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Fortnite, campione di consumer engagement: la lezione per chi fa marketing

Cosa ci dice il successo planetario di Fortnite. Battle Royale in fatto di marketing e consumer engagement: ecco in che modo una piattaforma di videogame si è trasformata in un brand per il quale il consumatore è disposto a spendersi in maniera del tutto spontanea e volontaria.

Pubblicato il 27 Mar 2019

Gabriele Qualizza

Assegnista di ricerca, Università di Udine

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Il successo planetario di “Fortnite. Battle Royale”, che a poco più di un anno dal lancio è il videogame numero uno al mondo, al di là delle ovvie preoccupazioni di genitori e psicologi per il livello di dipendenza che crea in chi ci gioca, può offrire indicazioni utili ai marketing manager interessati a valorizzare le dinamiche del consumer engagement.

Lungi dal voler minimizzare i rischi connessi alle forme estreme di game addiction denunciate da schiere di genitori preoccupati per i comportamenti ossessivi dei propri figli – sempre più incapaci di trovare un punto di equilibrio tra i tempi dedicati al gioco e quelli da impegnare in altri interessi e in altre attività (Gholipour, 2018) – quello che vorremmo provare qui a fare è gettare uno sguardo laterale, impertinente e inconsueto, su una materia che è attualmente oggetto di accese discussioni, con l’occhio disincantato di chi si occupa per professione di comunicazione del brand e di consumi digitali.

Ma procediamo con ordine.

Che cos’è  “Fortnite. Battle Royale”

Scaricabile gratuitamente dal sito della casa produttrice Epic Games, “Fornite. Battle Royale”? è un videogame multi-player che combina le dinamiche del classico “sparatutto” online con meccanismi più sofisticati, simili a quelli rintracciabili in un gioco di costruzioni come “Minecraft”. In altri termini, si raccolgono armi e strumenti utili, si spara, ci si nasconde e si sfrutta l’ambiente a proprio vantaggio, ma al tempo stesso è possibile anche fare gioco di squadra, esplorare gli ambienti e costruire edifici e piattaforme per aiutarsi lungo il cammino. In ogni sessione di gioco – che dura in genere una ventina di minuti – cento “combattenti” vengono paracaduti su un’isola, ove sono inesorabilmente portati a incontrarsi e a farsi fuori a vicenda. Al termine, ne resta in piedi solo uno, che viene proclamato vincitore.

We-branding e ruolo della community

Quali implicazioni possiamo trarre per il marketing da questo caso di successo?

Nell’era dei social network e del “connected consumer”, Fortnite non si limita ad essere una piattaforma di gioco online, ma si propone a tutti gli effetti come un brand, capace – al pari di altre marche digitali oggi molto in voga, come Amazon, Facebook, Google, Uber, Trivago, YouTube – di attingere ad uno specifico aspetto del più ampio immaginario culturale esistente nella società (Codeluppi, 2017).

In questo senso, Facebook incarna i valori dell’amicizia e della relazione sociale; Google è l’aiutante magico che aiuta a risolvere i mille problemi della vita quotidiana; Fortnite è una riserva di rischio e di avventura in un mondo in cui ogni istante della nostra esistenza è attentamente pianificato. Tale immaginario viene vivificato e mantenuto costantemente attivo attraverso il contributo dei consumatori, che utilizzano il brand per dialogare tra loro (Kozinets, 2014).

Il presupposto è un nuovo modello di comunicazione, non più intesa come “trasmissione” delle informazioni, ma come costruzione di una realtà sociale condivisa. In questo contesto, la marca non rappresenta più una semplice etichetta, utile a differenziare l’offerta di un’azienda dalle proposte di quelle concorrenti, o una garanzia di eccellenza riferita a una specifica linea di prodotti, ma identifica un mondo, un ambiente, un territorio, all’interno del quale gli scambi comunicativi e le attribuzioni di senso diventano possibili, con il contributo attivo di tutti gli attori coinvolti (Semprini, 1996; Firat e Venkatesh, 1995; Muniz e O’Guinn, 2001).

Al pari di Facebook, Fortnite mette a disposizione dei propri utenti un “template” di marca dinamico, coerente nei valori di fondo, ma adattabile a molteplici contesti: una mappa, un insieme di regole da rispettare, armi e strumenti. Uno schema cognitivo. Che i giocatori riempiono di contenuti, ricombinando in infinite variazioni gli elementi a disposizione, trasformandoli in un racconto emozionante ed avvincente. Ogni volta differente.

A questo proposito, potremmo parlare di we-branding, riconoscendo il ruolo decisivo svolto dalla community di appassionati nell’attribuzione di valore al brand: la sessione di gioco è la porta d’accesso ad un mondo più ampio, nel quale si parla e si discute animatamente di questo fortunato videogame, soppesandone i pro e i contro, si leggono articoli di giornale, si scaricano video da YouTube, si acquistano felpe, magliette e cappellini decorati con il logo di “Fortnite”.

