La diseguaglianza di genere nella scienza costa caro, non solo in termini sociali, ma anche economici. Molti Governi si stanno attrezzando per superarla, ma per tanti altri, Italia inclusa, il tema non sembra centrale nelle agende politiche e si continua a intervenire con iniziative estemporanee che non consentono al Paese di cogliere i vantaggi che un settore della ricerca equo e inclusivo potrebbe produrre, per la società nel suo complesso.
Partiamo da due dati, che rappresentano la vastità e gravità del divario di genere nella scienza. Il primo: nel mondo, nonostante le donne rappresentino il 55% degli studenti universitari e il 44% degli iscritti ai corsi di dottorato, solo il 33-35% degli scienziati sono donne (Science Report 2021, UNESCO).
Il secondo: le donne hanno il 75% di probabilità in più di soffrire per gli effetti collaterali di un medicinale (E. Grigliè, G. Romeo, “Per soli uomini”).
Sebbene apparentemente distanti, entrambi i dati denunciano unanimemente disuguaglianze e iniquità della ricerca scientifica, e unanimemente pretendono energici interventi governativi. Interventi governativi che, dopo decenni di “spinte gentili” tanto delicate quanto inefficaci, stanno iniziando a diventare più incisivi e talvolta forzati – e controversi – come le quote di genere.
Divario di genere, colmarlo usando tecnologie e social: ecco come
D’altronde la necessità c’è, ed è sempre più sentita anche nelle università e negli enti di ricerca, al punto che il settore – soprattutto nelle cosiddette materie STEM – è diventato emblematico delle disuguaglianze di genere, perché processi e gruppi di ricerca non inclusivi faticano a tener conto correttamente di differenze biologiche e socio-culturali, e di conseguenza producono risultati che proiettano le attuali iniquità negli anni futuri, talvolta mettendo addirittura a rischio – come evidenziato dalla medicina di genere – la salute delle donne.
I costi del gender gap
Di questo si è discusso recentemente nel contesto del Foro Ricerca e Innovazione di Regione Lombardia, anche con il contributo di Guido Romeo e Angela Simone e con il sostegno di Fondazione Bassetti, ed è emerso che – tra le altre cose – sempre più spesso, oltre che per ragioni etiche e valoriali, governi e aziende guardano al gender gap nella scienza attraverso la lente economica, prendendo atto dei costi causati dall’inefficiente utilizzo di intelligenze e risorse, e dall’incapacità di rispondere correttamente alla domanda di mercato. Diverse ricerche evidenziano infatti come la riduzione delle disuguaglianze di genere in questo ambito possa soddisfare la crescente domanda globale di professionisti STEM (soprattutto nel settore digitale) e creare, come rivela uno studio dell’Istituto Europeo per l’uguaglianza di genere (EIGE), posti di lavoro e un aumento del prodotto interno lordo fino al 12% entro il 2050.
Tre approcci strategici per una ricerca scientifica equa e inclusiva
Anche per questo, cresce il numero dei governi, soprattutto tra i Paesi G7 e G20, che si stanno adoperando per superare il gender gap nell’ambito della ricerca scientifica. Diversamente da quanto si possa pensare infatti, anche Paesi G7 come Germania e Giappone, nonostante il loro elevato PIL, in questo ambito risultano essere in maggiore difficoltà rispetto a Paesi del Sud America e dell’Africa, ragion per cui già da diversi anni hanno varato interventi volti ad accrescere l’accesso delle donne al mondo della ricerca. Interventi che, se osservati nell’insieme delle politiche G7 per la scienza, fanno emergere tre distinti approcci: “Fix the Numbers”, “Fix the institutions”, “Fix the Knowledge”, suggeriti anche dal progetto Gender Innovations finanziato dall’Unione Europea.
“Fix the Numbers”: più donne che studiano materie STEM
Quanti anni ci serviranno per raggiungere la parità di genere nelle materie tecnico-scientifiche? Una ricerca del 2018 ci dice che servono 280 anni per Computer Science, 258 anni per Fisica, 60 anni per Matematica. Gli interventi che adottano l’approccio “Fix the Numbers” si prefiggono di velocizzare questo processo, e cambiare strutturalmente i numeri che descrivono la partecipazione delle donne alla ricerca, soprattutto nelle materie STEM e con riferimento ai percorsi di formazione.
