La fotografia del buco nero al centro della Via Lattea, dopo la prima foto del 2019, mostra come sono fatti i buchi neri, che forma abbiano, come interagiscono con la materia circostante e forniscono tantissime altre informazioni utili agli scienziati. Ma dietro quello “scatto” c’è anche tantissima tecnologia a supporto dell’indagine scientifica.
Esaminiamo il ruolo dei dati e dei supercomputer, con intelligenza artificiale in questa scoperta scientifica nell’ambito dell’astrofisica. Ne abbiamo parlato con astrofisici ed esperti di super calcolo, per fare il punto su IT, dati e supercomputer a supporto dell’astronomia.
Come si fotografa un buco nero
L’immagine che hanno rilasciato gli scienziati lo scorso 12 maggio immortala un buco nero nel cuore della nostra galassia, a 27 mila anni luce dal nostro Pianeta. La foto sembra quella di una ciambella con un oggetto o meglio una singolarità al centro della sfera: la parte scura dell’immagine rappresenta l’ombra del buco nero, mentre ciò che lo circonda è il mix di gas e polveri in orbita che emettono radiazione elettromagnetica. Inoltre ricorda l’immagine catturata – sempre da EHT – nel 2019 quando Sagittario A* (Sgr A*) era già stato individuato: conferma l’esistenza di un buco nero nel cuore della Via Lattea.
Poiché nulla, luce inclusa, può fuggire da un buco nero, la fotografia è già di per sé una notizia. Infatti, “per definizione, un buco nero è un corpo celeste che ha un campo gravitazionale così intenso da non lasciar ‘scappare’ nemmeno la luce”, commenta Crescenzo Tortora, ricercatore dell’INAF – Osservatorio Astronomico di Capodimonte a Napoli, esperto di evoluzione delle galassie, di materia oscura, lenti gravitazionali e di applicazioni dell’intelligenza artificiale all’astronomia.
Deep Learning: dove si usa nella ricerca e gli impatti sul metodo scientifico
“La Relatività Generale di Einstein ha predetto l’esistenza dei buchi neri prima che ne potessimo misurare l’effetto gravitazionale sulle stelle che vi stanno orbitando attorno, prima che ne venisse fatta una fotografia, come quelle fatte dell’EHT. In pratica, un buco nero si può formare dal collasso gravitazionale di una stella massiccia, che termina la sua vita esplodendo in una supernova. Ma esistono buchi neri con massa enormemente più grande, fino ad 1 milione o 1 miliardo di masse solari, chiamati buchi neri supermassici, che si trovano nel centro di moltissime galassie. Sono questi buchi neri supermassicci che l’EHT ha fotografato al centro di M87 e della Via Lattea”.
Infatti, da anni gli scienziati hanno creato Event Horizon Telescope (EHT), un grande telescopio che consiste di una rete globale di radio telescopi. Inoltre, EHT è anche una collaborazione internazionale che vede il contributo italiano di Inaf, Infn, Università Federico II di Napoli e Università di Cagliari.
Cos’è Event Horizon Telescope (EHT)
Event Horizon Telescope (EHT) “funziona come un telescopio virtuale con diametro di migliaia di km, quindi con le dimensioni della Terra. Più grande è il diametro di un telescopio e maggiormente si può misurare qualcosa di piccolo come il buco nero al centro della nostra galassia”.
“La relatività Generale”, continua Tortora, “prevede che un buco nero sia caratterizzato dal cosiddetto ‘orizzonte degli eventi’ (da cui il nome del telescopio ‘Event horizon’)”. Usando un linguaggio semplicistico, “questo orizzonte limita quella regione intorno al buco nero entro la quale nessuna particella e nemmeno la luce possono uscire. In casi semplici questa superficie ha un raggio detto raggio di Schwarzschild, che è tanto più grande quanto più grande è la massa del buco nero. In teoria ogni massa concentrata in una dimensione pari a questa regione può portare alla formazione di un buco nero”.
Dunque, “il buco nero, limitato dal suo orizzonte degli eventi, è sostanzialmente la parte centrale nera che vediamo nelle immagini dell’EHT, che viene chiamata “ombra” del buco nero. Ma al di fuori dell’orizzonte degli eventi il buco nero è circondato da materia (gas e polveri) che si muovono a velocità prossime a quella della luce, e vengono attratte dal buco nero. Questo materiale si riscalda a temperature che emettono nelle frequenze del radio, e quindi alle frequenze dello spettro elettromagnetico che vengono rivelate dalle antenne che compongono l’EHT. Non tutti i fotoni emessi da questa materia verranno intrappolati dal buco nero, ma alcuni riusciranno a raggiungerci.
L’anello arancione
“La luce emessa da questo materiale è l’anello arancione che circonda il buco nero nell’immagine fornita dall’EHT. Ma quel colore arancione è un falso colore, è soltanto una scelta cromatica che gli astronomi hanno fatto per fornirci una bella immagine da guardare. Avendolo osservato nelle frequenze del radio e non quelle del visibile, non possiamo associarvi un colore”, sottolinea Tortora.
La tecnica dell’interferometria
Dal punto di vista pratico, “il buco nero è stato osservato con la tecnica dell’interferometria a lunghissima linea di base (VLBI, Very long baseline interferometry). In genere, le osservazioni astronomiche si effettuano con singoli telescopi, che oggi raggiungono massimo 10 metri di diametro (anche se nel futuro prossimo potremo arrivare a qualche decina di metri di diametro).
Invece, la tecnica dell’interferometri si basa sull’utilizzo di vari radiotelescopi (delle antenne) disposti anche a migliaia di chilometri di distanza l’uno dall’altro: questa configurazione permette di simulare un singolo telescopio virtuale con diametro pari alla distanza massima dei radiotelescopi.
