Secondo quanto riportato dal “The Wall Street Journal”, Facebook, al netto delle rituali smentite pubbliche, avrebbe consentito ai propri utenti “popolari” di infrangere le regole della piattaforma, introducendo deroghe eccezionali riservate all’élite della politica, dello sport, della cultura e del giornalismo, rispetto ai rigidi standard di comportamento applicati a tutti gli iscritti.
Una notizia che ci ricorda da una parte il forte peso dei social sul discorso pubblico e al tempo stesso la forte discrezionalità con cui assolvono a questo ruolo. Sempre più simile a un medium (nonostante le norme, per ora, non danno loro le stesse responsabilità).
Le fake news sul vaccino diventano un business internazionale: i casi
Il programma “XCheck
In particolare, il noto social network avrebbe sviluppato il programma “XCheck” come sistema di monitoraggio degli account di “alto profilo” cosiddetti “VIP”, esonerati dalle regole valide per tutti gli altri utenti, consentendo a circa 5,8 milioni di personaggi noti di ottenere un trattamento speciale.
Esisterebbe, infatti, secondo il criterio “dei due pesi e due misure”, una sorta di “white list” immune dalle generali azioni di controllo che consentirebbe all’élite dei “privilegiati” di pubblicare liberamente, grazie ad un vero e proprio trattamento riservato esclusivo, contenuti anche in violazione delle regole generali imposte dalla piattaforma, bypassando anche le revisioni di moderazione “ex post”, persino quando i post facciano riferimento a informazioni violente e comunque vietate che, nella generalità dei casi, determinerebbero sanzioni per gli utenti ordinari.
Sembra già che dal 2019 gli account inseriti nella “white list” siano in grado di condividere affermazioni false e diffamatorie che, pur essendo state individuate dai sistemi interni di fact-checking, continuano a circolare liberamente grazie a vere e proprie “corsie” privilegiate di diffusione che sono precluse a tutti gli altri utenti della piattaforma.
L’ex presidente Donald Trump, prima del ban, faceva parte di questa white list.
I “vip” liberi di diffondere bufale
Peraltro, in un momento storico di incontrollata proliferazione della cosiddetta “infodemia” che sta avendo un ruolo particolarmente rilevante nell’incrementare la sfiducia delle persone sempre più confuse e disorientate di fronte alla caotica e crescente mole di informazioni veicolate, difficilmente distinguibili come fonti ufficiali e notizie “bufale”, l’inchiesta giornalistica evidenzia che nel flusso di contenuti condivisi dagli utenti “privilegiati” dell’élite virtuale siano presenti anche teorie cospirative e fake news sulla sicurezza dei vaccini.
Tali contenuti sono quindi in grado di viralizzare trend particolarmente divisivi sotto un profilo emotivo e narrativo nell’attuale comunicazione dedicata propria alla gestione della pandemia.
Non vi è dubbio che negli ultimi mesi Facebook sia pubblicamente impegnato in prima linea nella lotta alla rimozione delle fake news che la pandemia “Covid-19” ha ulteriormente accentuato, favorendo la diffusione di scenari “complottistici” alternativi alla descrizione ufficiale dell’emergenza sanitaria per influenzare l’opinione pubblica.
Il business delle fake news sui vaccini
Malgrado l’impegno annunciato nell’adozione di “misure straordinarie” per contrastare la diffusione di notizie false anche mediante la costituzione di team di fact-checker, in un clima di costanti accuse rivolte dal Presidente Biden a Facebook, colpevole di contribuire alla diffusione di informazioni false e fuorvianti sui vaccini al punto da determinare la morte di molte persone come diretta conseguenza della dilagante circolazione di fake news, sembra ancora rappresentare una grave “piaga” virtuale la crescente proliferazione di “falsi produttori di contenuti” o “manipolatori” che, sfruttando i meccanismi virali dei sistemi di pubblicazione dei contenuti, provoca un preoccupante incremento di notizie false.
Facebook rivendica, ad esempio, lo sviluppo del proprio sistema di rilevazione degli account falsi per combattere la disinformazione online mediante il cd. “Temporal Interaction EmbeddingS (TIES)” che ha consentito di monitorare circa 2,5 milioni di account (con un rapporto 80/20 reali/falsi) e 130.000 post, di cui circa il 10% sono etichettati come disinformazione, dimostrando di aver rimosso “oltre 18 milioni di casi di disinformazione sul COVID-19” e ridotto la visibilità di oltre 167 milioni di contenuti COVID-19 smascherati” dai propri algoritmi nel contesto di una serie di provvedimenti e raccomandazioni secondo un elenco di regole pubblicamente diffuse.
Tuttavia, come rileva il report “The Disinformation Dozen – Why platforms must act on twelve leading online anti-vaxxers” non sembrano ridursi gli effetti della disinformazione cospirativa contro i vaccini anche perché dietro al fenomeno si nasconde presumibilmente un giro d’affari rilevante che in qualche modo contribuisce a un vero e proprio “corto circuito” informativo in grado di provocare la diffusione incontrollata di notizie false.
Secondo i risultati forniti dall’agenzia NewsGuard, ad esempio, più di 500 siti web – parzialmente finanziati da inserzionisti che potrebbero non conoscere la natura delle piattaforme sponsorizzate talvolta ritenute persino affidabili – hanno promosso disinformazione sulla pandemia e sui vaccini, pubblicando informazioni sanitarie appositamente dubbie, nell’ottica di contribuire ad un processo lucrativo di “infodemia” fuori controllo che trova terreno fertile nei social network come luoghi privilegiati per la condivisione virale dei contenuti immessi online grazie a vere e proprie “bolle di filtro”: su Facebook la disinformazione ottiene infatti sei volte più clic rispetto alle altre notizie, secondo lo studio della New York University e dell’Université Grenoble Alpes.
In tale scenario particolarmente complesso e problematico, l’esistenza di presunte liste privilegiate di utenti “VIP” rende ancora più difficile la lotta alla disinformazione online, perché sembra emergere una politica di moderazione a “due livelli” rispettivamente applicate agli utenti “normali” e agli “influencer”, esentati da standard più stringenti che potrebbero generare meno “engagement” incidendo su minori profitti di “advertising” online, a causa di maggiori restrizioni volte a rimuovere i contenuti in contrasto con le regole generali applicate dalla piattaforma.
Ammettendo invece che si tratti di un’anomalia involontariamente emersa nel sistema automatizzato di moderazione dei contenuti, scoperta tale criticità, Facebook dovrebbe procedere ad un rapido miglioramento del programma come prova concreta dell’impegno che l’azienda dedica alla lotta contro la diffusione delle fake news, per evitare di perdere credibilità come principale fattore di redditività in grado di incidere anche sulla capacità effettiva e reale di contenere la dilagante diffusione di disinformazione online.
Conclusioni
Di certo, restando indifferenti di fronte a tale circostanza messa in evidenza dall’inchiesta giornalistica o negandole categoricamente, Facebook sarebbe esposta al rischio di essere accusata di non aver fatto abbastanza per fermare la diffusione della disinformazione, soprattutto legata al Covid, consentendo ad alcuni utenti “autorizzati” di farla franca nel pubblicare materiale che viola le regole nonostante le regole generali valide per i suoi più di 3 miliardi di utenti.
In altre parole, una posizione del genere costituirebbe un agevole assist per coloro che addebitano la crescita della disinformazione prevalentemente al ruolo delle piattaforme social, ove prospera senza controllo anche a causa dell’incapacità o della riluttanza di affrontare realmente il problema.