“Mark Zuckerberg is the world’s most powerful unelected person” – ha scritto Shira Ovide sulla sua “On Tech newsletter” del NYT. Il cui titolo spiega perfettamente il contenuto dell’articolo: “No, Facebook Does Not Reflect Reality”. Con il sottotitolo: “Despite what Mark Zuckerberg says, Facebook shapes our world”. Che dire a Shira Ovide? Benvenuta tra tutti noi, che da anni sosteniamo la stessa cosa.
Perché – ancora Shira Ovide – “It’s true but also comically incomplete to say that Facebook reflects reality. Instead, Facebook presents reality filtered through its own prism, and this affects what people think and do. (…) Facebook’s ability to shape, not merely reflect, people’s preferences and behavior is also how the company makes money”. In verità, non “also” ma soprattutto “makes money”.
I social producono un mondo asociale
Da qui due considerazioni. La prima: se Zuckerberg è uno degli uomini più potenti del mondo – pur non essendo stato eletto da nessuno e non avendo un contropotere democratico che ne bilanci e controlli il potere personale e d’impresa – ciò significa che miliardi di persone, a prescindere dai confini nazionali e dal potere dei rispettivi governi sono governate (cioè la loro vita è prodotta, amministrata, addestrata, manipolata, guidata) da un autocrate, egocentrico, iper-narcisista, ladro di identità personali/Grandissimo Fratello. Dovrebbe essere imbarazzante per ciascun componente di quei miliardi di persone, ma purtroppo non lo è.
La seconda: a dispetto della sua insistente narrazione pubblica – “Facebook è lo specchio del mondo” – questo mondo (ancora Shira Ovide) è prodotto da Facebook (e simili), che non è quindi lo specchio del mondo e della realtà, ma è produttore di un mondo. Un mondo di informazioni controllate e scelte e quindi manipolate da un social; un mondo fatto di dipendenza di massa dai like e dalla dopamina che i like producono nei suoi consumatori (dipendenza che non è casuale, ma frutto di una sapiente ingegnerizzazione eterodiretta dei comportamenti umani – si rilegga, tra i tanti, Jaron Lanier, in “Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social”, il Saggiatore). Un mondo che è il prodotto industriale di una narrazione e di un immaginario collettivo che da trent’anni continua a farci credere ad esempio che la condivisione non sia (come invece è) una pratica sociale antichissima (la socialità è nella natura/essenza dell’uomo), ma qualcosa di meraviglioso permesso solo e unicamente dalla nuova tecnologia digitale/rete/social: per cui solo in un social – che, lo ricordiamo ancora è un’impresa privata votata alla massimizzazione del proprio profitto, che si genera e si accresce al crescere della nostra produttività nella creazione di dati, via condivisione – si sarebbe sociali/inclusi; potendo però poi essere anche asociali, violenti, denigratori compulsivi nei comportamenti via social (bullismo, branchi, fake-news, razzismo, pedofilia, complottismo, negazionismo, fascismo/nazismo, trumpismo…).
È un doppio movimento psicologico quello che viene attivato dai social (dalla rete/web in senso lato), ma è pratica comune a tutte le organizzazioni eterodirette: da una parte la rete ha prodotto desocializzazione, isolamento e solitudine rispetto alle precedenti forme di socializzazione/società, dall’altra (ma la prima era la premessa per realizzare la seconda) si è offerta essa stessa come nuova forma di socializzazione, di amicizia, di comunità (appunto: social, community, eccetera). Come ricordava Zygmunt Bauman, il capitalismo ha sciolto (e continua a sciogliere) tutti i corpi sociali solidi precedenti, ma questo al solo fine di “forgiarne di nuovi e di più temprati. Se per i pochi privilegiati l’avvento dell’ordine moderno significò il dischiudersi di spazi infiniti per l’autoaffermazione individuale, per la grande massa significò semplicemente il passaggio da un ambiente piccolo e angusto a un altro esattamente uguale”, come la fabbrica, dove gli uomini dovevano “essere ridislocati sotto forma di massa operaia” (in “Voglia di comunità”, Laterza). E oggi, integrando Bauman dobbiamo essere ridislocati/integrati nella rete-fabbrica che si offre a noi come social/community, ma chiedendoci il massimo di produttività (chiamata appunto condivisione); così come fanno le retoriche dell’organizzazione del consumo e del lavoro dove l’impresa diventa brand community e comunità di lavoro, chiedendo a ciascuno l’identificazione di sé con il brand e con l’impresa-comunità. E per convincersene, si guardi “Boss in incognito” di Rai2 dove, tra realtà e finzione si veicola il messaggio – anche questo serve a produrre un mondo di senso (Marx forse scriverebbe di sovrastruttura che legittima la struttura) – per cui il lavoratore (è ancora il doppio movimento visto sopra) deve essere prima annichilito psicologicamente nella sua soggettività e individualità, per poi offrirgli il paternalismo del buon imprenditore che si prende cura di lui e della sua famiglia e a cui il lavoratore deve subordinarsi e identificarsi totalmente.
