Siamo finalmente alla vigilia della partenza operativa del Sistema Pubblico di Identità Digitale, e quindi dell’avvio dell’articolato insieme di programmi finalizzati a cambiare radicalmente il rapporto tra cittadini, imprese e amministrazione pubblica, per cui è utile soffermarci su una delle carenze strategiche principali, necessaria da superare per poter affrontare con successo il tema della crescita digitale: la mancanza di una politica industriale nazionale.
Crescita digitale e strategia orizzontale
Come già sottolineato al momento della formalizzazione del documento “Strategia per la Crescita Digitale”, una delle critiche principali era legata al focus prevalente, strettamente nell’ambito della trasformazione digitale della pubblica amministrazione, con l’assenza di misure specifiche nell’area dell’innovazione delle imprese e della crescita industriale.
Il risultato è stato, così, una focalizzazione su interventi che orizzontalmente possono favorire lo sviluppo dei prodotti e dei servizi, agendo sulle infrastrutture delle reti e dei servizi oltre che sull’usabilità dei servizi e sulle competenze digitali, ma che da soli non possono sostenere e stimolare più di tanto la crescita economica italiana (e non a caso nel documento non sono presenti indicatori di crescita).
Anche lì dove sono stati definiti interventi specifici per le imprese, al di fuori della “Strategia per la crescita digitale”, l’approccio scelto è stato sempre di tipo orizzontale e finalizzato a favorire fenomeni innovativi, quando già esistenti, ma non a “coltivarli”. Si pensi, ad esempio, alle misure di sostegno per le Pmi innovative, alle quali sono stati estesi i benefici e le semplificazioni prima riservate solo alle start-up innovative: queste partono, di fatto, dal presupposto che le Pmi diventino innovative “a prescindere” dalle misure, e solo a quel punto trovino supporto. Il risultato dei primi mesi non è confortante: solo 22 imprese si sono finora iscritte al registro delle Pmi innovative (da marzo al 27 luglio).
Politica industriale e innovazione
Non abbiamo qui lo spazio per una trattazione approfondita, ma la convinzione di chi scrive, basata su studi di diversa provenienza, su confronti con altri Paesi, e soprattutto sullo stato dell’economia nazionale, è che non sia possibile avere successo su una strategia di crescita senza una chiara politica industriale. Senza, cioè, che sia definito “l’insieme strutturato di interventi (policy, programmi e strumenti) deciso e organizzato dal soggetto pubblico, finalizzato ad influenzare il sistema industriale secondo direzioni, tempi ed entità diversi da quanto sarebbe avvenuto in assenza degli interventi stessi, per perseguire finalità di carattere micro e macro-economico e sociale”.
A parte gli sforzi necessari per creare le condizioni per l’innovazione e la crescita (infrastrutture, essenzialmente, come sopra elencate, materiali e immateriali) e per eliminare o ridurre le condizioni frenanti (burocrazia, corruzione, illegalità diffusa, familismo, evasione fiscale, eccessiva pressione fiscale,…), la focalizzazione di energie e investimenti su certi settori industriali è essenziale per poter conseguire risultati concreti e misurabili. E questo soprattutto in un mondo globalizzato dove la differenziazione e l’eccellenza sono elementi chiave per la crescita e lo sviluppo di un Paese come il nostro, che continua a mantenere e coltivare eccellenze assolute su diversi settori, allo stesso tempo però progressivamente perdendo la capacità di metterle a sistema.
In questo contesto, la scelta di non scegliere, e quindi di non definire chiaramente una strategia industriale, credo sia impossibile da sostenere, perché suicida (parafrasando Lord Heseltine potremmo dire: se non scegliamo i settori strategici su cui investire, l’alternativa è di scegliere quelli da far fallire?). E quindi la domanda utile è con che approccio farlo, e quali indirizzi seguire.
