videogame culture

eSport e giochi “picchiaduro”: quando la sconfitta è propedeutica

Agli albori dei videogiochi il concetto di “sconfitta” era parte integrante dell’esperienza, un modo per migliorare e progredire nell’avventura. Oggi, soprattutto nel mondo dei picchiaduro tutti vogliono essere numeri uno. Ma le cose potrebbero cambiare grazie all’ingresso di questi giochi nel mondo degli eSport

Pubblicato il 29 Giu 2022

Giovanni Luglietto

Yamatologo, traduttore e giornalista videoludico

street fighter

Nel mondo del gaming i “picchiaduro”, conosciuti anche con il termine inglese “fighting games” o quello giapponese “kakutou” (格闘ゲーム), sono tutto sommato un’introduzione che potremmo definire recente (tenendo naturalmente conto di quello che è ritenuto lo standard odierno per la categoria). Il titolo più famoso afferente a questo genere è indubbiamente Street Fighter, nome che anche i meno avvezzi avranno sentito almeno una volta.

Considerati in declino a seguito del successo delle console casalinghe, i picchiaduro stanno invece vivendo una nuova età dell’oro grazie al sodalizio con gli eSport. Un binomio che ci porta a riflettere sulla capacità degli eSport di configurarsi come una ulteriore possibilità per la corretta formazione psico-fisica di giovani adulti.

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Ascesa, declino e rinascita dei picchiaduro

Con l’avvento di Street Fighter II (classe 1991), le sale giochi di tutto il mondo divennero meta di pellegrinaggio da parte di orde di ragazzini – ma anche tantissimi adulti – in cerca del brivido dello scontro con altri giocatori umani, non più semplici IA programmate per eseguire colpi in base agli input immessi. La popolarità dei picchiaduro era appena all’inizio e, per tutto il resto degli anni ’90, le famose software house giapponesi, tra cui Capcom e SNK, cercarono di capitalizzare su questo nuovo trend, dandosi battaglia (metaforica, s’intende) per produrre il miglior gioco di lotta sul mercato, sfornando un’impressionante quantità di titoli.

Sembrava quasi che la crescita organica del genere non potesse avere mai fine, almeno, fino a quando non entrarono in gioco fattori importanti che ne decretarono il declino: primo tra tutti la saturazione del genere e, non ultimo, la maggiore popolarità delle console casalinghe, che ridussero notevolmente l’affluenza nelle sale giochi, ormai frequentate esclusivamente da aficionados dei cabinati.

Nella prima decade del nuovo millennio, i picchiaduro avevano ormai perso il loro fascino e solo pochi franchise (i più popolari come Mortal Kombat, Street Fighter, Tekken e pochi altri), riuscirono a sopravvivere al “lungo inverno” del genere. Non fraintendete le mie parole, però: i picchiaduro erano sì divenuti un genere di nicchia ma ancora vivo nei piccoli e grandi circoli di giocatori che, sotto l’insegna internazionale della FGC (acronimo che sta per Fighting Game Community), tenevano accesa la scintilla della passione.

A ribaltare questo lento ma visibile declino, in tempi recenti, sono stati fattori come l’accessibilità dei nuovi titoli pubblicati (basti pensare ai recentissimi e popolarissimi Guilty Gear STRIVE e Mortal Kombat 11) e la possibilità di scontrarsi con altri giocatori comodamente da casa, grazie alle connessioni Internet sempre più performanti. Per non parlare poi delle nuove tecnologie implementate dagli sviluppatori per ridurre al minimo il lag (il famoso rollback netcode), nemico numero uno dei picchiaduro online. Quello che sembrava un futuro tutt’altro che roseo per il genere, si è dunque trasformato in una seconda età dell’oro, con prospettive milionarie se teniamo conto del fattore eSports.

Picchiaduro come eSport: un sodalizio inevitabile

Gli eSports (ovvero sport elettronici) con la crescita esponenziale del media, hanno conquistato un sempre maggiore rilievo, anche nei discorsi al di fuori dell’ambito del gaming stesso, creando numerose controversie su quale sia il vero significato di “sport”. Può un videogioco essere considerato al pari di una competizione atletica? I pareri in merito sono svariati ma preme sottolineare che, se da un lato il pubblico è diviso, c’è sempre un maggior riconoscimento delle competizioni di questo tipo e, persino la Federazione Italiana Taekwondo ha dato credito agli eSports, rivelandosi la prima federazione sportiva italiana (di stampo classico) a riconoscerli nel 2018.

Il termine eSport ha maggior riscontro oggigiorno, ma per quanto concerne i picchiaduro, la storia torneistica è legata a doppio filo allo Evolution Championship Series, torneo indetto fin dal 1996 (ben prima che gli sport elettronici divenissero mainstream) su base annuale, per decretare i campioni mondiali nelle relative “discipline” (in questo caso, i picchiaduro più popolari o più giocati).

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I picchiaduro, per loro natura, rappresentano lo scontro tra due individui ed è facile dunque considerare un torneo, per esempio, al pari di incontri di boxe: certo, non si finisce fisicamente al tappeto, ma l’impatto psicologico dato dal “perdere” la sfida è comunque notevole, tanto più se per arrivare a quel fatidico incontro si è messa in atto una preparazione psico-fisica non indifferente. È proprio su quest’ultimo aspetto che mi soffermerei maggiormente, per analizzare i picchiaduro utilizzando la diatriba “eSpors VS sport” come chiave di lettura.

