Dopo il decreto Foia, quanto è ampia davvero la freedom of information nei confronti delle istituzioni? Cosa cambia nel nostro ordinamento? La questione è stato argomento di un convegno il 26 maggio al Forum pa 2016.
In premessa, è opportuno rilevare che, a seguito del decreto legislativo in oggetto, nell’ordinamento giuridico italiano convivono due strumenti di accesso:
l’accesso ai sensi della legge 241/1990, che necessita di legittimazione soggettiva e di motivazione e che non viene superato dal provvedimento normativo in oggetto;
l’accesso civico “generalizzato” ai sensi del d.lgs. 33/2013, che viene profondamente modificato e reinterpretato: chiunque senza motivazione ha diritto di accedere ai dati e ai documenti detenuti dalla P.A. (non solo quelli oggetto di pubblicazione obbligatoria, come nel testo prima di questa riforma), ma rischia di incontrare limiti oggettivi, dal momento che sono previste numerose e ampie eccezioni.
Costituisce punto di forza del decreto legislativo approvato dal Consiglio dei Ministri il recepimento di molti aspetti sollevati sia dagli organi preposti al rilascio di pareri (quali il Consiglio di Stato, l’Autorità Nazionale Anticorruzione – ANAC, il Garante per la protezione dei dati personali e le Commissioni Affari costituzionali di Camera e Senato), sia dalla stessa società civile.
Innanzitutto, dal punto di vista dell’istanza di accesso, si prevede nel testo approvato la necessità di identificare i dati, le informazioni e i documenti oggetto dell’istanza, ma si elimina la necessità di “identificare chiaramente”, obbligo che il Consiglio di Stato (parere del 18/02/2016) aveva definito “incongruo”. Da accogliere con favore anche la previsione del rilascio gratuito di dati o documenti in formato elettronico o cartaceo, salvo il rimborso del costo “effettivamente sostenuto e documentato dall’amministrazione per la riproduzione su supporti materiali”: è stata accolta l’indicazione in tal senso delle Commissioni parlamentari, che si sono espresse il 20/04/2016.
In linea con le richieste della società civile, del Consiglio di Stato e delle Commissioni parlamentari, il decreto legislativo prevede che il procedimento di accesso civico debba concludersi con provvedimento “espresso e motivato” nel termine di 30 giorni dalla presentazione dell’istanza e il rifiuto, il differimento e la limitazione dell’accesso debbano essere motivati con riferimento ai casi e ai limiti stabiliti dall’art. 5-bis del decreto legislativo stesso, relativo alle esclusioni e ai limiti dell’accesso civico. Al riguardo, il decreto legislativo approvato in via preliminare aveva previsto la possibilità di silenzio-rigetto, che viene adesso eliminata: del resto, il Consiglio di Stato aveva definito come “paradosso” il fatto che «un provvedimento in tema di trasparenza neghi all’istante di conoscere in maniera trasparente gli argomenti in base ai quali la P.A. non gli accorda l’accesso richiesto».
Rispondendo alle sollecitazioni durante l’iter di approvazione, il decreto legislativo prevede adesso, accanto al ricorso al giudice amministrativo e alla possibilità di richiesta di riesame al responsabile della prevenzione e della trasparenza dell’amministrazione (che decide con provvedimento motivato entro 20 giorni), la possibilità del rimedio stragiudiziale, in particolare nel caso di atti delle regioni o degli enti locali, costituito dal ricorso al difensore civico competente per ambito territoriale, ove costituito, che si pronuncia entro 30 giorni. Questo rimedio non convince particolarmente, dal momento che si tratta di figura non necessariamente presente: a questo proposito lo stesso decreto legislativo prevede che laddove non istituito la competenza è attribuita al difensore civico competente per l’ambito territoriale immediatamente superiore. E’ stata sollevata al riguardo la critica che possa non rivelarsi misura efficace in concreto, anche proprio in considerazione di questo profilo.