Ma insieme, questo doppio movimento ha fatto sì che si allentassero i freni inibitori degli individui e ogni principio di responsabilità individuale, la rete permettendo di fare tutto ciò che si vuole. I social generano contemporaneamente falsa socialità ma soprattutto asocialità e guerra di tutti contro tutti, che è poi il ritorno allo stato di natura pre-contratto sociale che è nella logica e nella necessità della competizione tecno-capitalista (“che tu sia leone o gazzella, devi correre sempre”; cercando di farlo – dipende dal ruolo/funzione che ricopri – più velocemente della preda o del predatore, oppure facendoti riconoscente del boss, o magari le due cose insieme).
Amnesty International su Twitter
Molti, infiniti sono gli esempi possibili.
Prendiamo allora l’ultimo, recentissimo “Rapporto Toxic Twitter” di Amnesty International. Scrive AI: “A dispetto delle ripetute promesse, Twitter non fa ancora abbastanza per proteggere le donne dalla violenza e dagli insulti online”. Sulla piattaforma le donne provenienti in particolare da minoranze etniche o religiose, o che siano lesbiche, bisessuali o transessuali o che siano disabili sono colpite in modo sproporzionato, continua Amnesty, dalle aggressioni verbali via rete/social. E comunque, Twitter è sempre troppo lento nell’affrontare i diversi tipi d’ingiurie con cui le donne sono confrontate via rete. “Per esempio, Twitter non fornisce ancora una ripartizione dettagliata a livello nazionale delle segnalazioni d’ingiurie da parte degli utenti, né fornisce dati sul numero di utenti che segnalano specifici tipi di linguaggio abusivo, come appunto gli attacchi legati al genere. Twitter è anche reticente nel divulgare informazioni dettagliate sul numero di moderatori di contenuti che impiega, compreso il tipo di copertura fornita nei diversi paesi e nelle diverse lingue”. Certo, Amnesty riconosce che molti progressi sono stati fatti, ma ribadisce che il social media dovrebbe avere la responsabilità e il dovere di rispettare i diritti umani, soprattutto il diritto di vivere liberi da discriminazioni e violenza e ancora di più la libertà di espressione e di opinione.
Prigionieri dei social, come nella caverna di Platone
Il problema diventa allora: perché crediamo alle fake news, ai complottismi, alla favola per cui Twitter e Facebook sarebbero social – confondendo ingenuamente social con socialità? Perché crediamo a queste narrazioni d’impresa che vogliono farsi narrazioni sociali? – e ricordiamo che costruire una società sul modello dell’impresa capitalistica era ed è l’obiettivo dichiarato e pianificato del neoliberalismo. Perché dopo avere abbandonato le grandi narrazioni religiose e politiche del passato abbiamo abbracciato con tanto piacere e fervore queste altre grandi narrazioni capitalistiche? E su tutto: perché gli uomini hanno così bisogno di favole e non riescono ad essere autonomi nel senso di Kant, diventando adulti uscendo una buona volta (ancora Kant) dal girello per bambini in cui il potere vuole tenerli per guidarli meglio, allo stesso tempo illudendoli di essere liberi di muoversi con le proprie gambe? – (Kant, “Che cos’è l’Illuminismo?” – Editori Riuniti).
