La pandemia, tra i tanti suoi effetti negativi, ha contribuito anche a rendere più difficile la vita alle donne, che pagano le conseguenze più pesanti della crisi economica, trovandosi nella condizione di essere licenziate o di dover sacrificare il lavoro per esigenze familiari. Solo nello scorso mese di dicembre in Italia è stata stimata una perdita di circa 100mila posti di lavoro; di questi, 99mila erano occupati da donne.
A questo si aggiunge l’emergenza relativa alle violenze e ai femminicidi, il cui numero di anno in anno non accenna a diminuire. Tali crimini sono perpetrati nei confronti delle donne spesso tra le mura di casa a opera di compagni/mariti. La pandemia e il lockdown hanno messo ancora più a rischio le tante donne costrette a condividere la casa insieme ai loro aguzzini.
Insomma, viviamo ancora in una società in cui la donna è svantaggiata e sacrificabile, e la parola “parità” è utopia.
Ma in rete com’è la situazione per il “gentil sesso”? Riesce a trovarvi uno spazio più equo e sereno?
Nell’onlife, dimensione in cui è venuta a cadere la barriera fra offline e online, fra virtuale e reale, e la nostra è una vita ibrida che passa continuamente da una situazione all’altra, possiamo dire che d entrambi i sessi vivano le stesse esperienze e incontrino gli stessi ostacoli?
Purtroppo, anche stare in rete, essere presenti sui social, rappresenta per le donne un percorso maggiormente irto di ostacoli a causa di fenomeni dalle molte sfaccettature, che denotano un atteggiamento mirato a zittirle, emarginarle, sminuirle.
Fenomeni di cui possediamo dati oggettivi raccolti da associazioni o osservatori che dimostrano quanto siano diretti soprattutto contro il genere femminile.
Ma vediamo quali sono le situazioni più comuni e odiose.
L’hate speech
Il primo e più frequente fenomeno che vede tra i bersagli preferiti le donne è l’hate speech. Con tale vocabolo ci si riferisce a un particolare tipo di comunicazione che attraverso parole, termini o elementi non verbali mira a esprimere e diffondere odio ed intolleranza, ad incitare al pregiudizio e alla paura verso un preciso individuo o un gruppo accomunato da etnia, orientamento sessuale o religioso, disabilità, appartenenza culturale o sociale, ecc.
L’odio è una naturale inclinazione dell’essere umano, un sentimento che comporta rifiuto, intolleranza e aggressività nei confronti di qualcosa o qualcuno che viene ritenuto diverso, sbagliato o pericoloso.
Dietro all’odio in molti casi si nasconde la non conoscenza e la percezione di essere esposti ad un rischio. L’intento di salvarsi incita in qualche modo le persone a coalizzarsi contro ciò che viene ritenuto un pericolo e a diffondere l’allarme, per mettere in guardia anche gli altri.
La paura, quindi, è un importante motore dell’odio, ed è un’emozione che può esprimersi in modo irrazionale, cioè senza reali pericoli in vista, portando ad azioni e comportamenti inaspettati. Per questo non deve essere sottovalutata.
Destinatari preferiti del linguaggio d’odio sono soprattutto determinate categorie, quali gli immigrati o gli omosessuali per esempio. Ma negli ultimi anni è la donna a subire in misura maggiore attacchi online. L’ultimo “Barometro dell’odio”, pubblicazione che sintetizza il monitoraggio dei social media effettuato da Amnesty International, stima che un commento su tre avente le caratteristiche di hate speech sia diretto nei confronti delle donne.
Spesso l’odio viene riversato verso chi si espone, esprime pensieri divergenti o ricopre un determinato ruolo. In una società di stampo ancora molto patriarcale, si fatica a riconoscere alla donna meriti e competenza e ad accettare che occupi ruoli apicali.
L’hate speech in questo caso colpisce determinate categorie di professioniste presenti in rete (politiche, giornaliste, imprenditrici) ed è finalizzato a privarle dell’autorevolezza che godono, mettendole in discussione e rivolgendo attacchi di natura sessista e volgari. A parità di pensiero espresso da un uomo e da una donna, è più probabile che sia la donna ad essere attaccata e smentita.
L’intento dell’hater non è tanto mettere in discussione i contenuti di un pensiero, bensì neutralizzare la persona che l’ha espresso, attraverso insulti, argomentazioni ad hominem, termini o commenti che mirano a porre in condizione di inferiorità la donna. Gli insulti di stampo sessista, volgare, con allusioni alla sfera sessuale sono la forma più frequente e becera di tale comportamento.
Il bodyshaming
Una tipologia di hate speech molto comune nei confronti delle donne è poi il bodyshaming, ossia la pratica di giudicare o deridere qualche aspetto legato al corpo di una persona. Gli attacchi si concentrano su qualche presunto difetto, mirando a far provare vergogna alla vittima e farla sentire non adeguata.
