non solo Ray-Ban Stories

Inghiottiti dal metaverso: i rischi di un mondo visto con gli occhiali “intelligenti”

Attraverso gli smart glasses molti stanno pensando di leggere la meta a cui stiamo tendendo: il metaverso: qualcosa in più di un mondo virtuale, una realtà estesa, un cyberspazio comune in cui balzare da un’attività all’altra muniti solo di avatar. Quali sono i rischi?

Pubblicato il 21 Ott 2021

Lorenza Saettone

Filosofa specializzata in Epistemologia e Cognitivismo, PhD Student in Robotics and Intelligent Machines for Healthcare and Wellness of Persons

meta privacy noyb

La notizia della collaborazione tra Facebook e Luxottica ha rimbalzato ovunque, non tanto per il prodotto in sé, quanto più per la direzione che il prodotto annuncia. Con i Ray-Ban Stories puoi scattare foto (di qualità molto discreta) e condividerle direttamente sui social. È, inoltre, possibile ascoltare musica, comunicando con l’oggetto tramite assistente vocale.

È evidente che non siano propriamente rivoluzionari. Allora perché hanno fatto tanto parlare di sé? Attraverso gli smart glasses molti stanno pensando di leggere la meta a cui stiamo tendendo: il metaverso, progetto già da tempo svelato da Zuckerberg. Non solo i Ray-Ban, ma tutto quanto sembra suggerirci un futuro tecnologico simile. La vita intera finirà per assumere i connotati della gamification? In questo articolo descriverò alcuni prodromi del metaverso e le sue possibili conseguenze.

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Non solo Ray-ban stories: i rischi degli occhiali “intelligenti”

Sulla scia di Facebook, Xiaomi accelera i tempi annunciando i suoi occhiali intelligenti. Il wearable della casa cinese si spinge un poco oltre rispetto ai Ray-Ban, promettendo un oggetto capace di gestire la Realtà Virtuale. I concorrenti firmati Luxottica sono semplici “storie dal punto di vista di chi guarda” o uno strumento per guardoni. In effetti la principale sfida da risolvere è proprio il puzzle della privacy, lo stesso che decretò l’insuccesso dei primi occhiali intelligenti di Google. Non più città video-sorvegliate, ma gli stessi cittadini diventerebbero il tramite del controllo di massa.

Se non volessi essere ripresa, come potrei impedire che venissero scattate fotografie senza il mio consenso? Nel caso anche io indossassi occhiali smart, la comunicazione tra gli oggetti interattivi potrebbe creare un blur sulla mia faccia. Sarebbe un blocco all’accesso e alla condivisione del viso altrui, simile a quello dei profili Facebook. Chi non volesse essere osservato diventerebbe così invisibile agli altri utilizzatori delle lenti. Ma per chi non indossasse simili device? Come comunicare agli occhiali degli altri il proprio diniego preventivo? Un modo potrebbe essere un’intelligenza artificiale inserita nelle lenti, capace di riconoscere i visi e di applicare le diverse licenze decise dai singoli. Prima di adottare i blocchi desiderati, però, il device deve sempre riconoscere una faccia. In questo modo saremmo sempre pre-identificati dal dispositivo, al di là del nostro no, con tutto quello che ne conseguirebbe per la privacy.

Perché della privacy non ci importa poi tanto

Secondo un articolo recentemente apparso sulla rivista Psyche non facciamo abbastanza per la privacy per ragioni evolutive. Nonostante tutti si sia consci dei potenziali rischi continuiamo a postare, a scaricare app di cui poco sappiamo, a inserire dati sensibili nelle piattaforme. L’ipotesi è che la cognizione e le tecnologie non procedono a uguale velocità, trovandosi in questo momento storico a un grado di divisione quasi inconciliabile. (Si tratta di un ulteriore significato di digital divide?) Ciò renderebbe molto difficile per gli esseri umani avvertire il rischio dei nuovi mezzi.

