vantaggio per l’informatica, che diventa più ricca e interessante; un vantaggio per gli ambienti di lavoro, che diventano più capaci di accogliere tutte le persone capaci e brillanti, in uno sforzo di coordinazione di competenze e fantasia che forse non ha eguali nella storia dell’umanità; un vantaggio per gli utenti, che possono così avere a disposizione uno strumento più umano.