democrazia e digitale

Elezioni, i social terra di nessuno? Ecco perché serve una regolamentazione pubblica

Cambridge Analytica potrebbe essere solo un assaggio del potenziale che un impiego massiccio di mezzi e investimenti privati può avere sulla manipolazione dell’opinione pubblica in assenza di regolazioni e regole. Ecco la vera posta in gioco e le prospettive per JUsa, Ue e Italia

Pubblicato il 15 Nov 2019

Matteo Monti

dottore di ricerca in diritto pubblico comparato

web democracy voto

Oggi, dato il ruolo rivestito da Facebook e dalle piattaforme digitali nella democrazia e nel discorso pubblico appare non più rimandabile una forma di regolamentazione pubblica, seria e attenta che non lasci i social e le internet platforms come terra di nessuno e senza regole.

E questo vale a maggior ragione per il momento più delicato del meccanismo democratico, ossia quello delle elezioni.

In particolare, il banco di prova più atteso è quello delle prossime elezioni americane, il prossimo anno in vista delle quali torna con prepotenza al centro della scena il rapporto fra social networks e politica, o meglio regole elettorali.

Lo scontro Zuckerberg-Ocasio Cortez

Nella ormai virale audizione di Zuckerberg al Congresso (si doveva parlare di Libra davanti al Financial Services Committee, ma non è andata così) – al contrario di quanto avvenuto lo scorso anno al Senato – la deputata democratica Ocasio Cortez – più conscia evidentemente del potere dei social rispetto a quanto emergeva dai vaghi quesiti dei senatori – ha bombardato il fondatore di Facebook di domande a raffica quali: sarebbe possibile “pagare per targettizzare principalmente zipcodes neri (afroamericani) e pubblicizzare la data sbagliata delle elezioni?” (la risposta è stata “no”); oppure sarebbe possibile “pagare annunci pubblicitari su Facebook segnalando i repubblicani che concorrono alle primarie, sostenendo che hanno votato per il Green New Deal?” (la risposta è stata “probabilmente”).

Alla domanda della deputata sul fatto che si potrebbe così impostare – pagando – una campagna su messaggi elettorali falsi, Zuckerberg ha risposto illustrando le più classiche dottrine democratiche del discorso pubblico di matrice milliana:

“Nella maggior parte dei casi, in una democrazia, credo che le persone dovrebbero essere in grado di vedere da sé ciò che i politici che potrebbero o meno votare dicono, e giudicare la loro figura”

Questo è un vecchio dogma della democrazia liberale di stampo statunitense, secondo la quale il discorso pubblico è sempre in grado di far emergere la “verità”.

Entrambe le impostazioni muovono da presupposti non sempre condivisibili in tema di discorso pubblico e forse alcune domande della Ocasio Cortez non sono state poste nella prospettiva giusta.

La prospettiva USA:  regole elettorali,  finanziamento delle campagne e Federal Election Commission

Nel sistema giuridico statunitense non esistono molte regole per le campagne elettorali, consentendo più o meno ampie possibilità nell’impiego di denaro e ampio utilizzo di media privati.

Ma le campagne elettorali non sono prive di limiti ordinamentali a tutela di un dibattito pubblico che controbilanci lo strapotere economico o mediale di una delle due parti in lizza (il sistema americano è un bipolarismo di fatto che impedisce l’emergere di ulteriori terzi partiti). E su questa scia, nel 2018, la Federal Election Commission aveva avviato delle audizioni per comprendere come regolare i canali online, per garantire un miglior funzionamento delle campagne elettorali sulle piattaforme digitali.

La FEC ha anche individuato numerose vulnerabilità in relazione alla permeabilità delle piattaforme in relazione a campagne di fake news e disinformazione.

E d’altronde, molti avevano già riscontrato come il mix di nuove tecnologie e fake news avesse “inquinato” il discorso pubblico e le elezioni del 2016 (a latere di molti altri fenomeni), tanto che alcuni all’epoca delle fake news e filter bubbles online hanno sollevato la provocatoria domanda “What If More Speech Is No Longer the Solution?”.

Si tratterebbe e sarebbe, però, una prospettiva inverosimile in un sistema così legato all’idea di un marketplace of ideas libero da controlli e della convinzione che la razionalità dell’uomo porti la “verità” ad emergere nel caos delle idee “false”. Il Primo Emendamento (free speech clause) è basato e interpretato dalla Corte su una teoria della libertà di espressione di stampo individualistico che pone molti limiti ad un’ipotetica azione di regolamentazione del discorso pubblico.

Anche se, nell’ambito delle piattaforme digitali, vi sono stati tentativi della dottrina più attenta di proporre inquadramenti delle Internet platforms volti a una regolazione dello speech circolante sulle stesse, in realtà il cambio di paradigma appare ancora inverosimile. Da questo punto di vista vi sarebbero alcuni strumenti giuridici conformi al Primo emendamento per intervenire sullo strapotere delle Internet platforms e sulla loro influenza sulla democrazia e il discorso pubblico. E in ambito elettorale la FEC non aveva escluso una legge per equiparare le piattaforme a tutti gli altri media.

Dal punto di vista contenutistico, da fonti giornalistiche si apprende anche che il sopravvisto approccio di Zuckerberg alla democrazia avrebbe già trovato le prime applicazioni, quando si è negata la rimozione di una fake news diffusa dal comitato elettorale di Trump.