Per usare una metafora, possiamo raffigurarci un brand di questo tipo come una nave da crociera, a bordo della quale si imbarcano, oltre agli utenti già acquisiti, anche molti altri soggetti: utenti potenziali, semplici “simpatizzanti” e addirittura detrattori, calamitati dal seducente richiamo di una marca fortemente appealing, con la quale si sentono disposti a interagire (Sawhney, Verona e Prandelli, 2005).

Il precedente di De Wallen

Cambia dunque il significato di “appartenenza al brand” e si dilata nel contempo l’orizzonte a cui guardare per definire il concetto di “rete del valore”, non più ristretta al fitto intreccio di relazioni fra «attori economici distinti – fornitori, partner in affari, alleati, clienti – che operano insieme nella co-produzione del valore» (Normann e Ramirez, 1993, p. 66), ma “incorporata” in più ampi aggregati di carattere sociale, fino a comprendere singoli individui e comunità di consumatori engaged nei confronti dello stesso oggetto: azienda, gruppo musicale, destination turistica, attività sportiva, videogame, ecc. (cfr. Brodie et al., 2016).

A titolo di esempio – su una scala dimensionale più piccola rispetto a quella di “Fortnite”, ma più vicina al contesto del nostro Paese – si potrebbe citare il caso di De Wallen, un progetto imprenditoriale nato all’interno della community degli urban bikers (cfr. Biraghi, Gambetti e Pace, 2016). L’attività ha preso l’avvio a Milano, nel 2012, prendendo lo spunto dall’idea di tre amici – Marco Romano, Filippo Morandotti e Fancesco Verdinelli – accomunati dalla passione per la bicicletta, intesa come icona di stile senza tempo, attraverso cui vivere la città.

Interpretando le attese dei nuovi consumatori smart, dinamici e costantemente interconnessi, abituati ad utilizzare la bicicletta per rapidi e frequenti spostamenti nel centro urbano, il brand De Wallen propone capi d’abbigliamento che uniscono la qualità del made in Italy a superiori performance di carattere tecnico (es.: catarifrangenza, impermeabilità, traspirabilità, ecc.). Per lo sviluppo delle nuove collezioni De Wallen si avvale del supporto di communities di bikers dislocati in tutto il mondo, che presentano la loro wish-list e testano i prototipi prima del lancio sul mercato. In pratica, il brand si propone come catalizzatore di energie creative disseminate all’interno di un’ampia rete di attori, costantemente coinvolti nella co-creazione del valore.

I meccanismi che hanno decretato il successo di Fortnite

Ma non basta: guardiamo ai meccanismi specifici che caratterizzano un videogame come “Fortnite” e che ne hanno decretato la diffusione su scala planetaria. Nel corso dell’azione di gioco, è possibile rintracciare ovunque nuove armi o strumenti fondamentali per la sopravvivenza (bende, medikit, pozioni di vario genere): l’utente è dunque sollecitato a muoversi continuamente sul terreno, senza mai concedersi un attimo di respiro, per incrementare il bottino disponibile.

L’arma o l’oggetto in grado di conferire un vantaggio significativo potrebbe essere sempre dietro l’angolo. Ciò riduce il divario tra giocatori con alta o bassa abilità: un principiante può essere fortunato e trovare armi che gli danno un vantaggio decisivo, e un giocatore esperto e smaliziato può uscire rapidamente di scena, perché non ha avuto fortuna nella ricerca del proprio bottino.

Queste osservazioni ci portano al nodo Loyalty/Delight, oggi al centro dell’attenzione nell’ambito del marketing. Come suggeriscono i risultati delle ricerche di Sashi (2012), il cliente delighted, piacevolmente sorpreso e deliziato da un’esperienza inattesa, che supera di gran lunga le aspettative iniziali, risulta decisamente più coinvolto del cliente loyal, costante nelle sue scelte d’acquisto e orientato a confermare la preferenza per i prodotti della stessa marca, ma in genere scarsamente incline a dedicarle del tempo, attivando le dinamiche del passa-parola e facendo advocacy.

La retention può essere infatti il risultato di una relazione durevole, priva però di legami emozionali. Un’indicazione di questo tipo ha delle rilevanti implicazioni a livello manageriale: suggerisce che le carte fedeltà e il meccanismo delle raccolte punti finiscono per premiare il rassicurante e poco fantasioso bacino dei clienti abitudinari e già acquisiti, senza incentivare in alcun modo quei soggetti che, in presenza di opportune stimolazioni, sarebbero disposti a trasformarsi in veri e propri “ambasciatori” del brand. E’ proprio questo l’errore che “Fortnite” evita di fare: il bottino accumulato viene perso alla fine di ogni partita e non sono previste ricompense calcolate su intervalli di tempo più lunghi. L’adrenalina sale dunque a mille ogni volta, perché si riparte da zero. E nuove, eccitanti, sorprese potrebbero sempre essere in agguato.

