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Facebook, l’enciclopedia dei morti del XXI secolo

Nel 2098, i morti su Facebook supereranno i vivi, ma che succede ai nostri dati online quando si conclude la nostra vita terrena? Il rapporto tra la morte e le attuali tecnologie digitali è un tema molto complesso e sottovalutato. Ecco perché la Death Education va insegnata come l’uso come l’uso consapevole dei social

Pubblicato il 26 Nov 2018

Davide Sisto

Università di Trieste

digital-death

Mai come oggi disponiamo di un materiale così vasto di memorie personali, le quali costituiscono un sostanzioso ritratto di ciò che siamo stati durante la nostra vita e ci offrono la possibilità di non essere dimenticati. L’altra faccia della medaglia è che questo materiale digitale, se non preventivamente gestito, può assumere una sua specifica forma di vita autonoma, i cui effetti imprevedibili mettono a rischio la nostra privacy personale, il nostro diritto all’oblio e, soprattutto, il desiderio di porre un sigillo definitivo alla nostra esistenza conclusa. Ecco allora le criticità e le opportunità di pianificare con raziocinio la vita post mortem dei nostri account social.

I social e l’enciclopedia dei morti di Danilo Kiš

Nel 1983 lo scrittore serbo Danilo Kiš immagina, all’interno del suo libro Enciclopedia dei morti, una biblioteca fantastica, situata a Stoccolma, i cui volumi hanno una caratteristica piuttosto peculiare: contengono informazioni estremamente minuziose di tutto ciò che, ritenuto insignificante e trascurabile, è escluso dagli archivi della cultura ufficiale e non è menzionato nelle altre enciclopedie. In particolare, questa biblioteca raccoglie i dati riguardanti la vita delle persone comuni, di modo da documentare e mantenere viva nella memoria collettiva la loro unicità e irripetibilità. Oltre alla data di nascita e di morte, accumula i documenti relativi ai luoghi in cui ogni individuo ha vissuto (con riferimenti dettagliati alle specifiche condizioni climatiche e geografiche), le descrizioni degli abiti che ciascuno ha indossato, ecc.

Kiš sostiene che il compito di questa biblioteca è offrire “una visione egualitaria del mondo dei morti” e dunque “correggere l’ingiustizia umana”, dando a tutti gli uomini lo stesso posto nell’eternità[1]. Egli conclude che “per il libro dei Morti la storia è una somma dei destini umani, un insieme di avvenimenti effimeri. Perciò vi è annotato ogni atto, ogni pensiero, ogni soffio creatore, riportato ogni quota, ogni palata di fango, indicato ogni movimento che ha fatto cadere un mattone dai muri in rovina”[2].

Nell’ultimo decennio l’enciclopedia dei morti di Danilo Kiš ha trovato una sua attuazione concreta all’interno di un social network come Facebook, il più grande cimitero (digitale) che vi sia tutt’oggi al mondo. Tenendo conto che oltre il 21,5% della popolazione mondiale ha un account Facebook, escluso dalla percentuale un numero approssimativo piuttosto sostanzioso di profili fasulli, e che ogni giorno muoiono nel mondo centinaia di migliaia di persone, si calcola che quotidianamente circa 33.000 suoi utenti concludono la loro vita. Già oggi la creatura di Mark Zuckerberg conta circa 50 milioni di utenti deceduti; nel 2098, addirittura i morti supereranno ampiamente i vivi, se le previsioni di Hachem Sadikki, ricercatore in Statistica presso l’Università del Massachussetts, avranno un oggettivo riscontro e se – soprattutto – Facebook sarà ancora in uso.

Come l’enciclopedia dei morti, Facebook – ma anche Instagram, Twitter e gli altri principali social media – permette ai vivi di integrare in modo compiuto la memoria del defunto con la loro vita in corso, stabilendo un’innovativa relazione a tre tra la cultura dello storytelling, il bisogno della “memorializzazione” e l’inedita situazione del post mortem digitale. Centinaia, se non migliaia, di immagini, registrazioni audiovisive, pensieri e parole dei defunti a portata di mano di ogni utente, il quale può ricostruire in modo dettagliato le loro biografie pubbliche, facendo un inventario delle relazioni sentimentali, delle attività lavorative, delle idee politiche così come si sono sviluppate nel corso del tempo. Addirittura, ciascuno dispone dei dati necessari per avere un quadro sostanzioso delle evoluzioni caratteriali del defunto e delle sue peculiarità dialogiche, delle abitazioni in cui ha vissuto, dei luoghi frequentati in vacanza e nel tempo libero, nonché degli avvenimenti più o meno significativi che hanno segnato la sua esistenza.

