l'analisi

Ecco i social aperti, della libera espressione. Ma è vera libertà?

Da Telegram a Truth social, passando per Substack, sono molte le piattaforme su cui migrano i reietti, i rinnegati, i bloccati e i censurati dai social mainstream. Questi generano profitti colossali coi nostri dati, ma poi quando gli autori non sono più graditi, cancellano l’account. Possiamo ancora accettarlo?

Pubblicato il 02 Mag 2022

Pierluigi Casolari

founder di Unconventional Road, autore di Startup 3.0, blog su startup, innovazione e web 3.0

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È grande la fame di libertà di opinione su internet. Ed è un fiume in piena che non si può fermare. Mentre il web 3.0 muove i suoi primi passi e promette di resettare i meccanismi tecnologici che hanno portato alla nascita dei grandi monopoli high tech della Silicon Valley, molto più prosaicamente nascono nuovi social e canali che strizzano l’occhio ai milioni di utenti stanchi di censura, di blocchi al proprio profilo, di fact checker che non colgono le sfumature dei fatti e tranciano i contenuti con le cesoie.

Se esageri ti cancello: quali limiti alla libertà di parola sui social

Il dibattito non è mai stato infuocato come in questi giorni. L’acquisto di Twitter da parte di Musk è stato in gran parte motivato (almeno nelle dichiarazioni del nuovo patron) dalla volontà di ripristinare l’idea originaria del social cinguettatore come strumento decentralizzato, libero, anticonformista, senza censura. Un’idea che negli anni era sbiadita.

I social e i paletti alla libertà di espressione

La libertà di espressione non può certamente essere assoluta. La legge definisce i contorni molto precisi di ciò che si può dire e ciò che non si può dire. Eppure, negli ultimi due anni, i social guidati dal bisogno di diventare strumenti ufficiali di comunicazione e di controllo pubblico hanno interpretato in modo molto discutibile i dettami della legge, definendo perimetri molto più stretti alla libertà di opinione e prendendo decisioni “politiche” sui due grandi temi dell’ultimo periodo: pandemia e guerra Russia-Ucraina.

Le alternative ai social mainstream

I reietti, i rinnegati, i bloccati e i censurati non si sono fermati e hanno cercato altri canali per esprimere – legittimamente – le proprie opinioni. Durante i primi mesi della pandemia, Telegram è diventato uno dei canali ospiti dei “rifugiati politici digitali”. Nato nel 2013 da due imprenditori digitali russi, Telegram oggi conta oltre 500 milioni di utenti attivi al mese. Si tratta di numeri molto importanti, superiori per esempio a quelli di Twitter (300 milioni di utenti attivi al mese). Telegram è stato duramente attaccato durante la pandemia. È stato definito provocatoriamente il “porto franco delle fake news” dai giornali italiani. Ma la storia complessa di Telegram non è iniziata con la pandemia. La società Telegram LLC, società non a scopo di lucro con sede a Dubai, ha sviluppato Telegram utilizzando software open source.

Ha sin da subito presentato il proprio servizio come un’alternativa non controllata rispetto a Whatsapp. Poi nel tempo da strumento di messaggistica, Telegram è diventato una piattaforma social. Ma ha mantenuto la propria logica decentralizzata. Su Telegram il controllo da parte degli amministratori della società è a maglie molto larghe. Durante la pandemia gli argomenti novax circolavano liberamente su Telegram. Ma anche Telegram si è confrontato con la legge degli stati e nel novembre 2021 alcuni canali sono stati chiusi perché incitavano alla violenza contro i medici vaccinatori. L’incitazione all’odio e alla violenza, sono stati motivo di chiusura di tantissimi canali. La strategia di Telegram è stata quella di collaborare con gli Stati Nazionali. Seguendo il principio che la libertà di espressione finisce esattamente laddove inizia l’illegalità della pornografia, dell’odio e della diffamazione. Un tipo di linea guida che vorrebbe seguire anche Elon Musk ora che possiede il 100% di Twitter.