Dietro al bodyshaming però non vi è solo l’intento di ferire o far vergognare. Quando è rivolto alle donne la volontà è anche quella di togliere dignità alla persona, annullandone le caratteristiche umane, quali emozioni e pensiero, e riconducendola unicamente ad un corpo, visto come un oggetto. Esiste ancora una larga fetta di società maschilista in cui prevale l’idea della donna come oggetto sessuale, a cui è richiesto null’altro che essere bella e piacevole. Questo processo di oggettivazione sessuale rischia spesso di essere interiorizzato dalle stesse donne, che pertanto arrivano a misurare il proprio successo e valore in base alla loro piacevolezza e ai feedback ricevuti. Ecco, quindi, che essere colpite nel proprio aspetto fisico rappresenta per alcune una sconfitta difficilmente accettabile e capace di minare tutte le certezze.
Il zoombombing
Una recente variante dell’hate speech, nata in pieno lockdown quando molte attività sono state traslate nel digitale, dal lavoro allo studio, dai convegni agli eventi, è il zoombombing. Con questo termine si intende l’intrusione da parte di hater o disturbatori all’interno di teleconferenze che si svolgono su piattaforme quali Zoom o Meet, che ormai tutti usiamo abitualmente.
Una volta ottenuto il link d’accesso, in modo diretto quindi con una normale richiesta tramite mail, oppure riuscendo ad hackerare la piattaforma, i disturbatori interrompono l’evento con comportamenti altamente provocatori, fra cui messaggi e incursioni vocali con insulti, urla, termini blasfemi, con cui prendono di mira alcuni partecipanti. La novità qui è dunque la possibilità di agire anche vocalmente, non solo in modalità scritta. I messaggi lanciati hanno quasi sempre matrice di natura fascista o sessista. Molto spesso, infatti, capita che tali incursioni avvengano durante incontri in cui si discute di tematiche inerenti le questioni di genere, o quando a parlare è una relatrice donna.
L’intento di togliere alle donne la libertà di parlare, zittendole e appellandole con epiteti sgradevoli è palese.
La diffusione non consensuale di materiale intimo
Un’ultima forma di soprusi a cui le donne rischiano di essere soggette online e che merita quindi di essere trattata è conosciuta col nome di revenge porn, termine a cui però si preferisce la dicitura più corretta di “diffusione non consensuale di materiale intimo”. Si tratta di una vera e propria violazione della privacy e della dignità della vittima, in cui vi è la condivisione di foto o video di natura intima e sessuale, senza il consenso della persona ritratta.
Tale azione può essere perpetrata da un partner, o ex partner, ma anche da persone estranee che siano riuscite ad entrare in possesso di tale materiale anche con modalità illegali, per esempio hackerando un dispositivo digitale.
Si tende ad usare sempre meno il termine revenge porn perché fuorviante, in quanto rimanda all’idea che la condivisione di materiale intimo avvenga come vendetta per un torto subito, magari per essere stati lasciati. Nella quasi totalità dei casi è l’uomo a compiere questa azione, ma non esiste giustificazione per tale comportamento. Di sicuro, non può essere la decisione di troncare un rapporto sentimentale una motivazione valida per rovinare la vita e la reputazione di una donna.
Conclusioni
Tutti i fenomeni descritti stanno fortunatamente attirando l’attenzione e l’impegno di molte realtà nel tentativo di porvi rimedio. In particolare, nei confronti dell’hate speech si sta facendo molto. È di pochi giorni fa la pubblicazione del rapporto finale ad opera del “Gruppo di lavoro sul fenomeno dell’odio online”, istituito lo scorso anno dall’ex Ministro all’innovazione tecnologica e la digitalizzazione Paola Pisano, di concerto con il Ministero della Giustizia e il Dipartimento per l’Editoria della Presidenza del Consiglio. Un pool di esperti che ha analizzato e monitorato il fenomeno, arrivando a stilare per l’appunto un rapporto che include raccomandazioni e buone prassi per contrastare l’hate speech.
È indubbiamente necessario un intervento a livello normativo e giuridico, perché talune azioni, sia dirette contro gruppi che contro singoli individui, non possono essere più tollerate. Bisogna denunciare e far prendere consapevolezza alle persone di come certe azioni compiute superficialmente online costituiscano dei reati e pertanto siano perseguibili nelle sedi competenti.
Ma l’ottica solo punitiva e repressiva non può realmente modificare la mentalità che sta dietro questi fenomeni. Pertanto, le azioni necessarie e auspicabili debbono comprendere l’educazione e la prevenzione a partire già dalla scuola primaria. Un’educazione che punti a sradicare le convinzioni maschiliste e che verta sull’interiorizzazione dei valori indispensabili per convivere civilmente con gli altri all’interno di una società, ossia rispetto, empatia, accettazione, gentilezza e parità di genere. A questo deve poi essere affiancata la parte di educazione digitale, affinché si possa arrivare a garantire a tutti i cittadini, uomini o donne che siano, un’esperienza di navigazione serena, sicura e costruttiva.
La parità di genere è un traguardo che bisogna raggiungere anche online, con l’impegno da parte di tutti.