Il digitale pone molte sfide sociali, nuove opportunità e anche inediti rischi. Questi ultimi possono essere affrontati e temperati attraverso la regolamentazione e le leggi, ma soprattutto attraverso l’educazione alle nuove tecnologie: è la cultura la vera chiave di volta di un “buon governo” diffuso, dal basso, delle tecnologie digitali e delle sue conseguenze sociali. È questo il presupposto della Summer School “Orientarsi nel pensiero: filosofia e mondi digitali”[1] dell’Università di Udine: credere nella centralità della formazione alle nuove tecnologie, e favorire un dibattito critico e creativo sulle sfide del “mondo nuovo”.
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La Summer School si terrà interamente online, dal 1 al 5 giugno 2021. Rivolta a tutti gli appassionati di filosofia e scienze sociali, e in particolar modo agli studenti delle scuole superiori (per i quali l’iscrizione è gratuita – domanda da presentare entro il 26 maggio mattina), questa scuola estiva intende essere uno spazio dove la riflessione critica aiuta ad affrontare al meglio le sfide di un mondo sempre più digitalizzato.
Nell’ambito della Summer School, diretta da Luca Taddio, si parlerà di antropologia, scienza, etica, arte, economia, società e ovviamente politica. Tutto ciò declinato all’epoca della cosiddetta “rivoluzione digitale”.
Come il digitale cambia i vari settori della società e la vita di tutti noi? Ma soprattutto, quanto questi cambiamenti sono desiderabili? Cosa tenere e cosa migliorare? La transizione digitale, secondo l’approccio di Luca Taddio e del gruppo di lavoro udinese, va governata, gestita, accompagnata, evitando al tempo stesso passatismi velleitari ed entusiasmi superficiali.
In questo articolo si vuole anticipare un tema, riguardante la sfera pubblica al tempo delle piattaforme digitali, che verrà affrontato il primo giorno della scuola estiva, nell’incontro “Popolo, istituzioni e media digitali”.
Relatore del pomeriggio, insieme al sottoscritto, sarà Mauro Barberis, professore ordinario di Filosofia del diritto all’Università di Trieste.
Il paradosso del pluralismo. Effetti delle echo chambers
Senza dubbio Internet ha permesso la moltiplicazione delle fonti informative. Recandosi sul web ognuno può – facilmente e a costi molto bassi – pubblicare, condividere e diffondere idee, opinioni, informazioni. Le applicazioni del cosiddetto Web 2.0 sono progettate con un’interfaccia che consente anche ad utenti inesperti di pubblicare e condividere con estrema facilità contenuti. Inoltre, nel succedersi degli anni, sempre più persone stanno facendo ingresso nella sfera pubblica digitale. Similarmente a quanto accadde nel XV secolo a seguito dell’invenzione della stampa a caratteri mobili da parte Johannes Gutenberg, nel XXI secolo il sistema dei media fondato sulle reti promuove una moltiplicazione delle fonti di informazioni. Il corpus digitale diventa quantitativamente più ampio, più grande, aumenta progressivamente la quantità di informazione disponibile. Come spiega Ferraris nel suo ultimo libro Documanità (Laterza 2021), il web è il più grande apparato di registrazione e accumulazione di dati che l’umanità abbia sinora sviluppato.
Tuttavia, sarebbe prematuro concludere che si tratti dell’Eden dell’informazione. Secondo alcuni studi scientifici, infatti, ad un aumento “quantitativo” delle fonti informative sembra non corrispondere un aumento del pluralismo “qualitativo”. Secondo l’ideale pluralista, la diversità e il dissenso sono valori che proteggono la libertà e che, al tempo stesso, portando argomenti diversi in dialettica fra loro, arricchiscono sia l’individuo sia la sfera pubblica. È l’idea di confronto liberale e democratico di John Stuart Mill, presentata in On liberty, basata esplicitamente sulla libertà di espressione e implicitamente sull’ampia disponibilità di opinioni diverse. Pluralismo però, come sottolinea Sartori in Pluralismo, multiculturalismo e estranei, (Rizzoli 2000), non significa mera divisione fra un certo numero di opinioni diverse (questa, piuttosto, è pluralità, o complessità strutturale) significa invece che le diverse parti dovrebbero entrare in rapporto fra loro nell’ambito della comunità politica, diventando componenti positive del loro intero. In questo senso, si può sostenere che il sistema politico democratico si ispira all’ideale della concordia discors, ovvero su un’armonia discorde ma produttiva, sul consenso arricchito e alimentato dal dissenso.
