La familiarità crescente con i servizi online da parte di oltre metà della popolazione maggiorenne, l’espansione quantitativa e qualitativa della banda larga, la diffusione continua e costante degli smartphone, il miglioramento dell’offerta da parte dei venditori e la maggior efficienza del sistema di trasporto e consegna dei prodotti acquistati in Rete sono i fattori che stanno favorendo la crescita del settore delle vendite online. In un contesto mondiale che cresce quest’anno di oltre il 20% per avvicinarsi ai 2 miliardi di dollari e con la Cina che confermerà la leadership del mercato rappresentando una grande opportunità per l’export italiano.
Nonostante questi forti segnali positivi, l’e-commerce rimane un canale secondario se paragonato al retailing tradizionale. Il raddoppio della penetrazione delle vendite online sul totale retail previsto per i prossimi anni porterà infatti l’e-commerce a raggiungere la quota del 15% circa nel 2020. E secondo un recente rapporto Istat, la quota di imprese che vendono online si attesta infatti appena al 12,5%, in aumento di appena un punto e mezzo percentuale da un anno fa. Pesa molto il ruolo degli intermediari: il 30% delle imprese che ha venduto via web ha realizzato almeno tre quarti del fatturato web tramite siti o app di intermediari.
Il vero fattore dirompente nei prossimi anni non sarà perciò esclusivamente legato all’e-commerce ma riguarderà tutte le innovazioni che il digitale sarà in grado di apportare al retailing tradizionale. Tralasciando le visioni miopi legate agli approcci multicanale, la vera strategia di sviluppo da percorrere sarà legata all’omnicanalità, in una logica armonica e coerente che abbracci tutti i device e tutti i canali che ruotano attorno al retail e alla relazione con il cliente, sia essa BTB o BTC. Le aziende saranno dunque chiamate in maniera sempre più marcate a seguire un percorso evolutivo: da un lato per soddisfare i nuovi comportamenti e i nuovi bisogni dei consumatori; dall’altro per sviluppare un sistema d’offerta attrattivo e di valore.
Lasciando la prospettiva della domanda per guardare all’offerta, lo scenario competitivo sia nel mercato e-commerce che, più in generale, in quello del retail sta vivendo il rafforzarsi della competizione. In ogni settore nascono nuovi attori e attuali player assumono nuovi ruoli, generando un forte stravolgimento di tutta la filiera. I marketplace rivestono un ruolo sempre più centrale, comprovato dai risultati economici raggiunti in tutti i mercati geografici e settoriali.
Il panorama italiano sta sicuramente recependo questi trend mondiali, sia per quanto riguarda l’evoluzione dei consumatori che rispetto alla trasformazione delle imprese e dello scenario competitivo. Ogni industry sta tuttavia reagendo in maniera diversa a questi stimoli di cambiamento. Pensiamo alla filiera agroalimentare: se le nicchie di mercato hanno trovato un loro canale, con formule quasi consolidate e dove la spinta innovativa del retail sta già iniziando a produrre effetti sulla filiera a monte (come per il wine, dove i canali online raccolgono e supportano la miriade di micro produttori locali), la GDO è ancora in fase di sperimentazione, alla ricerca di un modello di servizio che sia economicamente sostenibile e al contempo in linea con le esigenze del consumatore. Pensiamo poi al fashion: un settore avanzato nella sua innovazione esperienziale e nella relazione con il consumatore, dove perfino la reverse logistics è stata trasformata in un’opportunità per generare valore verso il consumatore. Se guardiamo all’elettronica di consumo invece, uno dei temi più critici è connesso allo scenario regolamentare: il ritiro dei rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (RAEE) è infatti un obbligo di legge, ad oggi osservato solo da poche realtà. Venendo poi a uno dei settori più “storici” del contesto digitale, il turismo, è evidente il fenomeno di concentrazione delle grandi piattaforme internazionali, associato al proliferare di interessanti start-up; per quanto riguarda il consumatore invece, emerge la necessità di avere esperienze di viaggio frictionless che leghino la progettazione e prenotazione del viaggio con l’esperienza vera e propria vissuta dal turista.
Alla luce di questo scenario caratterizzato da continue evoluzioni nelle tecnologie, nei comportamenti di consumo e nelle logiche competitive, come possono le imprese rimanere al passo? Le parole chiave sono probabilmente analisi e flessibilità. L’analisi riguarda l’utilizzo di infrastrutture tecnologiche in grado di raccogliere dati puntuali e rilevanti, da analizzare tramite sistemi predittivi e di machine learning: la sfida legata ai big data infatti non riguarda solo la mera raccolta di data, ma soprattutto l’individuazione dei KPI e l’utilizzo di sistemi di analisi in grado prevedere fenomeni futuri, anche grazie ad algoritmi di auto-apprendimento. Solo un’analisi puntuale di tutti gli elementi di business, dai touch point nel customer journey alle performance logistiche, può portare a una costante evoluzione dell’impresa guidata da evidenze solide e puntuali. Il secondo concetto cardine, quello della flessibilità, diventa perciò conseguenza del primo: essere flessibili è una condizione necessaria per perseguire i miglioramenti dettati dall’analisi degli insight interni al business e dai fattori esterni all’azienda. Flessibilità che va a toccare sia elementi hard che soft. Il digitale stimola la riprogettazione dei processi interni e degli elementi chiave su cui si fonda un business; basti pensare alle aziende che da BTB iniziano a rivolgersi direttamente al consumatore finale, dovendo sviluppare nuove logiche di marketing, ridisegnando i processi logistici per l’evasione degli ordini e per la gestione del magazzino, fino ad arrivare all’adozione di nuovi sistemi di pagamento ed amministrativi. Questi aspetti hard devono coniugarsi in maniera sinergica con lo sviluppo di una nuova forma di cultura e di nuove competenze: adottare una logica di continua sperimentazione innovativa, con spirito autocritico per rimettere in discussione il presente e disegnare il futuro, sapendo di dover ogni giorno sviluppare nuove conoscenze e capacità. Un approccio decisamente sfidante, ma necessario per navigare in questo contesto fluido e cavalcare a pieno la retail revolution.
