Il Covid ha trasformato le vite di tutti noi e probabilmente continuerà a farlo ancora a lungo. Oltre agli effetti sociali, culturali e psicologici, la pandemia sta provocando anche un profondo mutamento dell’economia e del mondo del lavoro.
Smart working nella PA? Ecco perché può diventare norma, non eccezione
Effetti permanenti e transitori della pandemia sull’economia
I fenomeni più evidenti sono la diffusione dello smart working e l’esplosione della logistica anche nel settore dei consumi. Tuttavia il rischio di contagi e della conseguente interruzione dei processi produttivi ha anche accelerato la robotizzazione e l’uso di tecnologie basate sull’intelligenza artificiale.
Quest’ultimo fenomeno avrà conseguenze permanenti sulla struttura dell’economia, perché gli ingenti investimenti nelle nuove tecnologie, una volta effettuati, non potranno essere dismessi facilmente.
Al contrario, il lavoro a distanza sta già mostrando segni di regresso. Uno studio di Bloomberg su dati OCSE mostra che, dopo una esplosione dello smart working durante la pandemia (fino al 79% dei lavoratori nel settore della conoscenza, che tuttavia partivano già da una quota vicina al 40%), la quota dei dipendenti che sta tonando sui luoghi di lavoro tradizionali sta aumentando, con la sola eccezione della manifattura, dove il lavoro da casa riguardava comunque una minoranza dei lavoratori (10% prima della pandemia e meno di un quarto oggi).
Se si può ritenere che fabbriche e uffici resteranno a lungo l’asse portante della struttura produttiva, lo stesso non può dirsi per le tecnologie che, dopo ogni precedente epidemia hanno sempre guadagnato spazio.
Non tutte le pandemie sono uguali. I diversi impatti sull’economia della peste del ‘300 e quella del ‘600
È la prima volta da almeno un secolo che l’umanità non fronteggiava una catastrofe sanitaria di queste proporzioni. La “spagnola”, scoppiata alla fine della prima guerra mondiale, fece più vittime del Covid (tra 50 e 100 milioni di persone), ma durò meno ed i suoi effetti economici si sovrapposero a quelli di una guerra devastante. L’ebola e altre varianti letali dell’influenza (SARS e MERS) hanno interessato aree relativamente ristrette e poste alla periferia dell’economia globale.
Umanesimo e Rinascimento dopo la peste della metà del ‘300
Per ritrovare qualcosa di paragonabile al Covid bisogna forse tornare indietro alla peste della metà del ‘300, quella raccontata dal Boccaccio, che ridusse di un terzo (secondo altri del 60%) la popolazione europea e produsse trasformazioni economiche epocali.
Guido Alfani ha recentemente analizzato le conseguenze economiche della peste nera, evidenziando come la carenza di manodopera determinò (o forse anticipò soltanto) la fine dell’economia basata sui servi della gleba e, più in generale, rese impraticabili le tecnologie troppo labour intensive. Ciò produsse una riorganizzazione della produzione agraria, l’introduzione delle primissime macchine nella manifattura e soprattutto favorì l’aumento dei salari reali, contribuendo alla riduzione delle disuguaglianze. Ma a quei tempi la sostituibilità tra uomini e macchine era praticamente trascurabile; al massimo si potevano impiegare utensili più efficienti e più animali da lavoro per sostituire gli umani.
Il declino italiano dopo la peste del ‘600
Già la successiva ondata di pestilenze a metà del ‘600, quella del Manzoni, pur riducendo di un terzo la popolazione europea, non produsse alcun aumento dei salari né a una riduzione delle disuguaglianze, ma solo forti squilibri tra le diverse aree che, tra l’altro, finirono per danneggiare irrimediabilmente l’economia italiana.
Nel ‘600, infatti, si stavano già diffondendo tecniche in grado di sopperire alla carenza di manodopera, come macchine tessili più evolute, alcuni attrezzi per la lavorazione dei metalli, le coltivazioni intensive eccetera. Ma soprattutto nel ‘600 era partita la globalizzazione, che consentiva di approvvigionarsi di merci provenienti dalle colonie, spesso prodotte con l’ausilio di schiavi, che spiazzavano le produzioni interne e riducevano il fabbisogno di manodopera europea.