In questo gruppo rientrano quindi le numerose azioni, pubbliche e private, che negli ultimi anni sono nate con l’obiettivo di aumentare il numero di giovani donne iscritte a facoltà tecnico-scientifiche, obiettivo che si è dimostrato particolarmente complicato soprattutto a causa di pregiudizi e stereotipi radicati nelle istituzioni di formazione, ma ancora di più nelle famiglie e di conseguenza nelle stesse bambine e ragazze. Si parla perciò non solo di dare sostegno alle giovani donne nelle loro scelte di laurea e di carriera, mediante borse di studio ed esperienze che le proiettano oltre i tradizionali percorsi di carriera femminile, ma soprattutto di offrire occasioni per sviluppare maggiore fiducia nelle proprie potenzialità e capacità, e per riconoscere e superare gli stereotipi di genere. Anche per questo motivo, sebbene la maggior parte degli interventi coinvolgano istituzioni scolastiche e università, questi sono spesso animati da un folto gruppo di enti del terzo settore, organizzazioni internazionali e imprese private.
Questo approccio si ritrova in numerose esperienze italiane, tra le quali Bet She Can, fondazione che lavora sulla consapevolezza delle bambine 8-12 anni, la scuola Prime Minister che punta sull’empowerment delle adolescenti 14-19 anni, Global Thinking Foundation, che avvicina le donne al mondo della finanza e offre borse di studio per facoltà STEM, e un buon numero di altre iniziative in parte aggregate e potenziate attraverso reti come Steamiamoci, nata su spinta del mondo industriale, e manifestazioni come STEMinthecity che dal 2017 grazie al Comune di Milano mette insieme settore pubblico e privato maratone annuali che diffondono la cultura delle STEM.
“Fix the Institutions”: istituzioni più eque
Un secondo gruppo di politiche può essere etichettato come “Fix the Institutions” perché promuove pari opportunità e inclusione attraverso il cambiamento strutturale delle organizzazioni di ricerca e dei percorsi di carriera al loro interno.
Interessanti esempi vengono dagli Stati Uniti, dove si distinguono due iniziative tra loro complementari. La prima è la Sea Change Initiative, nata dalla American Association for the Advancement of Science nel 2017, su ispirazione di un progetto oggi internazionale partito nel 1999 in UK, l’Athena Project. L’iniziativa offre sostegno e riconoscimento a istituzioni scolastiche superiori e università, chiamate ad adottare i SEA Change Principles, seguendo un processo che prevede una rigorosa autovalutazione per identificare gap e ostacoli alla parità, e un piano d’azione per superarli. Le istituzioni sono accompagnate in questo percorso per migliorare in termini di diversità, equità e inclusione, e le più virtuose ottengono attestati di merito.
Un’altra iniziativa negli Stati Uniti, ritenuta ancora più incisiva, è guidata dalla principale organizzazione scientifica statunitense, la National Science Foundation (NSF), che non solo ha inserito il progetto NSF INCLUDE (Inclusion across the Nation of Communities of Learners of Underrepresented Discoverers in Engineering and Science) tra le sue 10 “Big Ideas” (iniziative ad ampio impatto simili alle missioni europee), ma ha anche lanciato ADVANCE: Organizational Change for Gender Equity in STEM Academic Professions. ADVANCE è un progetto finalizzato a dotare il sistema della ricerca statunitense di una forza lavoro scientifica e ingegneristica più diversificata e capace; tale obiettivo è perseguito attraverso incentivi economici che premiano i dipartimenti, gli istituti di ricerca e le università che si distinguono per la realizzazione di azioni concrete a sostegno dell’equità e dell’inclusione.
