Il problema della propaganda politica (nascosta) e della disinformazione su internet rischia di raggiungere livelli mai visti nei prossimi mesi.
Nel corso del 2019 circa un terzo della popolazione mondiale si recherà al voto, dall’India al Canada all’Australia passando ovviamente per l’Europa con le elezioni per il parlamento a maggio.
E’ innegabile che i social network avranno un peso in queste elezioni (da ultimo l’hanno avuto in quelle del Brasile) ed è per questo che dovremmo aspettarci una loro assunzione di responsabilità.
Al momento, tuttavia, a quanto emerge dalle ultime vicende, le principali piattaforme non sembrano interessate a una soluzione definitiva, pur avendo a disposizione enormi risorse tecniche ed economiche.
Molte dichiarazioni e misure sparse attivate – come quelle di Facebook per rendere più trasparente la pubblicità politica in vista delle elezioni europee di maggio. Ma non è un caso che le principali istituzioni interessate – la Commissione europea e l’americana Ftc – continuino a lanciare messaggi di preoccupazione: una soluzione reale al problema non c’è ancora all’orizzonte.
La propaganda straniera sui social
Per esempio, qualche giorno fa uno studio della University of Southern California ha evidenziato una crescita dei bot usati a scopo di disinformazione politica su Twitter, in occasione delle elezioni di mid term autunnali negli Usa. I ricercatori hanno scovato 15mila bot provenienti da Iran, Russia, Venezuela ma anche dagli Stati Uniti, con messaggi tesi ad alimentare discordia tra i votanti (soprattutto tra le minoranze) e confusione sul voto (giorno, modalità…). Twitter ha all’epoca ha rimosso 10mila bot per questi motivi. A una settimana dal voto, la ricerca ha scovato 250mila bot su un totale di 750mila utenti umani.
Qualche giorno fa invece Twitter ha rimosso account di origine russa tese a diffondere teorie della cospirazione di estrema destra (usando hashtag in passato collegate al supporto del presidente Usa Trump).
A gennaio Facebook ha rimosso pagine di origine russa e ucraina che diffondevano messaggi anti Nato.
Ad agosto 2018, simili azioni da parte di Facebook, Twitter e Google su account russi e iraniani, sempre tesi ad alimentare discordia, diffondere teorie di estrema destra, divisive e coerenti con ideologie politiche dei propri governi.
Controllare la disinformazione
La sensazione è quella di svuotare il mare con un secchiello. Perché manca un’azione complessiva coordinata e organica. Lo dimostra anche la presenza di altre iniziative, di senso opposto.
Facebook ad esempio ha appena limitato la possibilità di accedere alla propria piattaforma ai sistemi di terze parti che vogliono analizzare e scovare fake news soprattutto a quelle di propaganda.
Come se non bastasse due delle strutture accreditate per il cosiddetto “fact checking” (Associated Press e Snopes) hanno interrotto la loro collaborazione con il gigante blu a causa della poca trasparenza da parte dei collaboratori di Zuckerberg.
Non è da meno Google (perlomeno quella italiana) che durante la recente audizione in Commissione trasporti alla Camera dei Deputati ha sostenuto di non avere la responsabilità di decidere quali notizie siano vere e quali siano false.
Partiamo da qui: se è corretto dire che Google non possa assumersi le responsabilità delle informazioni che viaggiano sulla rete è altrettanto vero che il motore che governa il 90% del traffico quotidiano sul web, abbia le competenze e le risorse per affrontare e vincere questa sfida intercettando ed analizzando un certo tipo di traffico prima che diventi virale.
Lotta alle fake news, tecnicamente è possibile
Se cosi non fosse, avrei difficoltà a comprendere il perché della profilazione degli utenti che dopo avere visitato un determinato sito, vengono bombardati da proposte pubblicitarie di ogni tipo senza che abbiano la minima possibilità di contenere questa invasione di “spam” legalizzato da big G.
Non credo che Google, che è in grado di controllare fino a 14mila volte in un giorno il nostro smartphone e quindi le nostre abitudini, non sia in grado di affrontare la cosiddetta disinformazione partendo dall’origine della notizia.
Tecnicamente non è impossibile sapere da dove arriva un’informazione altrimenti non si spiegherebbe il motivo per cui quasi il 90% delle notizie di incitamento all’odio siano intercettate e rimosse durante le prime 24 ore dalla loro pubblicazione.
L’importanza delle fonti
E qui si apre un secondo aspetto importante: le fonti.
Sappiamo tutti che propaganda e disinformazione esistono da sempre, ma da quando viviamo nella cosiddetta “economia della reputazione” dove piacere agli altri è più importante che dire la verità, è diminuita la nostra capacità di distinguere le fonti autorevoli dai ciarlatani.
Perché? Se ci limitiamo al nostro paese, è noto che ogni giorno oltre il 70% degli italiani è online ed utilizza il web come primo veicolo d’informazione. La cosa diventa ancora più curiosa se consideriamo il fatto che buona parte di questo 70% prende le news dai social media e principalmente dai profili degli amici e quindi dalla propria rete probabilmente per due motivi: fiducia e pigrizia.
Non ho bisogno di verificare l’attendibilità di un mio “amico” anche se virtuale, (altrimenti non farebbe parte della mia rete) e poi, se prendo da lui un’idea che ha già consenso, risparmio la fatica di farmene una mia e cavalco quel consenso per migliorare la mia reputazione on line. Semplice no?
