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Ecco la mappa dell’innovazione italiana che nutrirà l’Industry 4.0

Cluster, competence center, parchi tecnologici, iniziative degli industriali, e l’esempio della Vanguarde Initiative europea. La sfida della disseminazione culturale all’interno del piano del Governo

Pubblicato il 27 Set 2016

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Non solo Politecnici e competence center individuati dal governo nel piano Industria 4.0, la mappa dell’innovazione italiana dell’innovazione che ruota intorno al rapporto università impresa coinvolge tutti i progetti legati allo sviluppo delle competenze del futuro e al rapporto fra il mondo della formazione e della ricerca e le imprese. «I digital innovation hub devono nascere spontaneamente e ovunque», ha specificato il ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda presentando il piano. Vediamo allora una mappa di realtà italiane già esistenti, e cerchiamo di capire con l’aiuto degli esperti come si coniugano, sul territorio, impresa, competenze e innovazione, e soprattutto quali sono le sfide per l’Italia 4.0

Una delle esperienze più rilevanti a livello europeo è rappresentata dalla Vanguard Initiative, un’associazione (era un ente di diritto belga, sta diventano associazione con personalità giuridica), che riunisce le 30 regioni europee più all’avanguardia sul fronte dell’innovazione, che da sole valgono due terzi del sistema industriale europeo. Le Regioni italiane che aderiscono sono Lombardia ed Emilia Romagna, e attualmente proprio quest’ultima ha, dallo scorso mese di luglio, la presidenza.

«Il punto che stiamo affrontando ora – spiega Francesco Paolo Ausiello, direttore tecnico di Aster, la società consortile dell’Emilia-Romagna per l’innovazione e il trasferimento tecnologico che da due anni è protagonista attiva dello sviluppo di Vanguard Initiative – è come finanziare i progetti dimostrativi. Leading by exemple: crediamo moltissimo in questa maniera di affrontare le cose». Buono il giudizio sul piano Industria 40 del Governo che si occupa di quattro elementi importanti, ovvero investimenti (con l’obiettivo di canalizzare risorse e risparmio nazionale verso l’economia reale), infrastrutture, competenze e ricerca, attenzione alla governane. La cosa fondamentale per promuovere l’industria 4.0, prosegue Ausiello, è «incoraggiare le strade che portano alla digitalizzazione». Tornando al concetto del leading by example, Vanguard «affronta il problema di come potenziare la creazione di impianti dimostrativi, che hanno una vicenda di finanziamenti difficile». In una parola, «bancabilità, che è la croce di tutti gli investimenti dimostrativi». Si tratta di realizzare dei demo plant, che possano essere utilizzati da più imprese». Strutture che ad esempio le PMI non riescono a realizzare autonomamente: «le imprese di piccole e medie dimensioni difficilmente si imbarcano in un’operazione senza sapere quali sono i rischi. Vogliono fare delle prove che dimostrano che una determinata tecnologia funziona per la loro azienda». I demo plant sono una sorta di «palestra industriale, che le piccole imprese possono utilizzare per mettere in produzione i propri prodotti». L’impresa lo utilizza, per un determinato periodo, verifica le caratteristiche di adattamento del proprio prodotto, e poi esce dall’attività pilota per fare l’investimento vero e proprio. «Supponiamo che una fabbrica di piastrelle voglia capire come automatizzare e rendere disponibile on line a tutti i dati della linea di produzione». L’impianto pilota consente di fare le prove, per vedere se la tecnologia va bene, e quindi replicarlo, eventualmente apportando modifiche.

Anche condividendo l’impianto fra più imprese, le spese sono molto alte, e per questo Vanguarde si impegna nella realizzazione di questi impianti pilota. Una delle azioni in corso, «prevede di trasferire il know how per piattaforme off shore di petrolio in piattaforme polifunzionali per le rinnovabili. Serve a capire come le tecnologie attualmente utilizzate per il petrolio possono essere usate anche per le energie alternative. L’impianto si trova a Ravenna, dove c’è un distretto off shore, e l’obiettivo è di aiutare le imprese del settore a diversificarsi. Si tratta di una piattaforma che può costare milioni di euro, e che non produce (è una demo).

Ausiello esprime soddisfazione per la presenza dell’università Bologna fra i competence center, che valorizza il diretto tecnologico dell’Emilia Romagna. «Bologna è grande università, con carte da giocare molto importanti. Sarebbe importante capire se hanno una rete consistente di rapporti con l’industria, come i Politecnici di Milano e Torino». Perchè la mission è «lavorare con le imprese per spingerne l’evoluzione». È richiesta, alle università, una motivazione su questa operazione, che comporta sforzi diversi da quelli che attualmente fanno. «Le università premiano, e sono premiate, per le pubblicazioni, la formazione. Non c’è enfasi sul fatto che ottengano risultati in campo industriale». Esempio: la Rete Alta Tecnologia dell’Emilia Romagna, strutture (Tecnopoli) che favoriscono l’incontro università, imprese e istituzioni pubbliche attraverso laboratori, centri di ricerca. Gli introiti sono pari a 150 milioni di euro, ma tutto questo «per la valutazione scientifica conta molto meno delle pubblicazioni». Quindi, insiste Ausiello, «il cambio di mission va più evidenziato», lavorare per Industria 4.0 deve diventare premiante, valorizzando ad esempio, invece che una pubblicazione, una campagna di formazione per le imprese. «Io ho una provenienza industriale: lavorare con le università è importante, ma spesso prevale l’aspetto scientifico. Invece ora «si devono rendere conto che il cliente è l’industria, e non la crescita dipartimentale».