Prendiamo MyDeathSpace, un sito web che, a metà tra un cimitero virtuale e una raccolta di storie personali, non è altro se non l’insieme di centinaia di pagine dedicate ai morti, ciascuna delle quali include le generalità del defunto, le modalità che ne hanno determinato il decesso e un collegamento ipertestuale alla pagina personale sui social media. Pertanto, ogni fruitore di MyDeathSpace può ripercorrere – a ritroso, a partire dall’ultimo post – la vita del defunto, sapendo a priori in che modo si è conclusa. Impressionante è, per esempio, rivedere le fotografie, in contesti familiari piuttosto solari, di una persona che si è tolta la vita. Sbaglia Samantha, il sistema operativo OS I descritto nel film Her di Spike Jonze, quando dice a Theodore che il passato è solo una storia che raccontiamo a noi stessi; è anche e soprattutto una storia che raccontiamo ai nostri followers, registrandola – a tempo indeterminato – all’interno delle nostre abitazioni virtuali.

Che succede ai nostri dati online quando moriamo

Se i social network sembrano rendere possibile quella visione egualitaria del mondo dei morti di cui parla Kiš, dimostrando che la storia è veramente una somma dei destini umani e un insieme di avvenimenti effimeri, non va tuttavia sottovalutata una serie di problematiche che si dipanano da una domanda fondamentale: che cosa succede effettivamente ai nostri dati online una volta che siamo morti?

A partire da questa domanda si comprende la radicale distanza tra una (immaginaria) enciclopedia cartacea dei morti e una loro (reale) enciclopedia digitale. In linea generale, siamo abituati a pensare a un dato come “vivo” quando colui che lo produce è attivo nel web. La morte dell’utente, tuttavia, non comporta la contemporanea morte dei suoi dati, i quali continuano a “vivere” e ad aggiornarsi. La morte biologica del singolo individuo non determina mai la sua contemporanea morte digitale. Nell’ambito degli studi internazionali riguardanti la Digital Death, si usa solitamente l’espressione “interazione postuma” per indicare la duplice vita del dato online e la non coincidenza tra la morte biologica e la morte digitale degli individui: una volta che ha avuto luogo la morte di un singolo individuo, “postumo” è soltanto colui che è morto fisicamente o biologicamente; i dati, lungi dall’essere cristallizzati o congelati per sempre, continuano invece a interagire in maniera attiva come se nulla fosse successo. Questa interazione tra dati ed esseri umani è garantita dal carattere asincrono che connota la condivisione dei processi comunicativi nel web[3].

Le ripercussioni sociali, culturali, psicologiche, politiche ed economiche della vita dei dati online, indipendentemente dal fatto che chi li produce sia vivo o morto, sono molteplici e, sotto diversi punti di vista, ancora imprevedibili. Riguardano, soprattutto, i temi del diritto all’oblio e dell’eredità digitale. Ma coinvolgono anche riflessioni di natura teorica concernenti i cambiamenti in corso dell’identità individuale, della sua eventuale immortalità e del suo modo inedito di svilupparsi all’interno di una realtà in cui la dimensione offline e quella online sono sempre più integrate l’una nell’altra.

Tutte le criticità della vita postuma dei dati

È giustificabile per esempio, senza previo consenso dell’interessato, che la madre di un ragazzo deceduto, scoprendo le credenziali del suo account su Facebook, possa pubblicare dei post in prima persona, come se fosse il ragazzo stesso a parlare? L’appropriazione arbitraria dell’identità digitale del figlio, anche se ha alla base una motivazione comprensibile (l’elaborazione personale del lutto), si scontra con uno dei principi basilari degli ambienti virtuali di un social network: il soggetto, disincarnato, coincide con il messaggio che condivide e veicola verso gli altri. Il messaggio, cioè, non è mai neutro in quanto s’identifica con un’identità individuale. Sostituirsi, nella dimensione online, al figlio equivale a indossare i suoi panni offline, situazione che può cagionare dolore nelle altre persone – amici e parenti – che hanno sofferto la perdita. E che può, a priori, non essere desiderata dal diretto interessato. Non è un caso che Facebook, quando viene informato di una situazione di questo tipo, trasformi immediatamente il profilo del defunto in un account commemorativo, togliendo alle altre persone la possibilità di accedervi.

La sostituzione, se nel caso di una madre che veste i panni del figlio rientra in una dinamica psicologica ed emotiva più che giustificabile, può in altri casi essere la conseguenza di un obiettivo truffaldino. Non sono rari gli episodi in cui uno sconosciuto si appropria dell’identità del defunto, aprendo un account a suo nome e impossessandosi dei suoi contenuti, per trarre vantaggi economici dalla fragilità psicologica di chi ha sofferto la perdita.

Vi sono, poi, altre innumerevoli criticità riguardanti la vita postuma dei dati online di un defunto. Paradigmatico è il caso dei genitori di Hollie Gazzard, ventenne inglese uccisa nel febbraio 2014 dall’ex fidanzato, i quali hanno lottato in tribunale per oltre un anno contro Facebook, affinché rimuovesse le immagini in cui la figlia era immortalata e taggata con il suo carnefice. La presenza quotidiana di tali immagini sul profilo della figlia rappresentava, ovviamente, una dolorosissima esperienza per i due genitori, già sotto shock per l’omicidio. Solo dopo un anno di lotte giudiziarie e di manifestazioni di piazza, il social network ha eliminato queste fotografie, contravvenendo alla sua regola fondamentale: tutelare la scelta autonoma del singolo utente in merito all’uso del suo profilo.