Per importanti teorici politici come Berlin, Rawls e Arendt, in una democrazia “sana” c’è bisogno di quello che si potrebbe chiamare “pluralismo dialogico” pubblico, abilitato da un “minimo comune linguaggio” a cui ognuno possa e voglia aderire, grazie al quale comunicare, pur continuando a parlare linguaggi non pubblici divergenti e, a volte, incommensurabili. Per Berlin l’individuo deve essere libero da catene, ma pure essere in grado di “uscire” da sé stesso e dal suo gruppo di riferimento per comprendere le azioni di altri esseri umani e cogliere valori “non soggettivi”. Per Rawls le persone hanno differenti dottrine (denominate “comprensive”), ma al tempo stesso devono essere ragionevoli, mantenere una postura reciprocamente aperta e disponibile, al fine di convergere su un sotto-insieme di valori politici e continuare, così, nella cooperazione sociale. Per Arendt ogni individuo dovrebbe coltivare la libertà di movimento, sia di azione sia di pensiero, per abitare pienamente lo spazio della politica, ovvero quello spazio intermedio che resta tra i soggetti, al netto di appartenenze, affiliazioni, credenze.
Tuttavia, con l’avvento dei media digitali sembra essersi inaugurata una dissonanza: i media aumentano per tutti la possibilità di esprimere la propria voce (in termini quantitativi) ma al tempo stesso sembra aumentare – in maniera quasi paradossale – anche la distanza fra queste voci, mettendo quindi in difficoltà il raggiungimento delle finalità che dovrebbe avere un sistema politico pluralista (in termini qualitativi).
Pensiamo alla frammentazione, alla polarizzazione, alle echo chambers o filter bubbles in riferimento all’Internet delle piattaforme. Siamo di fronte a quello che ho chiamato, nel mio libro Potere digitale (Meltemi 2018), “paradosso del pluralismo”: da un lato i media digitali aumentano il pluralismo in senso quantitativo (facilità di espressione e numero di voci disponibili), dall’altro lato potrebbe diminuire la concordia discors, ovvero il pluralismo qualitativo. Sorte beffarda, quella di Internet ai tempi delle piattaforme: nella storia dell’essere umano non c’è mai stata tanta informazione disponibile come sul Web, eppure il suo utilizzo non è mai stato tanto frammentato e polarizzato. Certamente, durante la guerra fredda, o durante il periodo delle stragi, in Italia gli schieramenti si opponevano duramente. Ma oggi le faglie sembrano moltiplicarsi: il micro-targeting e la micro-profilazione portano alle micro-bolle.
La polarizzazione, probabilmente, ha le sue basi “materiali” su sentimenti crescenti di insoddisfazione della propria vita di grosse fette della popolazione, di mancanza di adeguata protezione sociale e di rabbia (associata alla disuguaglianza negli ultimi decenni sempre maggiore in Occidente). Ma ci può essere, parallelamente, anche una spiegazione a livello mediale e comunicativo.
In questo caso, si potrebbe trattare del risultato di una combinazione di psicologia umana, inedite potenzialità tecnologiche e architettura dell’ambiente delle piattaforme (motivato da interessi commerciali). Innanzitutto, gli individui tendono naturalmente, a causa della razionalità limitata tipicamente umana, a considerare le informazioni che confermano le proprie credenze e convinzioni precedenti, sminuendo ciò che è dissonante. Si tratta, in buona sostanza, di una naturale omofilia (“effetto gregge”): un meccanismo cognitivamente poco dispendioso in termini di energia mentale, ma fallace. Le regole dei filosofi della scienza come Karl Popper, tuttavia, consiglierebbero di provare la robustezza di una ipotesi non cercando conferme, ma provando a confutarla (principio della falsificazione).