E per fortuna, si aggiunge. Infatti la censura contenutistica sui politici e i loro comitati è un cavallo di troia della censura in genere e mal si adatta a regimi democratici: ma diversa questione potrebbe dirsi se si trattasse di una notizia di cronaca diffusa come tale da un soggetto qualificatosi come appartenente alla stampa (perlomeno negli ordinamenti europei).

La libertà politica è qualcosa di diverso dalla informazione: e la loro sovrapposizione sembra la più grande pecca delle domande della Ocasio Cortez.

Ma la vera questione, sotto traccia, rimane più che l’ambito delle fake news negli USA, quella delle quantità di denaro investibili in ads targettizzanti e, data la larga presenza di filter bubbles, come mantenere un minimo di par condicio ed impedire che una sempre più larga fetta dell’elettorato rimanga irraggiungibile dai messaggi politici e partitici dell’altro campo, finendo per costruire una polarizzazione forzata.

In questo scenario le preoccupazioni Usa si sono tuttavia concentrate solo sulla propaganda straniera, ignorando il fenomeno domestico.

Qual è la vera posta in gioco

La vera posta in gioco nel momento elettorale è infatti la possibilità di un ampio impiego di fondi per svolgere campagne elettorali sui social e i motori di ricerca che possano completamente oscurare different viewpoints, ingabbiando milioni di cittadini in una narrazione unica più simile a quella di regimi totalitari che di democrazie pluraliste.

Cambridge Analytica (ignorando le pratiche abusive e illegali che sembra aver utilizzato) potrebbe essere solo un assaggio del potenziale che un impiego massiccio di mezzi e investimenti privati può avere in assenza di regolazioni e regole.

Siamo sicuri infatti che “money must talk” – per riprendere un’espressione usata dalla dottrina per descrivere gli ampi spazi lasciati dalla Corte Suprema statunitense all’uso dei fondi privati nelle campagne elettorali – non sia un rischio per la democrazia all’epoca delle piattaforme digitali?

Anche in un ordinamento come quello statunitense esistono limiti all’impiego di risorse nelle campagne elettorali, ma nessuna regolamentazione pubblica appare oggi in vigore per le piattaforme digitali.

Cosa ha intenzione di fare Facebook

Facebook ha intrapreso due principali azioni: garantire maggiore trasparenza in relazione alle sponsorizzazioni, senza tuttavia porre limiti né bilanciamenti all’impiego di risorse (se non quelle straniere), e sviluppare strumenti volti alla protezione da attacchi hacker e alla segnalazione di siti che diffondono fake news.

Il problema di queste soluzioni di autoregolamentazione di Facebook è che in ambiti così delicati come le elezioni non può mancare un controllo pubblico e non può affidarsi solo a soggetti privati il rispetto e lo sviluppo di regole a tutela di una competizione elettorale equa ed equilibrata, nonché coerente con i dispositivi costituzionali e legislativi.

Altro grande tema che non può non tenersi in considerazione è quello della delega e quindi di una privatizzazione della censura che in questo modo si affiderebbe a un ente privato, per di più in un momento delicato come quello elettorale. È opportuno (ed è costituzionalmente legittimo) far decidere a un soggetto privato, senza controlli di natura pubblica, quali messaggi far passare o censurare come fake news su uno dei più importanti fori pubblici presenti nelle attuali democrazie occidentali?

Si tratta di una decisione che non può essere rimessa a un soggetto privato senza controllo da parte di un’autorità pubblica a prescindere dalle garanzie e buone intenzioni dello stesso.

Quali prospettive per l’Italia e l’Europa?

Il sistema europeo risponde a regole molto più ferme in relazione alla disciplina di uno dei momenti più importanti della vita democratica, quale è il momento elettorale (oltre che avere un diverso approccio rispetto al tema fake news), e ha agito in maniera più energica rispetto al tema della regolazione delle piattaforme online.

L’Ue, con il Code of practice on disinformation, ha imposto regole molto attente sia in relazione al political advertising and issue-based advertising, sia in tema di fake news (come diffusione di informazioni e non propaganda politica). Anche se lo strumento del Code of practice non è scevro di problematiche legate alla privatizzazione della censura, la strada sembra essere quella di “marcare stretto” le piattaforme digitali.

Dal punto di vista delle fake news la Francia è andata anche oltre, con la legge 1202/2018, prevedendo un sistema di contrasto alle false notizie che durante le campagne elettorali garantisce una serie di ricorsi al potere giudiziario per la rimozione in 48 delle fake news.

Un sistema che certo non è esente da critiche soprattutto in relazione al carico di casi che potrebbe far gravare sul sistema giudiziario.

In Italia, invece, alla vigilia delle elezioni europee l’Agcom con il documento titolato “Impegni assunti dalle società esercenti le piattaforme on line per garantire la parità di accesso dei soggetti politici alle piattaforme digitali durante la campagna elettorale per le elezioni dei membri del Parlamento europeo spettanti all’Italia – 2019” aveva accertato che le piattaforme digitali si sarebbero impegnate al rispetto, fra il resto, di:

  • Parità di accesso
  • Trasparenza dei messaggi pubblicitari elettorali
  • Servizi e strumenti di fact-checking in periodo elettorale/contrasto dei profili falsi
  • Silenzio elettorale

Non si hanno dati sull’effettivo rispetto di questi impegni, anche se le norme di più facile accertamento sono apparse subito violate, come il silenzio elettorale.

Un intervento di tal tipo ha mostrato dunque fin da subito la sua intrinseca (e prevedibile) debolezza.

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