Tutti i big di internet hanno costruito le loro fortune sulla nostra pigrizia e sulla nostra fiducia, non dimentichiamolo mai!
Tornando alle fonti, Facebook ha dichiarato di voler contrastare il fenomeno realizzando un database per la raccolta delle pubblicità politiche tramite il quale sia possibile stabilire con certezza il soggetto che acquista gli spazi e la sua collocazione geografica, che ovviamente dovrà essere attinente al tipo di messaggio che si vuole pubblicizzare. In pratica se sono un utente russo non potrei più acquistare spazi per pubblicare informazioni che riguardino la politica degli Stati Uniti ( ogni riferimento è da intendersi puramente casuale).
Anche in questo caso non entro negli aspetti puramente tecnici della questione, mi limito semplicemente ad osservare che l’idea è sicuramente interessante e ad augurarmi che nessuno di noi creda al fatto che fino ad oggi per Zuckerberg non fosse “tecnicamente” possibile conoscere ogni singolo dettaglio delle nostre vite.
Il nodo della privacy (e della nostra pigrizia)
Si tratta di uno degli uomini più ricchi al mondo, a capo di una delle aziende più capitalizzate della storia e solo oggi ci propone un database per catalogare l’origine delle fonti? Onestamente mi sembra poco serio.
Ancora una volta il problema è uno solo: la privacy. Ma badate bene, la loro privacy, non la nostra.
A parole si dichiarano disposti a collaborare, nei fatti propongono alcune limitate concessioni ed intanto il tempo passa e non arrivano soluzioni concrete.
Non vogliono che nessuno metta il naso nei loro sistemi nati e cresciuti solo per fare soldi con i nostri dati ed approfittando, lo ribadisco, della nostra fiducia e della nostra pigrizia.
A proposito di pigrizia, ho fatto una piccola ricerca su una notizia apparsa alcune settimane di una ricerca condotta da New York University e di Princeton, sul fatto che gli over 65 diffondano sui social più fake news rispetto ai millenials.
Per qualche giorno anche i media tradizionali ne hanno parlato diffusamente, cosi ho deciso di dare uno sguardo al sommario della ricerca ed ho scoperto che l’indagine riguardava un campione di soli 3500 cittadini americani, oltretutto intervistati sulle elezioni politiche USA del 2016.
Sarebbe bastato arrivare a questo primo livello di dettaglio per comprendere quanto la notizia fosse priva di fondamento, ma se avessimo approfondito, avremmo scoperto poi che soltanto l’11% di quegli utenti over 65 ha condiviso fake news, contro il 3% degli utenti tra 18 e 29 anni ed il motivo era molto semplice: ai millenials non interessa la politica.
Quindi? Una notizia falsa sulle fake news?
No, si è trattato semplicemente di sfruttare quella vulnerabilità del nostro cervello che si chiama pigrizia per creare una diversa interpretazione della notizia.
Le linee guida Ue contro il click-baiting
Tornando all’Europa ed alle prossime elezioni politiche, nello scorso aprile la Commissione europea chiedendo la collaborazione di tutti gli attori del mondo internet ha suggerito alcune linee guida tra cui il monitoraggio del fenomeno del click-baiting (una tecnica molto usata per diffondere notizie false), la trasparenza dei contenuti politici sponsorizzati e la chiusura di falsi profili e bot che diffondono disinformazione.
Per questi ultimi si è fatto qualcosa anche perché scovarli e chiuderli è stato di basso costo e di grande impatto mediatico, ma sulla trasparenza e sulla possibilità di consentire ad esempio a ricercatori indipendenti o a giornalisti di analizzare le dinamiche della disinformazione sui social e il funzionamento degli algoritmi sono tutti molto cauti.
La risposta di Whatsapp
Unica mossa in controtendenza, anche se tutta da verificare nei risultati, è la recente scelta degli sviluppatori di WhatsApp che hanno deciso di limitare il numero di condivisioni dei post all’interno dei gruppi.
Anche in questo caso si tratta di scelta obbligata da alcuni episodi che hanno minato l’immagine della piattaforma di messaging soprattutto in Asia dove è usata al pari di un social network.
Mi riferisco a quanto accaduto in India, dove la diffusione di notizie false su alcune persone accusate di molestie verso minori, è arrivata a tal punto da scatenare veri e propri linciaggi per i quali è stato necessario l’intervento della polizia.
Su WhatsApp non si potrà condividere per più di 5 volte un contenuto ed anche se cosi facendo sarà ancora possibile raggiungere più di 1300 persone, si limiterà in maniera esponenziale la diffusione di notizie non attendibili.
Il peso dei social sulle elezioni
In vista delle prossime elezioni in molte importanti aree del mondo, dall’India al Canada all’Australia passando ovviamente per l’Europa, il peso dei social network si farà sentire e una loro assunzione di responsabilità sarebbe un segnale importante.
Non credo che entro le prossime elezioni europee di maggio avremo tanti strumenti in più rispetto agli attuali per combattere la disinformazione, ma spero che sia possibile sviluppare la consapevolezza che il vero problema non risieda tanto nella tecnologia, quanto nell’uso che siamo disposti a farne.
Occorre diffondere la cultura dell’uso consapevole degli strumenti che abbiamo a disposizione e soprattutto mai come in questa circostanza, dimenticare una frase tristemente vera, pronunciata in uno dei periodi più bui della storia dell’umanità: “Ripetete una bugia, cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità”.