La preoccupazione per la privacy dipende dalla percezione di vicinanza degli altri; pertanto, il venire meno della fisicità nelle relazioni digitali non farebbe scattare l’allarme per la sicurezza. Siamo consapevoli che chiunque fosse munito di occhiali intelligenti potrebbe rubarci scatti senza farcene accorgere, ma ciò non è sufficiente perché emerga in noi un’emozione corrispondente di ansia. Lo stesso problema si prospetterebbe dentro un metaverso, completamente digitale, in cui ogni azione umana verrebbe tracciata e analizzata da Data Analyst. Netflix e l’Xbox Game Pass ci donano una sorta di bilocazione: siamo presenti due volte, sullo schermo di casa e sul cloud delle Big Tech, in questo modo i dati delle nostre preferenze diventano una loro fonte di guadagno ulteriore, ma in pochi si rendono conto di essere costantemente visti, tracciati, e in seguito analizzati in questa esplorazione estetica delle identità. Insomma, c’è una dissonanza tra razionalità e reazione istintiva. Eppure, perché ci sia una risposta appropriata, con una presa di posizione netta per la privacy, devono darsi sia gli elementi affettivi sia una loro interpretazione top-down. Fino ad allora continueremo a postare senza davvero avvertire il pericolo.

Metaverso: il mondo dopo i social network

Le Big Tech sono sempre alla ricerca di cosa ci sia dopo i social network, perché la noia è il peggior nemico del business attuale. Sembra che la Science Fiction sia la maggior fonte di ispirazione per tutti i leader delle grandi aziende tecnologiche, sia per i viaggi spaziali, sia evidentemente per il metaverso. Secondo i più cinici, però, quest’ultimo non sarebbe altro che una copertura. Il “panem et circenses” dei giorni nostri, utilizzato per far dimenticare alla massa i veri problemi (governance, libertà, privacy, discriminazione, dipendenza) che i social si rifiutano di risolvere.

Le case di moda stanno lanciando collezioni virtuali, come Balenciaga per Fortnite. L’obiettivo è rendere gli avatar dei metaversi-videoludici sempre più cool e personali. Anche gli NFT la stanno facendo da padroni, diventando status symbol esclusivi di un mondo virtuale che altrimenti fatica a garantire autenticità. Per essere davvero abitabile, il metaverso deve essere un posto capace di assicurare i diritti fondamentali di vita, proprietà e libertà. Questi, per avere senso, devono fondarsi su un’identità non copiabile, certificata.

Nel mondo organico non esistono due individui identici tra loro, a differenza della materia inerte: l’acqua ha la stessa forma (formula) ovunque e da sempre. Al contrario, per gli organismi viventi vige un’assoluta ecceità, ossia l’individuo è identico solo a sé stesso, al di là del conformismo sociale, del genoma, di un’eventuale somiglianza con altri individui, la quale resta un’impressione soggettiva, ricavabile sempre a posteriori, per analogia. È un’opinione su cui altri possono più o meno concordare. Il metaverso, allora, per accogliere la vita, deve fare in modo che l’avatar possa davvero essere unico. Solo così la protesi virtuale diventerebbe un soma a tutti gli effetti. Ecco perché acquistiamo skin personalizzate. Le tecnologie di blockchain sono le candidate migliori per garantire unicità soggettiva, dando perciò un senso alla proprietà, dell’essere (se mi appartiene una nozione allora esisto) e dell’avere (tanto dei miei corpi quanto degli effetti che derivano da me, ossia la responsabilità).

Metaverso: i rischi di una realtà eccessivamente semplificata

Il metaverso è qualcosa in più di un mondo virtuale. Si può dire sia una realtà estesa, un cyberspazio comune in cui balzare da un’attività all’altra, da un gigante tecnologico all’altro, muniti solo di avatar (diventeremmo un cursore antropomorfo in un web diffuso). Il termine fu coniato da Neil Stephenson nel racconto fantascientifico “Snow Crash.” Ad ogni modo il senso pieno di questo termine dipende un po’ dalla prospettiva con la quale viene inquadrato. Personalmente penso che la migliore definizione di metaverso sia la psicosi. Quest’ultima, come dice lo psichiatra Valerio Rosso, è una condizione psichica patologica che presenta un “guadagno di funzione”, ovvero aumentate produzioni associative, esperienze percettive bizzarre. I soggetti dicono di percepire un’espansione incredibilmente elevata delle associazioni che fanno con i vari elementi della realtà, allora il metaverso, esempio di extended reality, è dove gli psicotici già hanno sempre vissuto.