Anche in Germania la leva usata è soprattutto quella degli incentivi economici: il Women Professors Program, per esempio, dal 2008 sostiene università e istituti di alta formazione per l’arte e la musica che favoriscono pari opportunità nelle carriere. Alle università che più si distinguono vengono finanziate fino a quattro cattedre, da destinare a donne, per la durata di cinque anni. Una valutazione di impatto del programma dimostra che l’iniziativa sta aumentando il numero di docenti e ricercatrici donne nelle università tedesche, e inoltre rafforza strutturalmente l’orientamento delle università verso le pari opportunità. Anche perché, e questo sembra essere il vero strumento trasformativo, per ottenere il finanziamento molte istituzioni iniziano a offrire servizi di welfare e per la conciliazione vita-lavoro; servizi fondamentali perché è proprio negli anni in cui molte giovani ricercatrici hanno figli che si presentano anche le opportunità più importanti per la crescita professionale.
Più donne nella cybersecurity: i progetti per colmare il divario di genere
“Fix the knowledge”: miglioriamo il modo in cui produciamo conoscenza
“Sebbene la parità di genere sia importante in sé e per sé, vorrei sottolineare che avere più donne nella scienza è al servizio di un altro scopo, forse anche più elevato: una scienza migliore”. Lo ricorda la Commissaria europea per l’innovazione, la ricerca, la cultura, l’istruzione e i giovani Mariya Gabriel, intervistata da Science|Business. Per questo motivo Horizon Europe indica l’integrazione della dimensione di genere come requisito standard dei progetti, e la presenza di un piano per la parità di genere come criterio di ammissibilità per gli enti di ricerca e le università pubbliche. Una scelta forte, di cui sarà interessante analizzare gli impatti, maturata osservando i deboli risultati dell’approccio – più soft – adottato in Horizon 2020 e le indicazioni condivise dal Gendered Innovations Expert Group attraverso la sua relazione Gendered Innovations 2.
Le politiche che adottano questo terzo approccio (ad oggi le più acerbe), hanno pertanto l’obiettivo di arrivare a una produzione scientifica strutturalmente capace di tener conto delle differenze biologiche e socio-culturali tra le persone.
Il Canada, ad esempio, fin dal 1995 integra le sue politiche e attività di programmazione con uno strumento chiamato Gender-Based Analysis Plus (GBA+), un processo analitico ispirato al “gender mainstreaming” per tenere conto – nel disegno di politiche, iniziative, e, sempre più spesso, della ricerca scientifica – non solo delle differenze tra generi, ma anche di quelle socio-culturali, come etnia, religione, età e disabilità mentale o fisica. Diversi studi dimostrano come l’uso del GBA+ nei progetti renda l’attività di ricerca non solo eticamente più sana, ma anche più rigorosa e più utile per diverse popolazioni, in particolare, ma non esclusivamente, in campo medico-sanitario.
Infine, vale la pena di segnalare che proprio nella medicina si sta registrando un crescente dinamismo a livello globale, oltre che italiano, testimoniato anche dalla decisione, assunta durante la Presidenza Italiana del G20, di dar vita alla “Special Commission Equity in Health”, che si occuperà di medicina di genere con lo scopo di adottare e finanziare un piano condiviso, appunto, a livello globale.
Conclusioni
Queste politiche, scelte tra un numero abbastanza elevato di esempi, attestano come alcuni Governi stiano assumendo decisioni rilevanti per far avanzare l’equità di genere nella ricerca scientifica, e – sebbene questi interventi facciano ancora fatica ad agire contestualmente su “numbers”, “institutions” e “knowledge” – sicuramente dimostrano che si stanno compiendo passi in avanti nel coinvolgimento delle donne e, talvolta, anche di altri gruppi sin qui sottorappresentati.
In Italia, purtroppo, nonostante i positivi sforzi nella medicina di genere, nel PNRR e nel nuovo PNR (Programma Nazionale per la Ricerca) il processo appare ancora incentrato su interventi timidi ed estemporanei, anziché su visioni e disegni più ampi e incisivi, adeguatamente finanziati, dotati di strumenti, persone e potere, e quindi realmente capaci di cambiare il quadro complessivo.
Chissà se il rinnovato impeto nella rivendicazione dei diritti delle donne che sta liberando tante energie nel nostro Paese, non riesca anche a spingere cittadini, imprese e istituzioni a collaborare a una strategia italiana per una scienza autenticamente equa e inclusiva.
Di certo è tempo, e non si può dire che non si sa da che parte iniziare.