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Egosurfing: come e perché controlliamo la nostra immagine digitale



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L’egosurfing rappresenta una pratica di auto-monitoraggio online che riflette le dinamiche identitarie nell’era digitale. Questo fenomeno influenza la costruzione del sé, con implicazioni psicologiche e sociologiche nella società contemporanea iperconnessa

Pubblicato il 16 apr 2025

Marino D'Amore

Docente di Sociologia generale presso Università degli Studi Niccolò Cusano



egosurfing

La Rete e un mondo always networked hanno creato nuovi paradigmi nella costruzione dell’identità personale. Tra i comportamenti che emergono da questa nuova realtà, uno dei più interessanti è l’egosurfing, che consiste nella ricerca del proprio nome sui motori di ricerca per monitorare la propria presenza online, la propria esistenza digitale. Questo comportamento, seppur apparentemente innocuo, nasconde molteplici dimensioni, sociologiche e psicologiche, legate alla gestione della propria immagine pubblica e alla relazione tra l’individuo e le sfere sociale e mediatica.

Il fenomeno dell’egosurfing si inserisce in una riflessione più ampia sul modo in cui la società moderna è organizzata in relazione alle tecnologie digitali, in particolare alla centralità di internet nella vita quotidiana. Il concetto di identità online non è solo un’estensione del sé fisico, ma una costruzione socialmente negoziata che può essere modellata, gestita e sorvegliata attraverso la rete.

L’egosurfing diventa, quindi, una pratica che rivela come gli individui non solo si relazionano con la propria immagine digitale, ma anche con la percezione che altri hanno di loro attraverso la lente dei motori di ricerca e dei social media. Questo articolo esplorerà, attraverso una prospettiva sociologica, le dinamiche di questa pratica, le sue implicazioni psicologiche, e le conseguenze culturali nel contesto odierno.

L‘egosurfing come forma di auto-sorveglianza digitale

L’egosurfing può essere considerato una forma di “auto-sorveglianza”, dove l’individuo diventa consapevole e responsabile della propria visibilità online. La pratica si inserisce in un più ampio fenomeno di costruzione dell’identità digitale, come detto, che è definita dalla somma di tutte le informazioni disponibili su un individuo attraverso internet. Questa nuova dimensione identitaria ha creato una frattura tra l’identità “fisica” e quella “digitale”, dove quest’ultima è facilmente accessibile e modificabile in ogni momento.

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Come scrive Foucault[1], l’auto-sorveglianza è una modalità di controllo dell’individuo che si traduce in un comportamento disciplinato e orientato verso l’autocontrollo. In un’era in cui il concetto di privacy è continuamente messo in discussione, l’egosurfing permette a ciascuno di monitorare la propria “presenza” digitale e verificare la coerenza della propria immagine pubblica con i valori sociali a cui si aderisce e con cui si rappresenta. Questo controllo, però, non è solo un’operazione cognitiva, ma si articola anche in pratiche concrete, come la rimozione di contenuti indesiderati o la modifica di profili online, con l’obiettivo di mantenere un’immagine positiva[2].

L’interazione tra identità e rappresentazione digitale è uno degli aspetti più studiati dalla sociologia dei media. Secondo Goffman[3], l’individuo nella vita quotidiana è costantemente impegnato nella gestione delle proprie “impressioni” nei confronti degli altri. Nel contesto digitale, questa gestione avviene attraverso la selezione e la presentazione dei contenuti che vengono pubblicati. L’egosurfing, quindi, è una forma di “controllo esterno” che permette agli individui di proteggere la loro immagine pubblica, garantendo che ciò che viene trovato su di loro online sia allineato alle loro aspettative e desideri.

Le motivazioni psicologiche dietro l’egosurfing

La spinta che induce una persona a praticare l’egosurfing è spesso legata al desiderio di conferma, alla ricerca di approvazione sociale, di gratificazione e alla volontà di mantenere o migliorare l’autostima. La psicologia contemporanea ha ampiamente esplorato i meccanismi di conferma sociale, che in un mondo digitale si manifestano sotto forma di like, commenti e condivisioni sui social media. L’egosurfing diventa quindi un comportamento rituale, volto a ottenere una conferma esterna sulla propria visibilità e il proprio valore.