Comunicare con gli spettri digitali

Un capitolo a parte sono poi i vari esperimenti tecnologici – Eter9, Eternime, nonché tutti i vari “griefbot” scaricabili sugli smartphone – che sfruttano il fenomeno dell’interazione postuma per creare automatismi per mezzo dei quali continuare a chattare con i morti. Tutti i dati online dei defunti vengono, infatti, analizzati e rielaborati di modo da creare veri e propri spettri digitali capaci di aggirare la morte della persona in carne e ossa. Negli spettri digitali si riflette una peculiare forma di immortalità digitale: i morti, oltre a comunicare con il futuro tramite ciò che hanno prodotto concretamente in vita, hanno anche l’opportunità di continuare a evolversi in maniera autonoma rispetto all’unicità psicofisica che li ha contraddistinti nel corso della loro esistenza[4].

Pianificare la vita post mortem dei nostri account

Ora, la consapevolezza della dissociazione tra la durata della vita biologica e la durata della vita digitale delle persone, a cui si lega addirittura la possibilità di sopravvivere digitalmente alla propria morte psicofisica, dovrebbe spingere ogni utente a chiedersi preventivamente: desidero che la mia vita digitale si concluda insieme a quella biologica, cercando di attuare una qualche forma di cremazione dell’identità digitale, oppure che continui a sopravvivere ad libitum? Desidero che i miei dati online siano indipendenti dalla mia esistenza, sviluppandosi in maniera autonoma, o che mi accompagnino nell’aldilà?

Rispondere a queste domande significa, innanzitutto, pianificare con raziocinio la vita post mortem dei propri account social, dal momento che la morte può sopraggiungere in qualsiasi istante e che, nel corso degli ultimi decenni, la nostra vita ha avuto luogo soprattutto nell’ambiente digitale. Twitter, LinkedIn, Snapchat e Tumblr offrono come unica opportunità quella di disattivare l’account, una volta informati della morte dell’utente. Pertanto, o si decide di salvare preventivamente il materiale ivi contenuto e conservarlo, se lo si desidera, in luoghi privati accessibili ai propri cari o si decide di lasciare il tutto così com’è, sapendo che i propri profili potranno vagare per sempre nella Rete se qualcuno non informerà i social media del decesso avvenuto. Instagram offre tanto il profilo commemorativo, isolato però dai profili dei vivi, proprio come sono isolati i cimiteri dai luoghi fisici in cui svolgiamo le nostre vite quotidiane, quanto la rimozione dell’account. Facebook, come ormai è risaputo, dà la possibilità di scegliere un contatto erede quale gestore del profilo commemorativo del defunto. In alternativa, si può lasciare il proprio account così com’è, consapevoli del fatto che rimarrà a disposizione di chiunque venga a conoscenza delle credenziali di accesso o semplicemente di chi vorrà utilizzare le immagini e le parole pubbliche per scopi poco chiari (o per farci vivere digitalmente oltre la morte).

La cremazione digitale

Infine, si può anche predisporre a priori una sorta di cremazione digitale, la quale ha luogo non appena un documento appropriato certifichi la morte dell’utente. Bruciato il corpo fisico, viene bruciato pure quello virtuale. Le sue ceneri saranno conservate soltanto da chi si è salvato repentinamente sul proprio computer le memorie del caro estinto.

Va detto che la cremazione digitale totale della nostra vita online è un’operazione tutt’oggi proibitiva. Secondo Giovanni Ziccardi, è incompatibile con l’architettura dell’ambiente virtuale “un’idea radicale e completa di raggiungimento dell’oblio – intesa come la possibilità reale e concreta di cancellare, o meglio, di distruggere per sempre quelle informazioni non più attuali né d’interesse pubblico connesse al proprio passato”[5]. È più semplice de-indicizzare i contenuti del web, occultandoli nei risultati dei principali motori di ricerca, che provare a cancellarli in modo definitivo.

Queste riflessioni, che rappresentano solo una porzione della realtà estremamente complessa riguardante il rapporto tra la morte e le attuali tecnologie digitali, vogliono portare all’attenzione del lettore due questioni – l’enciclopedia digitale dei morti nei social network e la vita autonoma post mortem dei dati online – nelle quali emergono, al tempo stesso, opportunità e criticità inedite. Motivo per cui, mai come oggi, è necessario creare percorsi pedagogici capaci di integrare la Death Education con gli insegnamenti a un uso consapevole delle tecnologie digitali.

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BIBLIOGRAFIA

  1. D. Kiš, Enciclopedia dei morti, Adelphi, Milano 1988, p. 47.
  2. Ivi, p. 60.
  3. C. Maciel, V. Carvalho Pereira (Eds.), Digital Legacy and Interaction. Post-Mortem Issues, Springer, New York 2013.
  4. Un’ampia descrizione dei griefbot è contenuta nel mio libro La morte si fa social. Immortalità, memoria e lutto nell’epoca della cultura digitale, Bollati Boringhieri, Torino 2018.
  5. G. Ziccardi, Il libro digitale dei morti. Memoria, lutto, eternità e oblio nell’era dei social network, Utet, Torino 2017, p. 207.

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