Un nuovo livello di brand engagement

Più in generale, il tempo che gli utenti dedicano a “Fortnite”, non solo per giocare, ma anche per parlare, discutere, condividere l’esperienza con altri appassionati, richiama l’attenzione su un insieme di espressioni comportamentali – oggi raccolte sotto il cappello concettuale del consumer-brand engagement – nelle quali si rende evidente la disponibilità del consumatore a spendersi a favore di un brand in maniera non canonica, al di fuori degli schemi, secondo percorsi non preventivati e non preventivabili (van Doorn et al., 2010; Brodie et al., 2011).

Scrivere una recensione, raccomandare un prodotto o un brand, attivare le dinamiche del passa-parola, offrire assistenza ad un amico per l’installazione di un software, attendere pazientemente in coda per ore, solo per poter toccare con mano l’ultima versione di uno smartphone: siamo di fronte ad un ampio e variegato insieme di situazioni beyond transaction, contrassegnate da una dimensione festosa di gioco, di dono e di gratuità, che – come segnala un recente rapporto di Weber Shandwick (2014) – è caratteristica dello scambio per reciprocità, più che dello scambio di mercato.

Tali comportamenti, pur essendo del tutto spontanei e volontari, offrono notevoli benefici alle imprese, non solo perché contribuiscono a migliorare la qualità del servizio, ma anche perché arricchiscono di nuovi sensi l’esperienza d’uso del prodotto, facilitano lo sviluppo di nuovi concept progettuali e dilatano il raggio d’azione della comunicazione, alimentando il canale del passa-parola.

Si tratta per altro di capire se il consumer brand engagement è una situazione intermittente e discontinua, come un circuito elettrico, che può essere di volta in volta chiuso oppure aperto, oppure è un fenomeno da considerare secondo un’ottica di carattere dinamico e processuale, di cui misurare la differente intensità momento per momento e a seconda dei contesti.

Nella prima ipotesi, l’engagement si configura come una sorta di rivelazione improvvisa, che porta il consumatore ad aprire lo sguardo verso il brand e ad accendersi di entusiasmo nei suoi confronti. Nella seconda ipotesi, sembra invece più corretto parlare di un “ciclo di vita” dell’engagement, contrassegnato da fasi successive e da differenti livelli di intensità (apparizione, crescita, successo, declino e uscita di scena).

L’evoluzione futura di “Fortnite” ci darà sicuramente delle risposte. Nell’attesa, possiamo trarre indicazioni utili dalla mania di “Pac-Man”, esplosa nei primi anni Ottanta e lentamente sfiorita, o dalla saga di “Lara Croft”, fenomeno cult nato negli anni Novanta, la cui popolarità sembra andare oggi incontro a un inesorabile declino.

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BIBLIOGRAFIA

Biraghi S., Gambetti R. e Pace S. (2016). The role of consumer-entrepeneurs in the context of tribes in AA.VV. Marketing & Retail nei mercati che cambiano, XIII^ SIM Conference, Università di Cassino, 20-21 ottobre.

Brodie R.J., Hollebeek L.D., Jurić B., Ilić A. (2011). Customer engagement: Conceptual domain, fundamental propositions, and implications for research. Journal of Service Research. 14 (3): 252-271.

Brodie R.J., Feher J., Jaakkola E., Hollebeek L. Conduit J. (2016). From Customer to Actor Engagement: Exploring a Broadened Conceptual Domain, in Knoeferle K. (ed.), Marketing in the age of data, EMAC-European Marketing Academy 2016 Conference, Oslo, May 24-27.

Codeluppi V. (2017). Marche e società: quale rapporto? Micro & Macro Marketing, 26 (1): 3-5.

Firat A.F. e Venkatesh A. (1995). Liberatory Postmodernism and the Reenchantment of Consumption. Journal of Consumer Research, 22 (December), 239-267.

Gholipour B. (2018). Is “Fortnite” Sending Kids to Therapy? Live Science. June 12: https://www.livescience.com/62796-fortnite-addiction-therapy.html

Kozinets R.V. (2014). Social Brand Engagement: A New Idea. Gfk Marketing Intelligence Review. 6 (2): 8-15.

Muniz A.M. e O’Guinn T.C. (2001). Brand Community. Journal of Consumer Research. 27 (4): 412-432.

Normann R. e Ramirez R. (1993). From value chain to value constellation: designing interactive strategy. Harvard Business Review. luglio-agosto: 65-77.

Sashi C.M. (2012). Customer engagement, buyer-seller relationships, and social media. Management Decision, 50 (2): 253-272.

Semprini A. (1996). La marca. Dal prodotto al mercato, dal mercato alla società. Milano: Lupetti.

Van Doorn J., Lemon K.N., Mittal V., Nass S., Pick D., Pirner P., Verhoef P.C. (2010). Customer engagement behavior: theoretical foundations and research directions. Journal of Service Research. 13 (5): 253-266.

Weber Shandwick (2014). The science of engagement, http://webershandwick.co.uk/wp-content/uploads/2014/03/SofE_Report.pdf,

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