Rosen[4] afferma che, con l’avvento dei social media, la dipendenza da approvazione sociale ha assunto una dimensione patologica. Le persone, in questo contesto, sono costantemente impegnate a verificare quanto la loro immagine online sia apprezzata dagli altri, a tal punto che l’auto-concetto, e la conseguente autorappresentazione, può essere influenzato direttamente dal numero di interazioni digitali ricevute. L’egosurfing, come comportamento di monitoraggio, diventa quindi un tentativo di raccogliere feedback immediati sulla propria identità, con un potenziale impatto sulle emozioni e sul benessere psicologico dell’individuo.

Inoltre, un altro aspetto psicologico legato all’egosurfing è la curiosità. L’individuo potrebbe sentirsi spinto dalla necessità di sapere cosa gli altri pensano di lui o cosa si dice su di lui, sia a livello personale che professionale. La psicologia sociale ha evidenziato come la curiosità riguardo la percezione pubblica sia un meccanismo naturale di adattamento, utile per navigare nella complessità delle relazioni sociali.

Le implicazioni sociologiche dell’egosurfing

Dal punto di vista sociologico, l’egosurfing riflette i cambiamenti nei modelli di socializzazione e di visibilità che caratterizzano la società contemporanea. In un mondo sempre più mediato da tecnologie digitali, la costruzione dell’identità sociale avviene non solo nelle interazioni face to face, ma anche attraverso la presenza e la percezione che gli altri hanno di noi in Rete. Le piattaforme digitali come Facebook, Instagram, Tik Tok e LinkedIn non solo fungono da luoghi di socializzazione, ma da veri e propri “palcoscenici” dove le persone si esibiscono, mostrando selettivamente determinati contents, aspetti di sé per ottenere approvazione.

Il sociologo Zygmunt Bauman (2000) ha parlato di “società liquida”, in cui le certezze legate alle tradizionali strutture sociali sono scomparse, lasciando spazio a un continuo cambiamento che si palesa anche nella fluidità delle relazioni. L’egosurfing si inserisce in questo contesto come un comportamento che riflette l’incertezza e il desiderio di stabilire una “presenza stabile” in un ambiente che è sottoposto all’incertezza del cambiamento sopracitato. Monitorare la propria immagine online diventa una necessità per mantenere il controllo su un’identità che rischia di sfuggire, soprattutto se si considera l’instabilità delle informazioni che circolano sulla rete.

Le implicazioni dell’egosurfing non si limitano al piano individuale, ma toccano anche la sfera sociale. L’egosurfing può contribuire alla creazione di una società della visibilità, dove il valore di un individuo è legato alla sua capacità di mostrarsi agli altri[5]. L’identità digitale diventa un capitale sociale, che può influenzare opportunità lavorative, legami interpersonali e accesso a risorse. Di conseguenza, l’egosurfing non è solo un comportamento di ricerca personale, ma anche una strategia di gestione sociale, che può avere effetti diretti sulla posizione di un individuo all’interno della società.

La visibilità e il rischio della sovraesposizione

Una delle problematiche legate all’egosurfing è il rischio della sovraesposizione. Se da un lato monitorare la propria immagine online può contribuire a mantenerla sotto controllo, dall’altro lato può indurre una continua ricerca di visibilità che porta alla condivisione eccessiva di dettagli personali. La paura di non essere visibili o di non essere “rilevanti” può spingere gli individui a una sorta di esasperato esibizionismo digitale, alimentato dalla continua ricerca di approvazione e dal timore di essere ignorati.