Giovenale parlava, nelle sue Satire, di “mens sana in corpore sano”, locuzione divenuta famosa nel mondo dello sport e che implica un equilibrio tra mente e corpo per il corretto sviluppo dell’individuo. Quando si parla di eSports, nella mente dei più si configura un tipo di atteggiamento degli atleti che vede una sproporzione di tale massima, con un, almeno presunto, disinteresse per la forma fisica a vantaggio della preparazione mentale, ma è davvero questo il caso?

Senza molti giri di parole, riporto alcuni dei risultati degli studi svolti dalla German Sports University nel 2016 (citati anche dal dottor Anthony Betrus durante il suo TEDx Talk) che dimostrano come dal punto di vista scientifico, chi pratica eSport a livello professionistico sia a tutti gli effetti un atleta: “[…] la quantità di cortisolo prodotto da chi pratica eSport a livello professionale è equivalente a quella di un pilota di auto da corsa. Fattore combinato a un battito che oscilla nella massima tra 160-180 battiti al minuto, equivalente a quanto accade durante una corsa veloce, come una maratona. Gli atleti di eSport praticano fino a 400 movimenti al minuto su tastiera e mouse, un numero quattro volte superiore rispetto alle persone normali”.

In aggiunta, lo sforzo richiesto per performare in modo adeguato in competizioni mondiali di eSport è tale che gli atleti rischiano infortuni (tra i più comuni al tunnel carpale), proprio come negli sport classici e, pertanto, anche la forma fisica deve essere adeguata. Fattore che ci permette quindi di rigettare la tesi secondo la quale un atleta in ambito eSport non debba seguire il principio di Giovenale di poc’anzi.

L’aspetto psicologico

Nel mondo degli eSport esistono giochi dove si compete in gruppi e altri dove lo scontro avviene solo ed esclusivamente tra due giocatori. Se nei primi l’idea di avere compagni di squadra e sinergie tra i vari componenti riduce il fattore di colpa in caso di sconfitta, nei secondi, categoria in cui la maggior parte dei picchiaduro rientra, si è soli, nel bene e nel male.

Per questo motivo, l’impatto psicologico della sconfitta è maggiore e potenzialmente distruttivo per un atleta non preparato. Perdere scontri decisivi durante tornei di un certo rilievo può rappresentare non solo la perdita del premio in denaro previsto, ma anche una riduzione di prestigio e l’abbandono da parte del proprio sponsor. Il peso della sconfitta va dunque ben oltre il semplice orgoglio ferito, fattore tutto sommato temporaneo, e si estende ad aspetti fondamentali per la vita stessa dell’atleta.

L’unico modo per gestire eventi del genere è, banalmente, abituarsi a perdere per superare i propri deficit. L’importanza propedeutica della sconfitta è sottovalutata, soprattutto nel mondo dei picchiaduro: tutti vogliono essere il giocatore migliore del mondo, ma ce ne può essere solo uno sul gradino più alto del podio. Chi raggiunge quella posizione, almeno una volta, ha sottoposto la sua mente a una rigida disciplina che non ha nulla da invidiare a quella degli atleti degli sport classici.

Un episodio esemplificativo di tale disciplina è il famosissimo EVO moment 37, del 2004. Nella semifinale tra Daigo Umehara e Justin Wong dello Evolution Championship Series, i due si scontrano in Street Fighter III: 3rd Strike. Umehara, pur in netto svantaggio e a un soffio dalla sconfitta, mette in atto una delle più epiche rimonte del mondo dei picchiaduro, applicando una tecnica difensiva chiamata “parry” e che prevede la pressione di un tasto durante l’offensiva nemica. Una tecnica che, al minimo errore, avrebbe decretato la sua sconfitta. Con una concentrazione fuori dal comune esegue la parry su ben 15 colpi dell’avversario, lanciando la controffensiva che lo porterà alla vittoria.

Official Evo Moment #37, Daigo vs Justin Evo 2004 in HD

Official Evo Moment #37, Daigo vs Justin Evo 2004 in HD

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L’evento ha avuto una risonanza tale da divenire il più visto della storia del gaming competitivo, con la testata Kotaku che lo ha paragonato a momenti di alto sport come il “Miracolo sul ghiaccio” del 1980 e lo home run battuto da Babe Ruth nel 1932 World Series di baseball.

Perdere è il primo passo verso la vittoria (in ogni ambito)

Agli albori del mondo dei videogiochi il concetto di “sconfitta” era ritenuto parte integrante dell’esperienza, un modo per migliorare, di volta in volta, e poter progredire così nell’avventura, per quanto lento potesse essere il processo. Pian piano questo paradigma si è spostato, relegando la sconfitta in un angolo, una nicchia per masochisti se vogliamo, dando invece rapide retribuzioni in termini di appagamento anche a fronte di un impegno minimo.

I giochi ritenuti “difficili” (basti pensare alla serie Souls o anche il recentissimo Elden Ring, che ha raggiunto un record strabiliante per la categoria, con oltre 13 milioni di copie vendute in tutto il mondo) non hanno fatto presa nuovamente sul pubblico se non in tempi recenti, riportando in auge il concetto di “guadagnare il proprio progresso tramite l’impegno”. Se queste esperienze sono in grado di insegnare il valore della sconfitta, di persistenza e resilienza, allora è possibile intravedere un avvenire luminoso anche per i picchiaduro, ma non solo. Tali qualità, infatti, possono essere traslate nella quotidianità, formando degli individui più consapevoli dei propri limiti, in grado di far fronte alle avversità che la vita può presentare.

Mi piacerebbe, alla luce dei dati raccolti, concludere con un quesito provocatorio (soprattutto per i più scettici): se lo sport classico può essere occasione di riscatto personale grazie all’impegno profuso, cosa impedisce agli eSports di configurarsi come una ulteriore possibilità per la corretta formazione psico-fisica di giovani adulti?

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