Sono importanti anche i cluster, che in genere sono formati da imprese, ma l’università ha il vantaggio di garantire una presenza super partes. L’importante è che la missione sia chiarissima: «la promozione industria 4.0». Quindi, la speranza è che i competence center non siano «un cartello da mettere su un indirizzo mail», ma diventino veramente dei punti di propulsione. Altra cosa: valutare il criterio della rispondenza alla domanda territoriale delle imprese: «non so se la mappa sia immutabile, e poi da estendere» comunicando con i competence center individuati. Comunque sia bisogna capire se «funzionano come cinghia di trasmissione fra centro di competenza e imprese». Università applicata, che si occupa di industria.

Bene anche la parte sui finanziamenti e accesso ai fondi, che oggi è un punto debole. «Il programma europeo Horizon 2020 ha un tasso di successo medio del 5%. Su 100 domande, ne vengono accolte 5. Va bene per le università, che generano progetti», non per le imprese. In Vanguarde, «le università ci sono, fanno da contesto, ma in prima istanza ci sono le imprese». Altra sfida per l’Italia, le PMI. «Le grandi lavorano già con la digitalizzazione, il punto fondamentale sono le PMI: small industria 4.0. E qui, entra in gioco il paradigma mentale degli imprenditori, che «vogliono guardare con i propri occhi». In questo senso, «è importante l’impatto di bigdata, sensoristica, analytics, invece che esperti che la fanno lunga». Le imprese possono avere dati statistici, e lavorarci sopra, i dati escono dalla fabbrica. Un’azienda ha «online tutti i dati dei difetti di produzione e può reagire in tempo reale». Le piccole imprese, questo operazione, in genere la fanno alla fine dell’anno. In definitiva, per l’Italia c’è un’occasione, rappresentata dal patrimonio delle PMI, ma la condizione è che la piccola impresa cresca.

Altro esempio, l’Emilia Romagna vanta una eccellenza in automazione e robotica (copre il 70% dell’esportazione delle macchine per automazione e packaging): bisogna «far crescere queste capacità, che riguardano centinaia di imprese (4 o 5 grandi), e tenersi a livello». Oppure l’alimentare: è fondamentale l’utilizzo ben fatto delle materie prime di qualità, «i prosciutti si fanno con sistemi di processo. la catena di produzione deve essere resa resiliente alla concorrenza internazionale, sul fronte di metodi e costi di produzione».

Chi invece difende il modello dei bandi Horizon 2020 è Alberto Di Minin, docente di Economia e Gestione delle Imprese della Scuola Superiore Sant’anna di Pisa, anch’essa fra i competence center del piano. Di Minin rappresenta l’Italia per i bandi Horizon 2020 (il programma che finanzia ricerca e innovazione). «Le PMI italiane esprimono in Europa innovatività. Nei bandi Horizon, l’Italia è al primo posto per numero di domande presentate. Gli inglesi sono al primo posto per risorse acquisite, ma anche in questo noi siamo al terzo posto. Portiamo a casa tanti soldi, che sono il risultato di bei progetti di innovazione». Il success rate è intorno al 7-8%, un po’ più basso per l’Italia perché presenta più domande. «Gran parte dei casi che ho visto in Horizon- dice – beneficerebbero delle risorse del piano Industria 4.0». L’esperto ritiene sorprendente la varietà dei casi: ci sono spin off accademici, (forte esperienza di programmi, finanziamenti europei), ma anche aziende più tradizionali, spesso PMI, che sfruttano il finanziamento per sviluppare qualcosa di nuovo. Un po’ in controtendenza con le linee guida del piano, che concedono i finanziamenti direttamente alle imprese sottoforma di incentivi fiscali, non li distribuiscono attraverso i bandi, il docente difende queste forme di finanziamento. Chi li chiede? Per un terzo start up (che nascono dietro un progetto innovativo), un terzo spin off universitari (quindi neo imprese già nate, non start up, che vivono in un ambiente di ricerca, e sfruttano il bando per industrializzarsi). Infine, un altro terzo è composto da aziende senza vocazione hi tech, che utilizzano i bandi per rinnovare la capacità innovativa, utilizzano un accordo con un fornitore, o fanno open innovation, comprando tecnologia dal di fuori. «Di Minim si augura che il programma Horizon 2020 possa andare di pari passo con Industria 4.0, replicando la logica delle SME innnovation instrument.