Questo è ancor più vero se, oltre ai device, al 5G e all’Internet delle Cose, interverrà l’intelligenza artificiale a creare in ciascuno un proprio sogno, un metaverso che, portato agli estremi, potrebbe diventare incommensurabile con quello degli altri – costruiremmo una situazione relativistica estrema, un autentico solipsismo in cui comunicare, pensare, relazionarsi, legiferare sarà impossibile. Non a caso ho scritto di sogno. Eraclito distingueva gli svegli dai dormienti dal fatto che i primi, al di là dell’apparenza mutevole delle cose, sapevano trovare un punto di vista comune grazie al Logos universale di cui erano partecipi. Questo perché, al di là delle opinioni, esisteva un mondo, una verità unica su cui concordare. Grazie alla razionalità, dunque, i veri filosofi potevano porsi al sicuro da un’allucinazione onirica che avrebbe impedito il dialogo e quindi la sopravvivenza, essendo, la nostra, una specie sociale.

Il metaverso sarebbe un’inevitabile semplificazione della realtà. Mi chiedo se vivere in un ambiente decurtato di molti suoi aspetti, possa comportare sul lungo termine un’involuzione dell’essere umano, tale da fargli perdere le competenze guadagnate nell’evoluzione – comprese le stesse capacità di adattamento e di rispondere altrimenti alla complessità del reale. Impareremmo a vivere in un ambiente che si adatta sempre a noi. Diventeremmo soggetti inadatti al contesto non-simulato, come animali cresciuti in cattività o meglio in un laboratorio.

Contemporaneamente occorre domandarsi se, invece, sarebbe etico creare un metaverso che includesse dolore, sofferenza e pericolo dal momento in cui sarebbe possibile evitarli, costruendo una realtà priva di mali fisici e limitata in quelli morali. Si tratta di un dilemma che probabilmente troverebbe risposte contrastanti se posto a individui di culture differenti, com’è stato dimostrato per i puzzle relativi alle auto a guida autonoma. Questo relativismo valoriale renderebbe difficile l’implementazione di un mondo veramente comune in cui vivere, su cui comandassero algoritmi uniformi a tutte le culture. Se la globalizzazione e il Covid stanno portando a estinzione molte lingue e con loro la sapienza che ogni pool di regole semantiche e grammaticali ricalcano sul mondo, il metaverso darebbe l’ultima spallata alla diversità culturale.

Non solo, sarebbe etico creare un metaverso speciale, per soddisfare le richieste di pedofili e killer? Se nella simulazione mi trovassi a provare piacere per aver arrecato dolore ad altri o a me stesso come dovrei reagire? Dovrei provare senso di colpa? Se mi trovassi a reagire emotivamente in modi che non mi sarei aspettato? In questi casi dovrei ricalibrare il concetto che avevo di me stesso? L’effetto Proteus sarebbe molto più forte nel metaverso?

Conclusione

Bisognerebbe anticipare i casi limite e fare in modo che i soggetti, a differenza di quel che capitò durante tutte le fasi del web, fossero alfabetizzati al metaverso prima che questo faccia il suo ingresso nelle nostre vite. La damnatio memoriae (letteralmente “condanna della memoria”), se esisterà un metaverso, sarà una pena che i singoli potranno commissionare tramite il blocco dell’avatar altrui; sarà un ban applicabile dalle corporazioni private per coloro che violassero certi regolamenti. La cosa pubblica e la democrazia saranno parte lesa – nel senso che subiranno lobotomie selettive, rimuovendo, come ricordi dolorosi, i cittadini non graditi, i quali finiranno per scomparire letteralmente tra le pieghe (e piaghe) della nuova realtà.

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