E queste domande – antiche e moderne – ci riportano a Platone (“Repubblica”) e al suo mito della caverna: dove immagina dei prigionieri incatenati fin dalla nascita dentro a una profonda caverna. Tutto, di loro – anche testa e collo – è bloccato, in modo che i loro occhi possano fissare solamente la parete davanti a loro (oggi potremmo dire: lo schermo del pc o dello smartphone). Alle spalle dei prigionieri è acceso un fuoco e tra il fuoco e i prigionieri vi è una strada e lungo questa strada vi è un muretto (“costruito un po’ come i paraventi che i burattinai pongono tra sé e gli spettatori” – oggi diremmo: realtà virtuale e/o aumentata) e alcuni uomini portano vari oggetti (“ed ecco spuntar fuori, al di sopra del muro, statuette di uomini, figurine di animali, modellini di pietra e di legno”). Per l’azione della luce del fuoco, questi oggetti proiettano la loro ombra sulla parete davanti ai prigionieri. Ombre che per i prigionieri sono l’unica realtà visibile. Non conoscendo altra realtà che questa – e neppure la causa delle ombre né chi le produce – per loro essa è la realtà. Una realtà fatta di apparenza, di illusione che però diventa la realtà. Il nostro rapporto con il mondo è oggi simile a quello dei prigionieri di Platone, non sappiamo più distinguere realtà e apparenza, vero e falso e soprattutto crediamo vero ciò che è falso.
Far credere di “essere lo specchio del mondo”
Prima produrre un mondo, un ambiente congruo con i propri interessi politici, economici, tecnologici; e poi far credere che questo ambiente prodotto industrialmente sia il mondo reale e vero; e che non esistano altri mondi possibili e diversi. Prima dei social era questo l’obiettivo del marketing e della pubblicità, di Hollywood e poi di Bollywood e oggi di Netflix e di YouTube e dei social – far credere che la pubblicità e il cinema (e analogamente oggi con la rete) siano lo specchio del mondo e non i produttori di un mondo specifico e funzionale al funzionamento del tecno-capitalismo. E il marketing e la pubblicità e la rete e i social sono appunto tecniche – biopolitiche, direbbe Foucault – per la produzione di un mondo di consumatori/produttori sempre connessi, senza i quali il plusvalore non potrebbe aumentare. E quindi, non è forse anche questa una forma di caverna platonica (o di gabbia d’acciaio, direbbe Max Weber), dove i prigionieri siamo noi consumatori/utenti dei social? – noi legati davanti allo schermo e dipendenti (nel senso di dipendenza) dalle sue narrazioni, molto affascinanti, molto coinvolgenti, apparentemente sempre più personalizzate, sempre più basate sulla produzione in noi di emozioni (ancora la dopamina) che a loro volta generano una relazione con la merce/brand/community, ma soprattutto con l’illusione/way of life proiettata sulla parete/schermo.
La moltiplicazione dei pazzoidi
Ha scritto Beppe Severgnini, raccontando (“Corriere della sera” del 20/09/2020) della sua partecipazione a “Pordenonelegge”: “Avevo letto su Internazionale una lunghissima inchiesta sui pazzoidi complottisti di QAnon, rallegrandomi di non averne ancora incrociati in Italia. Ebbene, l’inizio del mio intervento pubblico è stato interrotto da un tipo che si è messo a gridare: “Perché non vi occupate di Hillary Clinton sfruttatrice di bambini”? L’idea che Ms Clinton sia a capo di una rete di pedofili è una delle fantasie più idiote che mente umana possa concepire. Ma ha già fatto danni e negli Usa una parte politica – non dico quale, ma è facile – ama giochicchiarci, sperando di trarne qualche vantaggio”. Che fare? Continua Severgnini: “Non possiamo zittirli, certo. Ma dobbiamo smentirli, smascherarli e – quando serve – deriderli. In ogni caso, evitiamo di fornirgli l’amplificatore. Se lo facciamo, diventiamo corresponsabili dei danni che provocano”.
Dalla pandemia alla infodemia?