A questa tendenza cognitiva si aggiunge la tecnologia. Se la rete ha dato alle persone accesso a una quantità di informazioni che non è mai stata così ampia, allo stesso tempo ha creato il problema di come selezionare ciò che è rilevante per ognuno. Come risposta, gli algoritmi delle piattaforme sono programmati in modo che gli utenti siano esposti tendenzialmente alle notizie che gradiscono (le capacità tecnologiche e di calcolo, basate sui big data, permettono targhettizzazioni e profilazioni degli utenti e dei loro componenti sempre più precise). Se gli individui hanno tempo limitato, gli imprenditori della comunicazione devono convincerli a stare nella piattaforma più a lungo possibile, offrendo loro contenuti per cui mostrano gradimento ed evitando accuratamente elementi frustranti e disturbanti. Più le persone frequentano una precisa piattaforma, più quest’ultima è appetibile commercialmente. L’utilizzo dei cookie, il funzionamento degli algoritmi di Google che permettono ricerche personalizzate, i suggerimenti di amicizia di Facebook e le liste su Twitter sono elementi esemplificativi che vanno nella direzione di permettere alle persone di vivere in un ambiente online sempre più “cucito addosso”, come un vestito di sartoria.
Stiamo parlando delle celebri “echo chambers” (in italiano “camere dell’eco”). Una fortunata metafora partorita dal giurista Cass Sunstein che sta ad indicare un ambiente chiuso che riflette sé stesso, una camera di risonanza in cui ognuno trova ciò che più gli piace e incontra le persone che hanno gli stessi suoi interessi. Con un conseguente “incastellamento” della sfera pubblica. Leggendo gli studi di alcuni studiosi italiani coordinati da Walter Quattrociocchi sembra che echo chamber significhi soprattutto discutere quasi soltanto con quanti hanno un orientamento coerente con il proprio, escludendo gli altri. Individui e gruppi si chiudono nella loro visione, evitando di interagire con chi la pensa diversamente e limitandosi ad interagire con chi la pensa in maniera similare, minando la possibilità che il pluralismo non si traduca soltanto in una mera differenziazione delle voci, ma in una concordia discors, un approssimarsi dialogico ad un consenso corroborato dal confronto fra opinioni diverse.
Verso la fine del laissez faire? Tre idee ingenue per un pluralismo dialogico
Il dibattuto scientifico sulle echo chambers è tuttora aperto. Alcuni ritengono che i loro effetti siano stati sopravvalutati: perché la dieta mediale delle persone non prevede soltanto le piattaforme (è invece variabile e soprattutto ibrida), perché gli studi sulle echo chambers sono stati condotti sulle comunità di Internet composte dalle persone più attive e quindi “partigiane” (e non sulla “maggioranza silenziosa” degli utenti), perché non mancano i casi di confronto dialogico (ad esempio nelle piattaforme civiche). Considerazioni che lasciano ben sperare per la salute della democrazia basata (anche) sul confronto fra opinioni diverse.
Tuttavia, anche se le echo chambers dovessero (come si auspica) rivelarsi tutto sommato trascurabili nei loro effetti, ci si chiede (pensando non solo al mondo esistente, ma anche al mondo che vorremmo) come dovrebbe essere organizzata la sfera pubblica e come dovrebbero essere affrontate, nel modo migliore possibile, le questioni d’interesse pubblico, al fine di tutelare stabilità, inclusività e legittimità del regime democratico. Idealmente, quali condizioni e quali assetti comunicativi, al giorno d’oggi anche e soprattutto nei media digitali, potrebbero favorire un “sano” confronto democratico? Si tratta di passare, insomma, dal livello empirico-sociologico a quello normativo-filosofico.
Da questo secondo punto di vista, governare il “pluralismo polarizzato” algoritmico significherebbe, innanzitutto, abbandonare un approccio di totale laissez faire nei confronti delle grandi piattaforme, per adottare misure ispirate da un approccio più attivo e al tempo stesso prudente, liberale nel senso tradizionale del termine, ossia ispirato al principio della divisione e dell’equilibrio dei poteri. Come è noto, le maggiori piattaforme intermediano larghissime parti di traffico nel loro mercato di riferimento (ad esempio, Google nel settore dei motori di ricerca, Facebook-Instagram in quello dei social network), “ospitando” con le proprie regole private, e le loro (legittime) logiche commerciali, quote rilevanti di confronto pubblico. Dal canto suo, però, il potere politico può tutelare, in ultima istanza, alcuni principi democratici fondamentali, se diventa evidente che la “mano invisibile” del mercato non riesce a rispettarli autonomamente.