Gli effetti economici del Covid
È probabile che gli effetti economici del Covid saranno diversi da quelli di entrambe le maggiori pestilenze. In primo luogo, il numero di vittime è molto inferiore a quello dei secoli precedenti (e perfino dell’epidemia di “spagnola”) ed è concentrata tra gli anziani, quindi i riflessi sull’offerta di lavoro sono trascurabili.
In secondo luogo, il Covid ha frenato gli scambi di merci ed i viaggi internazionali (con un crollo di tutta la filiera del turismo) a causa dei controlli sanitari. Infine la caduta dei livelli produttivi, nonostante i lockdown, è stata tutto sommata modesta, tenuto conto anche della durata della pandemia. Il FMI valuta, infatti, che il Pil mondiale sia caduto solo del 3,3% tra il 2019 e il 2020 e che questa caduta sia stata già abbondantemente recuperata già nel corso di quest’anno.
Le conseguenze peggiori si sono registrate nell’area dell’euro (-6.5%, con un recupero completo del Pil ritardato al 2022) e nell’America latina (-7.1% ed un recupero posticipato al 2023). A titolo di confronto, la crisi del 2007-2008 produsse una caduta del Pil nell’area dell’euro pari al 4.5% che è stata annullata solo sette anni dopo, anche a causa della coda della crisi dei debiti sovrani nel 2011-13. Uno storico del futuro sarà dunque portato a ritenere che, almeno in Europa, il Covid abbia avuto conseguenze sull’economia paragonabili a quelle di una bolla finanziaria e molto meno durature.
Ma la vera novità di questa pandemia è l’accelerazione di una tendenza già in atto negli anni precedenti, ossia la sostituzione della manodopera con macchine “intelligenti” [1].
La pandemia accelera il processo di robotizzazione
Le macchine, infatti, non sono attaccate dai virus umani (anche se sono molto vulnerabili da quelli informatici) e quindi garantiscono elevati standard di sicurezza sanitaria e la continuità delle attività produttive anche in casi di emergenza. Inoltre, a differenza dei lavoratori in carne ed ossa, una macchina con AI può essere riconvertita molto velocemente per produrre i beni e servizi che il mercato richiede in un particolare momento. Non a caso, una nota industria automobilistica olandese con qualche stabilimento in Italia ha cominciato a produrre mascherine chirurgiche (seppure di qualità discutibile). Infine i robot non scioperano, se non in un racconto del 1959 dello scrittore Harry Harrison.
Forse la differenza più importante tra una macchina e un uomo è che un lavoratore può essere licenziato abbastanza facilmente (ultimamente anche con un messaggio sul cellulare), mentre una macchina complessa, una volta istallata, non può essere dismessa se non sopportando perdite rilevanti.
Inoltre, quando si verifica un “esubero” di manodopera si trova sempre uno governo disposto ad erogare sussidi e incentivi per salvare il suo posto di lavoro, invece se una macchina rimane inattiva le banche che ne hanno finanziato l’acquisto sono molto meno comprensive. Probabilmente, in tempi normali, questo aspetto ha frenato l’introduzione di macchine con AI molto più delle resistenze culturali e politiche. Tuttavia la pandemia e generosi incentivi pubblici per gli investimenti in innovazione hanno fatto saltare anche queste remore ed oggi il processo di robotizzazione sembra ormai irreversibile in tutto il mondo.
Il ruolo delle discontinuità in economia
Questi “salti” tecnologici e organizzativi non sono una novità in economia. Se i filosofi ritenevano che la natura non fa salti, almeno prima della scoperta degli atomi e della rivoluzione quantistica, gli
economisti si sono rasseganti almeno dagli anni ‘70 a tener conto delle discontinuità che caratterizzano le decisioni degli agenti economici.
Se c’è incertezza sul futuro, infatti, chiunque tende a rimandare le decisioni fino a quando non ha le idee più chiare e finisce per concentrare in un particolare momento le scelte rinviate in passato. Nel frattempo preferisce subire delle perdite per le sue esitazioni, almeno fino a quando queste non superano una certa soglia.