La sovraesposizione, inoltre, può comportare anche rischi psicologici che sfociano in forme di somatizzazione fisica come l’ansia o la depressione. L’individuo, confrontandosi costantemente con la propria immagine digitale, può sviluppare un senso di insoddisfazione se percepisce che la sua rappresentazione non corrisponde ai propri desideri o alle aspettative sociali. In alcuni casi, l’egosurfing può diventare una “dipendenza”, con effetti deleteri sulla salute mentale, come sottolineato da Sherrie Turkle[6].

Egosurfing: tra rischi e opportunità di empowerment

Nonostante i rischi sopra menzionati, l’egosurfing può anche essere visto come uno strumento di empowerment. In un’epoca in cui la reputazione digitale è fondamentale per la carriera e le relazioni sociali, monitorare la propria presenza online diventa un mezzo per proteggersi da danni che potrebbero inficiarla. Le persone che praticano l’egosurfing possono correggere informazioni errate o rimuovere contenuti che potrebbero danneggiare la loro immagine, aumentando così la loro capacità di controllo sulla propria identità.

In conclusione, l’egosurfing è una pratica che incarna le trasformazioni sociali e psicologiche dell’era digitale. La ricerca del proprio nome sui motori di ricerca riflette non solo il desiderio di visibilità, ma anche il bisogno di controllo, di conferma sociale e di gestione dell’identità. Mentre da un lato l’egosurfing può servire come strumento di empowerment, dall’altro comporta rischi legati alla sovraesposizione e alla gestione della privacy. In una società sempre più mediata dalle tecnologie digitali, il controllo della propria immagine online diventa una necessità inderogabile per garantire la propria posizione sociale e professionale, ma anche una sfida continua per il mantenimento del benessere psicologico e sociale degli individui in un mondo fluido, soggetto a un cambiamento continuo e irreversibile.

Bibliografia e Note

1. Foucault, M. (1975). Surveiller et punir: Naissance de la prison. Gallimard, Parigi.

2. Goffman, E. (1959). The Presentation of Self in Everyday Life. Anchor Books, New York.

3. Rosen, L. D. (2012). The Distracted Mind: Ancient Brains in a High-Tech World. MIT Press, Cambridge.

4. Marwick, A. E. (2013). Status Update: Celebrity, Publicity, and Branding in the Social Media Age. Yale University Press. New Haven.

5. Boyd, D. (2014). It’s Complicated: The Social Lives of Networked Teens. Yale University Press. New Haven.

6. Lister, M., et al. (2009). New Media: A Critical Introduction. Routledge, Londra.

7. Andrejevic, M. (2014). Surveillance in the Digital Enclosure. Routledge. Londra.

8. van Dijck, J. (2013). The Culture of Connectivity: A Critical History of Social Media. Oxford University Press, Oxford.

9. Miller, V. (2011). Understanding Digital Culture. Sage, Londra.

10. Turkle, S. (2011). Alone Together: Why We Expect More from Technology and Less from Each Other. Basic Books, New York.

11. Papacharissi, Z. (2010). A Networked Self: Identity, Community, and Culture on Social Network Sites. Routledge, Londra.

12. Zwitter, A. (2014). Big Data and Privacy in the Digital Age. Routledge, Londra.

13. van Zoonen, L. (2016). The Internet and Social Media: A Critical Introduction, Sage, Londra.

14. Tufekci, Z. (2017). Twitter and Tear Gas: The Power and Fragility of Networked Protest. Yale University Press, New Haven.


[1] Foucault, M. (1975). Surveiller et punir: Naissance de la prison. Gallimard, Parigi.

[2] Zwitter, A. (2014). Big Data and Privacy in the Digital Age. Routledge, Londra.

[3] Goffman, E. (1959). The Presentation of Self in Everyday Life. Anchor Books, New York.

[4] . Rosen, L. D. (2012). The Distracted Mind: Ancient Brains in a High-Tech World. MIT Press, Cambridge.

[5] Andrejevic, M. (2014). Surveillance in the Digital Enclosure. Routledge. Londra.

[6] Turkle, S. (2011). Alone Together: Why We Expect More from Technology and Less from Each Other. Basic Books, New York.

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