Un tema non solo italiano. Prima di tutto europeo
Certamente il tema si pone innanzitutto a livello di politica industriale europea, poiché alcuni indirizzi sono lì necessari per una focalizzazione degli investimenti e quindi per permettere la concretizzazione di risultati collettivi, sulla base della convergenza degli sforzi dei diversi Stati. Il “piano Junker”, un grande piano d’investimenti pubblici a livello europeo, non può aver successo se non vengono definiti chiaramente gli indirizzi di sviluppo. Ma definire gli indirizzi significa perseguire una visione d’Europa, e di qui far discendere delle proposte e delle priorità.
Una proposta è, ad esempio, di “favorire le attività caratterizzate da forti processi di apprendimento, da un rapido cambiamento tecnologico, da un miglioramento delle condizioni economiche, sociali e ambientali”. Con tre aree prioritarie: ambiente ed energia, Ict, salute e welfare.
Alcune proposte per l’Italia
Passando dal livello europeo a quello nazionale, sono state presentate diverse proposte da parte di esperti e studiosi che premono perché l’Italia si doti oggi di una politica industriale, che vanno dal superamento della prevalenza della finanza e dalla focalizzazione sulle condizioni di crescita e aggregazione delle imprese, all’identificazione di alcune priorità da perseguire, che ad esempio lo studio condotto da Ambrosetti a marzo 2015 identificava in
- “Difendere i settori industriali strategici per il Paese;
- integrare industria e servizi e tutelare le filiere industriali;
- mantenere la leadership nell’alto di gamma e allargarsi alla classe media emergente nel mondo;
- portare le tecnologie di frontiera all’interno dei settori tradizionali dell’industria e valorizzare le PMI innovatrici”
con alcune importanti proposte legate alla strategicità del settore Ict, combinato con l’industria tradizionale, all’evoluzione del manifatturiero rispetto alla concorrenza tedesca, ma anche con alcuni punti da approfondire, come quello dell’individuazione dei settori strategici sui quali puntare, sui quali misurarsi e quindi “difendere” (sapendo che stiamo arretrando in modo pericoloso).
Quale percorso
Un approccio che, similmente a quanto già presente nei grandi Paesi europei come Francia, Germania, Regno Unito (ma non solo), dia al settore pubblico un ruolo primario di indirizzo della “direzione della crescita”, per sostenerla, favorirla, misurarla, assicurarla, sulla base di una visione di Paese che non solo si disegna come progetto comune e condiviso, ma di cui si programma la realizzazione.
Il percorso seguito dal Regno Unito può essere da riferimento, soprattutto lì dove si sottolinea l’importanza di un’analisi approfondita per la scelta dei settori strategici e di una misurazione sistematica dei risultati ottenuti, avendo cura di studiare e comprendere le possibili buone pratiche degli altri Paesi.
D’altra parte, come nei Paesi Bassi, solo la scelta dei (lì dieci) “settori top”, strategici, può consentire di investire in modo strutturato partendo dalla costruzione di ecosistemi di innovazione verticali ed efficaci.
E quindi seguire la linea dello “Stato imprenditore” delineata da Mariana Mazzucato (Stato innovatore, nella versione italiana) è di fatto la prassi che ha portato non solo i Paesi europei, ma anche gli Usa, ad esempio, a realizzare interventi diretti per difendere dei settori strategici o sostenerne altri per i quali era necessario un significativo sviluppo delle tecnologie di base.
È questo, pertanto, l’auspicio per i prossimi mesi: si definisca una politica industriale che consenta di realizzare nella produzione e nei servizi quel salto di qualità che ci si aspetta nei servizi pubblici da programmi ambiziosi come Italia Login. Una politica industriale da cui partire per la realizzazione di ecosistemi innovativi, su cui costruire la convergenza e la co-progettazione dei diversi soggetti pubblici e privati in ambito di programmazione strutturale europea e di ricerca, per una focalizzazione a tutto tondo che indirizzi anche lo sviluppo delle competenze e delle professionalità che richiede il percorso verso l’eccellenza nei settori strategici. Scegliendo di scegliere.