E arriviamo al concetto di infodemia che definirebbe la diffusione sui social media di storie/narrazioni non attendibili ma credibili, il rifiuto di cercare informazioni vere, dubbi sulla credibilità di esperti e scienziati, la polarizzazione politica ma anche valoriale, una credulità virale. Secondo Robert Schiller, Premio Nobel per l’economia (in “Economia e narrazioni”, FrancoAngeli), si dovrebbe iniziare a includere nell’analisi economica anche le narrazioni economiche che si propagano in modo virale, secondo le modalità del contagio informativo (o dovremmo dire conformismo, che è un’altra forma di contagio virale?). E questo perché lo studio delle storie virali che influenzano il comportamento economico individuale e collettivo – vere o false che siano – avrebbe l’effetto (in questo caso positivo) di migliorare enormemente la possibilità e la capacità di prevedere e quindi poi di attenuare gli effetti causati da crisi finanziarie e quant’altro (ma non dovremmo mai dimenticare che il meccanismo che oggi chiamiamo del contagio virale è, appunto, cosa antica e sempre reiterata e pensiamo a Socrate accusato di corrompere i giovani ateniesi da quelle che oggi chiameremmo fake-news virali, ma anche alla bolla finanziaria dei tulipani del 1637.
Che fare? Tornare (ad esempio) a Socrate
Analisi certamente utile – quella di Schiller – ma solo da un punto di vista calcolistico/capitalista, che però ci sembra di fatto legittimare tutto il sistema delle fake-news/complottismi/negazionismi/eccetera. Siamo cioè in una logica neoliberista e industriale di mero problem solving ex post, senza eliminazione del problema ex ante. Per non perdere allora questa capacità di agire ex ante – e per non morire di fake-news e di favole alla Mark Zuckerberg – riprendiamo ancora Socrate. Scriveva di lui il filosofo Guido Calogero: “Socrate è anzitutto un critico, che vuole rendersi conto delle cose e perciò discute: il suo ideale è quello dell’interrogare le persone per controllare le loro verità, cioè per vedere se i principi e i criteri su cui esse si basano nei loro giudizi e nelle loro azioni siano frutto di convinzione ragionata o semplice frutto di abitudine. Egli è un fiero nemico della tradizione [e quindi dell’abitudine e della standardizzazione e del conformismo e oggi aggiungeremmo appunto delle fake-news e del contagio virale] e non accoglie alcun principio che non si giustifichi da sé medesimo (…). Ma Socrate è anche animato dalla sincera speranza che gli altri sappiano che cosa è il buono e il bello o che ciò, almeno, possa risultare dalla indagine comune [attraverso il dialogo]. Sotto questo aspetto, il metodo di Socrate – figlio di una levatrice – è quello della ostetricia spirituale: egli non sa produrre la verità, ma sa aiutare gli altri a metterla alla luce, con l’esercizio dialettico della domanda e della risposta”. Socrate infatti sosteneva “che non vale la pena di vivere una vita in cui continuamente non si cerchi di capire e di essere capiti, attraverso il reciproco controllo del dialogare e del discutere”. Quindi, ancora Calogero su Socrate: “il supremo benessere dell’uomo non consiste nel possesso della verità, ma nella sua ricerca attraverso il dialogo, la quale ovviamente non può mai avere fine, perché infiniti sono i partecipanti al dialogo e ciascuno di loro ha il diritto di essere capito così come noi abbiamo il diritto di essere capiti” (in “Le ragioni di Socrate”, a cura di A. Brancacci, Mimesis). Per fare questo, però servono uomini capaci di intelletto, di autonomia, di discernimento. Che si liberino uscendo dalla caverna. E dalla credulità digitale di oggi.
Ma è appunto per questa sua scandalosa ricerca che Socrate venne condannato. Perché oggi come allora sembra essere molto più facile credere a Mark Zuckerberg o ad una fake news o ad un complottismo che seguire il metodo della “ostetricia spirituale” di Socrate. Eppure, dobbiamo conservare ancora – nonostante complottismi e fake-news – la “sincera speranza che gli altri sappiano infine che cosa è il buono e il bello o che ciò, almeno, possa risultare dalla indagine comune”.