Teoricamente, nel momento in cui siamo certi che quello delle echo chambers sia un problema effettivo, quest’ultimo potrebbe essere mitigato da tecnologie e ambienti digitali opportunamente orientati dalle istituzioni democratiche attraverso leggi e politiche pubbliche. Proviamo, quindi, ad avanzare alcune ipotesi di “azioni mitigatorie” da parte del potere democratico, del tutto ingenuamente (si tratterà, a cura di esperti nel campo giuridico, economico e tecnologico, di delineare le azioni precisamente, valutandone l’effettiva praticabilità ed effettuando un preciso calcolo di costi-benefici).
La prima azione pubblica, che ho raccolto da Floridi (Professore ad Oxford e prestigioso docente della Summer School udinese) durante un’intervista per la Fondazione Bassetti di Milano[2], potrebbe essere quella di porre dei limiti alla pubblicità online, attenuando di conseguenza le finalità di tipo commerciale che, oggi, spingono le piattaforme ad aggressive attività di profilazione e personalizzazione. Stabilendo per legge una quota di pubblicità da non superare per ogni azienda, si limiterebbero gli incentivi di sistema che spingono le piattaforme digitali a studiare i gusti degli utenti e a offrire contenuti tanto personalizzati da produrre bolle informative. A questo punto, per sopravvivere, le aziende digitali dovrebbero introdurre massicciamente contenuti a pagamento.
Questa proposta, tuttavia, sembra debole per due motivi principali. In primo luogo, presuppone che gli enormi guadagni delle piattaforme possano essere significativamente sostituiti dalle “fee” dei singoli utenti per i servizi. In secondo luogo, quello che Floridi sembra sottovalutare, e che invece Shoshana Zuboff mostra chiaramente nel suo Il capitalismo della sorveglianza (Luiss 2018), è che la vendita della pubblicità sulle piattaforme è solo la “punta dell’iceberg”. La centralità sta, piuttosto, nella raccolta di dati dei giganti digitali per una molteplicità di finalità. Ad esempio, un’azienda di assicurazioni potrebbe avere scarso interesse nel pubblicizzare i suoi prodotti su Facebook o su Google, ma potrebbe essere estremamente interessata a conoscere i dati raccolti dalle piattaforme per calcolare in maniera precisa i premi assicurativi dei suoi clienti. Ma come vengono raccolti questi dati? Facendo permanere gli utenti nelle piattaforme. E come si cattura l’attenzione degli utenti? Migliorando la personalizzazione dell’esperienza basata sui dati.
In questo senso, una possibile risposta è rappresentata dal recente Regolamento generale sulla protezione dei dati dell’UE (Gdpr): ponendo limiti alla profondità e all’estensione della raccolta di dati personali dei cittadini, la profilazione e la personalizzazione dovrebbero essere di necessità meno stringenti.
Seconda ipotesi: lo Stato (ad esempio, tramite l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni) potrebbe obbligare le piattaforme online ad offrire ai suoi utenti una quota minima di “incontri casuali”, soprattutto per quanto riguarda alcune informazioni, come quelle di rilevanza pubblica. Introdurre notizie e informazioni casuali sarebbe un adattamento algoritmico semplice per le piattaforme dei social media e salutare per il pluralismo dialogico. Quando si acquistano su un sito prodotti come una televisione, un tostapane, una lampada, la profilazione e la personalizzazione possono essere utili per fare corrispondere automaticamente l’offerta del prodotto con il gusto del cliente, offrendo di fatto un servizio migliore, sicuramente apprezzabile. Ciò non mette in pericolo la democrazia liberale.
Quando però si tratta di informare su questioni di pubblica rilevanza, l’effetto rischia di essere diverso: il fatto di offrire all’utente soprattutto informazioni già in linea con le proprie lo può rassicurare, può renderlo individualmente più soddisfatto e sereno, ma complessivamente limita la possibilità di considerare ipotesi diverse, erode la capacità di confrontarsi con spirito dialogico con nuovi punti di vista, che invece autori come Berlin, Rawls e Arendt ritengono essenziale.