Ciò vale soprattutto per le decisioni importanti, come gli investimenti, che impegnano ingenti risorse per diversi anni o sono addirittura irrevocabili. Il Covid è stato il detonatore che ha spazzato molte esitazioni, convincendo gli imprenditori e perfino i governi a ricorrere a strumenti come lo smart working e la robotizzazione che erano disponibili da tempo. A loro volta, molti consumatori si sono rasseganti ad acquistare online, superando i timori sull’affidabilità di venditori che non hanno una sede fisica e di mezzi di pagamento soggetti a truffe ed errori.
Da eroi a disoccupati, il passo è breve
Sugli effetti delle nuove tecnologie si è scritto molto, e solo i più ottimisti negano che esse non produrranno maggiore disoccupazione, ma solo la sostituzione di vecchi lavori con nuove professioni, molte delle quali ancora difficili da immaginare. Tuttavia il Covid ha introdotto un ulteriore elemento di
incertezza sul mondo del lavoro. Il lockdown, la paura del contagio e la stessa emergenza sanitaria hanno creato molti posti di lavoro, particolarmente nella logistica e nel settore farmaceutico e dell’assistenza.
Con la fine dell’emergenza (che si spera prossima) molte di queste mansioni risulteranno ridondanti e, come ha dichiarato recentemente un sindacalista americano, Marc Perrone, al NYT, oggi molti di quelli che sei mesi fa erano considerati eroi oggi sono lavoratori di cui non si sa come liberarsi.
Migliaia di fattorini, riders, trasportatori, personale medico e addetti alla produzione di medicinali, disinfettanti e mascherine vedranno presto ridurre le occasioni di lavoro, con conseguenze sociali imprevedibili.
Potrebbero essere loro le prime vittime della trasformazione tecnologica e organizzativa indotta dal Covid. Infatti è improbabile che la ripresa dell’economia sia così vivace da riassorbire questo personale nei settori che si stanno riprendendo più rapidamente, come la filiera del turismo e del tempo libero. Le vittime della robotizzazione individuate da tempo nella letteratura economica (ossia coloro che svolgono mansioni ripetitive, intermedie e a bassa specializzazione) probabilmente arriveranno solo nei prossimi anni.
Conclusioni
Il problema della disoccupazione tecnologica non è nuovo. Per esempio Svetonio, nelle sue Vite dei Cesari, per esaltare la saggezza dell’imperatore Vespasiano, oggi noto soprattutto per la sua creatività fiscale, narra di un architetto che gli presentò un macchinario che consentiva di spostare grandi carichi senza troppo sforzo. L’imperatore lo compensò con una somma ragguardevole, ma ordinò di non realizzare il suo progetto perché avrebbe tolto il pane a troppa gente [2]. Forse Vespasiano avrà esagerato e, se avesse utilizzato quel macchinario, avrebbe potuto realizzare opere meravigliose, tuttavia i governanti di oggi farebbero bene a non confidare troppo nella capacità dell’economia e della tecnologia di garantire lavoro per tutti.
Note
- Agenda Digitale si è già occupata più volte di questo argomento:
in “Disoccupati ai tempi dei robot, quali politiche per evitare il disastro“;
in “Come sopravvivere all’automazione con il lavoro e l’anima intatti“;
in “Intelligenza artificiale e occupazione, intervenire ora per evitare nuovi squilibri“. ↑ - “Mechanico quoque, grandis columnas exigua impensa perducturum in Capitolium pollicenti, praemium pro commento non mediocre optulit, operam remisit, praefatus sineret se plebiculam pascere” (Svetonio, “Vite dei Cesari”, vol. VIII, cap. 18).
Traduzione: “A un ingegnere che gli prospettava di trasportare in Campidoglio enormi colonne con poca spesa egli offrì una somma non indifferente per la sua invenzione, ma rifiutò di utilizzarla, dicendogli di lasciare che la gente comune trovasse sostentamento”. ↑