Nel nuovo contesto digitale la competizione delle imprese si sposta sulla guerra dei talenti. Le imprese devono reinventare se stesse e non ci potrà essere una trasformazione digitale di successo senza le persone giuste. Ciò che farà la differenza tra vincitori e perdenti è la capacità di identificare, reclutare e trattenere i talenti digitali che sanno fare funzionare le tecnologie e sfruttarle per lo sviluppo del business.
Come sappiamo le tecnologie saranno evolutive e sarà relativamente facile accedervi, ma i professionisti in grado di usarle saranno scarsi. Di fatto, ci sarà una grave carenza di talenti digitali in tutto il mondo entro il 2020, quando, secondo uno studio di Gartner, il 30% dei posti di lavoro tecnologici non sarà coperto a causa di mancanze di risorse qualificate disponibili. La competitività delle aziende e dei paesi è legato al patrimonio delle competenze che hanno saputo costruire e vi è una domanda talmente elevata di questi profili professionali che molte grandi aziende si ingegnano a trovare nuovi modi per attrarle. Le statistiche, però, continuano a mettere in evidenza una fortissima disoccupazione giovanile che per l’Italia è diventato un forte elemento di criticità per il suo sviluppo futuro e la domanda che ci facciamo tutti e come invertire la rotta.
Continuiamo a sentire e vedere ricette tra di loro discordanti e accuse reciproche di colpe attribuite ai diversi interventi legislativi sulla fiscalità, sugli incentivi e sul lavoro. Da un lato abbiamo la popolazione giovanile dei Neet, giovani senza impiego e che non lo cercano ma che nel contempo non frequentano alcuna scuola di formazione, e dall’altro le imprese che devono rinnovarsi anche tecnologicamente per competere su mercati sempre più evoluti e globali e che non sono in grado di trovare le risorse adeguate sul mercato.
Infatti gli indicatori economici ci dicono che la produttività del sistema industriale italiano ha continuato a declinare sempre più rapidamente rispetto agli altri paesi industrializzati man mano che la tecnologia e l’innovazione avanzavano.
È ormai dimostrato che vi è una stretta correlazione tra incremento del PIL di un paese e la capacità delle sue imprese di investire in tecnologia ed innovazione. Questo ritardo è già visibile e misurabile in molti settori. Ad esempio nel commercio elettronico vi sono in Italia solo circa 40 mila imprese che sono predisposte alla vendita online mentre in Francia sono circa 200 mila e in tutta Europa abbiamo superato il milione di imprese. Questa distanza che ci separa dall’Europa ha prodotto purtroppo delle conseguenze rilevanti. Nel 2017 si prevede un saldo negativo della bilancia commerciale online per più di 2,7 miliardi di euro.
Siamo ormai entrati in modo irreversibile nell’era dell’Intelligenza Artificiale e dei Big Data, risorse considerate dagli economisti beni patrimoniali al pari delle valute, dell’oro e del petrolio, la cui creazione necessita di figure professionali praticamente inesistenti, salvo qualche eccezione, nel panorama italiano. Oggi l’Italia è quart’ultima in Europa nell’uso di internet, nell’accesso ai servizi pubblici digitali e, cosa ancora più preoccupante, nella disponibilità di competenze digitali. La mancanza di risorse riguarda tutte le figure professionali dai data scientist, cibersecurity, IOT, ai profili necessari per sviluppare applicazioni mobili, networking e commercio elettronico.
Il programma Calenda di agevolazioni per l’industria 4.0 ha sicuramente portato molte imprese ad anticipare investimenti sui processi produttivi, incorporando tecnologie avanzate dall’ Internet delle Cose, Big Data, Cloud, automazione avanzata e stampa 3D per lo smart manufactoring, dallo sviluppo prodotti alla logistica ma ha completamente dimenticato una componente fondamentale del nuovo contesto competitivo.
Infatti le nuove tecnologie non hanno solo portato benefici ai processi produttivi ma hanno rimesso in discussione gran parte dei modelli di business con nuove opportunità ma anche con enormi rischi competitivi per quelle aziende che non saranno in grado di attrezzarsi con le competenze adeguate.