In fondo, il legislatore italiano, con la cosiddetta legge sulla “par condicio”, si è già preoccupato di garantire che i cittadini ricevano un’informazione televisiva legata a opinioni politiche il più possibile plurale ed equilibrata. Al di là dei limiti di questa legge, ciò che è rilevante ai fini del nostro ragionamento è che mira a difendere, in ambito radiotelevisivo, sia un esercizio universale dell’elettorato passivo sia, più in generale, la tutela del diritto ad un’informazione (pluralista) da parte di tutti i cittadini: nessuna emittente può decidere arbitrariamente di dare eccessivo peso ad un solo punto di vista politico. Un principio simile potrebbe essere applicato, con i debiti distinguo, per quanto riguarda il medium digitale. In questo caso, diversamente dalla televisione, non si tratterebbe soltanto di prevenire il rischio che un’azienda offra un’informazione eccessivamente parziale, ma anche di limitare il rischio che una piattaforma offra ai propri clienti soltanto opinioni o idee già allineate con i loro gusti.
Una terza linea di azione ingenua potrebbe essere la promozione diretta di esperienze di comunicazione online che, come prescritto dalle teorie liberali di Berlin, Rawls e Arendt, siano ispirate al principio del pluralismo inclusivo e del confronto dialogico fra diversi. Tornando ancora una volta al parallelismo con il medium televisivo, il servizio pubblico (come la RAI o la BBC) è stata forse l’invenzione più importante e influente che l’Europa abbia saputo creare nel settore della comunicazione di massa nel Novecento. Digitalmente, si pensi ai servizi pubblici sul web, potenziati durante la pandemia Covid19. La base di questo impegno potrebbe essere l’identità pubblica digitale che oggi, in una forma embrionale, permette di accedere ai servizi online della Pubblica Amministrazione e dei soggetti privati aderenti. Generalmente lo stato è percepito come conservatore e poco innovativo, troppo grosso e pesante per fungere da motore dinamico, quindi incapace di offrire servizi anche minimamente comparabili a quelli delle piattaforme private. Ma, come è stato spiegato recentemente da Mazzucato in Lo stato innovatore (Laterza 2011), questa percezione è un mito privo di solido fondamento, in quanto è stato proprio lo stato, nelle economie avanzate, a farsi carico del rischio delle grandi innovazioni sistemiche, ad esempio rendendo possibile la creazione di tecnologie rivoluzionarie come quelle che rendono gli smartphone così ‘smart’.
Del resto, come mostra De Blasio, dell’Università LUISS di Roma, in Il governo online (Carocci 2018), in ambito civico e comunale sono moltissimi gli esempi di piattaforme digitali di informazione, partecipazione e collaborazione. Si tratta, in genere, di siti che mettono in comune dati, notizie, progetti su cui la comunità può dialogare e confrontarsi con l’obiettivo di maturare decisioni di interesse generale il più possibile inclusive. Le intenzioni dei decisori pubblici che promuovono queste iniziative sono di creare ecosistemi digitali ispirati ai principi democratici, assumendo che le preferenze degli attori, attraverso il confronto fra punti di vista contraddittori, possano trasformarsi nel corso dell’interazione. Queste piattaforme mosse da finalità non commerciali, ma civiche e pubbliche che, se estese e messe a sistema, potrebbero costituire una sorta di “servizio pubblico digitale” in grado di difendere i principi pluralisti e il dialogo inclusivo.
Come dicevamo, si tratta di idee ingenue. Queste tre ipotesi potrebbero essere inadeguate: i costi potrebbero superare di gran lunga i vantaggi. Oppure no. Potrebbero esserci anche molte ipotesi alternative, migliorative. Ma vale la pena riflettere collettivamente su come le ICT, in particolare l’Internet delle piattaforme, potrebbero “abilitare” una sfera politica abitata da un insieme di soggetti in relazione fra loro. Mitigando, almeno in parte, l’acuirsi di conflitti su faglie socialmente e politicamente già problematiche di per sé, come quelle che riguardano il rapporto fra religioni, visioni politiche, scelte alimentari o sulla vita, che su Internet, a causa del fenomeno della polarizzazione e delle echo chambers, potrebbero vedersi confrontare di meno e contrapporsi di più. Il conflitto spesso è positivo, storicamente è stato un motore di progresso e di uguaglianza insostituibile. Ma sarebbe meglio fosse un conflitto ragionato, consapevole, e non cieco, portato avanti con i paraocchi.
Note
- https://www.uniud.it/it/didattica/formazione-continua/winter-summer-school-altre-iniziative/ss-orientarsi-nel-pensiero ↑
- https://www.fondazionebassetti.org/it/focus/2018/01/le_filter_bubbles_non_sono_ne_.html ↑