Rispetta le sollecitazioni ricevute al riguardo da ANAC e dalle Commissioni parlamentari la previsione di linee guida recanti indicazioni operative, adottate dall’ANAC, d’intesa con il Garante per la protezione dei dati personali e sentita la Conferenza Unificata, ai fini della definizione delle esclusioni e dei limiti dell’accesso civico. La previsione delle linee guida cerca di rispondere alle critiche sollevate dagli organi preposti e dalla società civile in merito all’ampiezza e alla genericità delle eccezioni. Al riguardo, seppur adesso il decreto legislativo parli più specificatamente di “pregiudizio concreto” alla tutela di uno degli interessi pubblici tutelati, continuano ad essere previste eccezioni particolarmente generiche: si pensi agli interessi pubblici inerenti «la politica e la stabilità economica e finanziaria dello Stato». La previsione delle linee guida, seppur possa costituire un’importante “bussola” operativa, non rimedia certo all’ampiezza delle eccezioni previste dal decreto legislativo e, quindi, dalla norma di rango primario, che pone i termini ai sensi dei quali va condotto il complesso bilanciamento tra il right to know e i numerosi interessi contrapposti, non sempre puntuali (aspetto sollevato peraltro dal Consiglio di Stato e ANAC, oltre che dalla società civile).
A questo aspetto di criticità, si accompagna la mancata previsione di sanzioni chiare e puntuali per i casi di diniego illegittimo di accesso: la necessità della previsione all’interno di una disposizione di rango normativo era prevista nella stessa legge delega che in modo chiaro ed esplicito nell’art. 7, comma 1, lett. h), dispone, fra i criteri e i principi della delega, «la previsione di sanzioni a carico delle amministrazioni che non ottemperano alle disposizioni normative in materia di accesso», accanto alle «procedure di ricorso all’Autorità nazionale anticorruzione in materia di accesso civico e in materia di accesso». L’assenza di sanzioni può tradursi in concreto in un vulnus all’effettività del diritto a conoscere.
Si somma alle suddette criticità, che il nuovo testo non risolve, la mancata specificazione dei diversi ambiti e limiti di applicazione tra l’accesso della legge 241/1990 e quello del d.lgs. 33/2013, aspetti che anche le Commissioni parlamentari e la società civile avevano sollevato. Sotto il profilo delle possibilità di accesso ai dati, seppur siano diversi i requisiti che li rendono azionabili, i due strumenti non sono fra loro coordinati in modo specifico e possono crearsi dubbi applicativi: il decreto legislativo si limita al riguardo a prevedere che restano ferme le diverse forme di accesso degli interessati previste dal capo V della legge 241/1990.
Last but not least, sotto il profilo della trasparenza, limitandosi ad alcuni aspetti degni di particolare attenzione, non è da accogliere con favore la diminuzione degli obblighi di pubblicazione previsti dal d.lgs. 33/2013: la riforma ha, infatti, abrogato alcuni obblighi di pubblicazione che andavano a costituire il contenuto minimo della sezione “Amministrazione trasparente”. A tali abrogazioni si somma la previsione della possibilità per le amministrazioni, al fine di evitare duplicazioni, nei limiti dei dati effettivamente contenuti nelle banche dati, di adempiere agli obblighi di pubblicazione mediante la comunicazione dei dati, delle informazioni o dei documenti detenuti e con la pubblicazione del collegamento ipertestuale alla banca dati contenente i relativi dati, informazioni e documenti: seppur si ribadisca la necessità di assicurare la qualità dei dati, questa previsione può tradursi in minor facilità e immediatezza per il cittadino nel reperimento di questi dati. Di conseguenza, da queste misure concretamente può risultare indebolito il livello di trasparenza delle pubbliche amministrazioni contrariamente alla ratio del provvedimento.
In conclusione, resta il forte plauso, tributato anche dal Consiglio di Stato, al riconoscimento al cittadino di «un vero e proprio diritto alla richiesta di atti inerenti alle pubbliche amministrazioni, a qualunque fine e senza necessità di motivazioni» e alla previsione di una «trasparenza di tipo “reattivo”, cioè in risposta alle istanze di conoscenza avanzate dagli interessati», che viene valutata come «una sorta di rivoluzione copernicana» per l’ordinamento nazionale: oggi esiste un vero e proprio right to know, seppur rimangano le forti criticità esaminate che possono indebolire lo strumento in concreto.
Aspetto degno di plauso è inoltre il confronto proficuo fra Governo e società civile, che ha portato a concreti miglioramenti del testo e che va nell’ottica di un reale open government italiano. Nell’iter di attuazione del testo sarà necessario mantenere questa proficua collaborazione, in particolare nella redazione delle linee guida di carattere operativo. E, magari, in un futuro non troppo lontano potranno anche essere apportate modifiche e integrazioni al testo, per migliorarlo e permettere al diritto a conoscere di essere il più possibile effettivo in concreto.
Questo atto apre una strada da continuare a percorrere con convinzione per garantire un diritto di libertà.
E’ solo l’inizio.