L’avvento di Truth social di Donald Trump

L’altra grande meta dell’esodo di chi è stato bloccato sui social è Truth Social, il social di Donald Trump che si autodefinisce: “la piattaforma di social media che incoraggia una conversazione globale aperta, libera e onesta senza discriminare l’ideologia politica”. La piattaforma per il momento è fruibile solo dagli Stati Uniti, dove in aprile è stata una delle app più scaricate, davanti persino a TikTok. L’ex presidente americano è stato vittima di una censura incrociata da parte di Twitter e Facebook nel gennaio del 2021, nei giorni successivi all’occupazione di Capitol Hill, la sede del Governo americano, da parte di alcuni suoi sostenitori. Trump, nei giorni che precedettero la grande censura, aveva contestato i conteggi delle elezioni che avevano decretato la vittoria di Biden e, secondo la recente sentenza della commissione d’inchiesta della Camera, avrebbe commesso vari illeciti, disseminando notizie falsi su presunti brogli elettorali e sulla vittoria dell’avversario. Trump ha sempre negato di avere avuto un ruolo attivo nell’occupazione del Campidoglio e ora porterà la sua difesa alla Corte Suprema.

Si tratta di una materia certamente controversa. Di fatto, tuttavia, tanto Meta che Twitter hanno unilateralmente cancellato gli account privati e ufficiali di Donald Trump dalle piattaforme. Questa decisione di proporzioni inaudite ha aperto il dibattito sulla potenza politica dei social e ha trasformato automaticamente Trump in un martire, vittima di un sistema che non tollera la libertà di espressione. Per definire Trump un martire ci vuole certamente una certa propensione per i voli pindarici. Ma è certo tuttavia che tanto Facebook, quanto Twitter non hanno operato secondo la legge (che solo dopo 1 anno ha emesso la propria sentenza), ma sulla base di decisioni interne inappellabili e dunque non esattamente democratiche. Oggi il social di Trump è portavoce di una parte del mondo conservatore americano che non si riconosce nel progressismo dei Dem americani e che esprime una voce fortemente controcorrente, dalla pandemia a Putin. Posizioni a rischio costante di blocco e censura sui social di Meta e su Twitter (forse ora non più) e che invece hanno spazio su Truth Social. Per il momento.

La piattaforma Substack

Substack segue un percorso diverso. Riprende il filo del discorso che aveva lasciato aperto il social media Medium. È una piattaforma per scrittori, giornalisti, autori e in generale chiunque abbia qualcosa da raccontare, libera da censure, ad eccezione dei limiti della legge sull’odio, il porno e l’incitazione alla violenza. Dove gli autori possono monetizzare i propri contenuti. Nata nel 2018, stava già crescendo a doppia cifra, quando con la pandemia e la crociata contro le opinioni alternative, è diventata la terra promessa per giornalisti, autori, influencer in bilico tra censura e blocco sugli altri social. Negli ultimi 2 anni, Substack è letteralmente esplosa e oggi offre a migliaia di autori un canale di distribuzione auto sostenibile economicamente e a centinaia di migliaia di lettori un punto di riferimento di controinformazione sui più svariati temi. Substack è al crocevia di un ulteriore problema: la caduta libera dei media tradizionali, che continuano a perdere lettori, fatturato, inserzionisti. Per molti autori, giornalisti e freelance sta diventando più interessante costruire un proprio database di lettori, che non affidarsi alla rubrica di un giornale online oppure ad una piattaforma sociale, che da un momento all’altro potrebbe privarti dei tuoi followers. Followers che potresti persino avere pagato per avere.

La soluzione

Dietro l’angolo della libertà di espressione c’è quello economico. La monetizzazione dei contenuti potrebbe essere il grande punto di svolta del web 3.0. Non è accettabile che le piattaforme prendano i nostri contenuti, vendano i nostri dati, generino fatturati e marginalità colossali. E poi quando i contenuti (o gli autori) non sono più graditi, cancellano l’account, che a quel punto perde tutto: contenuti, followers, lettori.

Non serve una laurea in filosofia per capire che siamo di fronte all’esproprio, di cui parlava Marx. La soluzione, tuttavia, non sarà nel rigettare quanto di buono ci sta regalando il web 2.0, ma di farlo evolvere in base a principi che mettano in cima all’agenda delle priorità: libertà di espressione, trasparenza dei dati e monetizzazione degli autori di contenuti.

In base agli stessi principi di libertà e pluralismo, ci auguriamo che la soluzione non arrivi da una rivoluzionaria piattaforma, a rischio di generare un nuovo monopolio e un nuovo pensiero unico, ma dal proliferare di idee, startup e piattaforme differenti, anche contrastanti l’una con l’altra.

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