Proseguendo con la mappa dell’innovazione italiana, i competence center individuati dal governo, come è noto, sono oltre alla già citata Università di Bologna, i Politecnici di Milano, Torino, Bari, la Scuola Superiore Sant’anna di Pisa, le università del Veneto, la Federico II di Napoli. Fra le iniziative rilevanti già in atto: il Venice Innovation Hub fra università venete (Università di Padova, le veneziane Cà Foscari e Iuav, università di Verona) che diventi polo di attrazione per l’innovazione, riunendo ricerca e imprese, e che ha sede nel Parco Scientifico e Tecnologico Vega, a Marghera. Il progetto Human Technopole, sull’area EXPO, un progetto da 2,5 miliardi di euro, che coinvolge l’Istituto Italiano di tecnologia di Genova, altra eccellenza italiana. Sempre a Genova, c’è anche l’Italian innovation hub, della Fondazione R&I, a cui partecipa Confindustria, che a sua volta promuove quattro Digital Manufacturing Innovation HUB in Lazio, Marche, Parma, Puglia. Infine, i cluster tecnologici: Fabbrica Intelligente, Aerospazio, Agrifood, chimica verde, Mezzi e sistemi per la mobilità di superficie terrestre e marina, Scienze della Vita, Tecnologie per gli ambienti di vita, Tecnologie per le Smart Communities.

E siamo ai parchi scientifici e tecnologici (riuniti nell’associazione APSTI): sono una trentina, riuniscono aziende, start up, infrastrutture per incubare nuove imprese innovative. Si dividono in incubatori tecnologici, parchi Biotech, parchi agroalimentare, sostenibilità ambientale. Le sedi: Trieste, Pordenone, Udine, Bologna, Navacchio di Cascina (Pisa), Pontedera (Pisa), Bergamo, Lodi, Pavia, Como, Novara, Colleretto Giacosa (Torino), Torino, Catania, Cagliari, Marcianise, Napoli, Bari.

A Milano, proprio nell’ottica 4,0, è appena stato siglato un patto fra Assolombarda e gli atenei della capitale lombardia (Statale, Bicocca, Bocconi, Polimi, Cattolica, Humanitas, San Raffaele, Iulm) e l’Università degli Studi di Pavia, per sviluppare innovazione e rapporto fra impresa, accademia, ricerca.

Ma non ci sono solo le università a promuovere l’innovazione in ottica 4.0. Il piano del Governo, non a caso, nella parte (fondamentale), relativa alle competenze, punta a diffondere la cultura digitale attraverso alternanza scuola lavoro e formazione secondaria superiore. Su questo fronte, è impegnato l’Osservatorio Manifattura 4.0 di API (associazione piccole e medie industrie), e SIAM 1838, storico ente per la formazione professionale. Un’antica «scuola di arti e mestieri – spiega Giovanni Anselmi, presidente API digitale e responsabile Osservatorio 4.0 – in cui il saper fare si imparava in settimana, e nelle ore serali». Anche Anselmi insiste sul fatto che la sfida italiana di Industria 4.0 passi dalle PMI: però, dice «non sono d’accordo con Confindustria, secondo cui il 50% lede imprese italiane sono preparate alla sfida. Secondo me la piccola impresa non è preparata. Abbiamo proposto un corso prototipazione 3D, hanno aderito in pochissimi». L’auspicio è che i 13 miliardi previsti dal piano facciano scattare la voglia di investire. «Ma io ho appena visto uno stabilimento inaugurato da poco tempo, molto bello e tecnologico, ma con un magazzino ancora vecchia maniera». Molte imprese non hanno capito la portata della sfida di Industria 4.0. Eppure, «le tecnologie le hanno in casa. Chi produce macchine utensili, ha già il collegamento con una macchina da cui riceve informazioni. Ma, ad esempio, non lo attiva perché pensa che gli venga portata via chissà quale expertise. L’elaborazione dei big data è il primo approccio semplice con cui andare a spiegare alle piccole imprese che hanno già in casa tutto, devono solo aumentare le competenze per usare un’informazione che stanno perdendo». Dunque, l’analisi dei big data è un primo volano di innovazione per le PMI.

Un’iniziativa di API sul territorio: il check – up Industry 4.0: «stiamo preparando un team di persone per andare in azienda, starci una giornata, e per vedere se e quale tipo di innovazione è necessaria. Lo facciamo con il SIAM, il team è composto da ingegneri. C’è anche un questionario online, per raccogliere ulteriori dati sulle imprese e aiutarle nel percorso di digitalizzazione.

Fra le tecnologie da diffondere nel “saper fare” artigiano delle PMI, la modellizzazione 3D: «un tornitore diventa un addetto alla modellizzazione. Prima stava sul tornio, adesso sta sul pc, genera il pezzo e controlla che esca». Oppure, lo studio dei materiali: oggi si può stampare su legno, polimeri, oggetti più duri del ferro. Le aziende non lo sanno. Una piccola manifattura del futuro, non avrà 6 torni, ma uno solo, che caricherà ogni volta per andare in stampa con quello che il cliente vuole. Non dovrà più avere il magazzino. Dentro alle fabbriche probabilmente ci saranno stazioni di subfornitori che direttamente nelle aziende stamperanno il pezzo».

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