Avere un telescopio così grande può permettere di superare i limiti osservativi imposti dalla diffrazione della luce ed osservare sorgenti piccolissime e a grandi distanze, ad esempio una mela sulla superficie della luna, oppure, appunto, il buco nero al centro della nostra galassia o in una galassia vicina.
Tutti questi telescopi hanno osservato il centro della via lattea per ore, poi i segnali registrati da ogni telescopio sono stati raccolti, mandati ai supercomputer che li hanno opportunamente combinati. Lunghe analisi sono state necessarie per poter estrarre le immagini che tutti abbiamo visto e che ci mostrano l’aspetto di Sgr A*”, illustra Tortora.
Abbiamo contattato un esperto di super calcolo, Michele De Lorenzi, direttore associato del Centro Svizzero di calcolo scientifico (CSCS) di Lugano che possiede uno dei supercomputer più potenti al mondo (con cui collaborano progetti di ricerca astronomica con l’interferometria che ha permesso di fotografare il buco nero galattico): “L’utilizzo dei supercomputer è sempre più usato in astronomia. La digitalizzazione delle informazioni anche in astrofisica sta infatti diventando sempre più importante, proprio per memorizzarle” e poi estrarne dati di valore. “Prima chi lavorava a un radiotelescopio, prendeva le informazioni, poi dovevano essere digitalizzate e lavorate, si inserivano in una banca dati e si studiavano i dati raccolti. Oggi invece diversi radiotelescopi vengono messi in rete per ricorrere alla tecnica dell’interferometria per poi creare un’immagine molto più grande. Quindi i radiotelescopi, ubicati in varie parti del mondo (desertiche per non subire interferenze), permettono di ottenere un’immagine della grandezza maggiore. Ciò avviene sia su scala grande che più piccola: in un miglio quadrato ci sono tantissime antenne di varie dimensioni, direzionali e non, vengono messe in rete e poi la raccolta dei dati consente di ottenere l’informazione totale finale”.
Limiti tecnologici
“Uno dei limiti osservativi imposti dalle leggi della fisica è la diffrazione della luce”, ricorda Tortora: “Ogni qualvolta le onde luminose si scontrano con un ostacolo, come può essere l’apertura di un telescopio, si presenta questo fenomeno, che fa sì che una sorgente puntiforme non appaia realmente puntiforme ai nostri telescopi. E 2 sorgenti puntiformi molto vicine ci appaiano come una singola sorgente; si dice che queste sorgenti non possono essere risolte. Questo processo fisico limita quindi quello che viene chiamato ‘potere risolutivo’ dello strumento: maggiore sarà il diametro del telescopio e più alto sarà il potere risolutivo”.
Infatti, “la risoluzione di EHT è di qualche decina di micro secondi d’arco (cioè un milionesimo di secondo d’arco, il secondo d’arco è la 3600isa parte del grado d’arco). Con telescopi comuni, che lavorano alle frequenze ultraviolette, ottiche e infrarosse, questo elevato potere risolutivo non può essere raggiunto. Sgr A* dista 26 mila anni luce da noi, e si estende per circa 24 milioni di chilometri, 17 volte più grande del sole, ma decisamente inferiore della distanza Terra-Sole. La risoluzione angolare che ha raggiunto l’EHT è dello stesso ordine di grandezza delle dimensioni del buco nero e quindi ha permesso di mettere in evidenza e distinguere sia l’ombra centrale (il buco nero), sia la materia tutta attorno. Ed è stato più difficile creare l’immagine di Sgr A* rispetto a quella del buco nero al centro di M87 ottenuto pochi anni fa, sebbene Sgr A* fosse molto più vicino, perché mentre il gas impiegava giorni o settimane a ruotare intorno al buco nero di M87, nel caso del più piccolo Sgr A*, il gas completava orbite nel giro di pochi minuti. Quindi l’immagine di Sgr A* cambiava rapidamente, un po’ come quando facciamo la foto ad una strada trafficata fatta di macchine che scheggiano in continuazione”.
I suoni dei buchi neri
Per quanto riguarda i suoni registrati dalla NASA, bisogna invece aprire un capitolo a parte. “Il suono è sostanzialmente quella sensazione che ci viene data dalla vibrazione di un corpo che viene fatto oscillare, queste vibrazioni si propagano nell’aria (o qualsiasi altra sostanza) e viene recepita dal nostro apparato uditivo”, prosegue Tortora.
“Essendo l’Universo sostanzialmente vuoto (lo è sicuramente all’esterno dell’atmosfera terrestre), fatta eccezione per regioni limitate e vicino a galassie o all’interno di ammassi di galassie, il suono non può propagarsi. Ecco il motivo per il quale i suoni delle esplosioni che sentiamo nei film di fantascienza non possono avvenire nello spazio. Questo è il motivo per il quale il suono non ci è di alcun aiuto per studiare l’universo, mentre la luce fa il suo lavoro, perché non avendo bisogno di alcun mezzo per propagarsi, arriva a noi anche dai luoghi più reconditi del cosmo. I suoni ai quali si riferisce riguardano un processo detto di ‘sonificazione’ che alcuni scienziati della NASA hanno adottato per trasformare le perturbazioni all’interno del gas interstellare, intorno ad un buco nero, in suoni”.
Per esempio, “il buco nero in M87 sta emettendo un jet di materia (chiaramente visibile nelle immagini che si possono trovare in rete), generando delle onde di pressione, che generano delle increspature nel gas. Le frequenze di queste oscillazioni sono però molto più basse di quelle che l’uomo può sentire al suo orecchio, decine di ottave inferiori. Gli astronomi della NASA hanno risintetizzato queste onde sonore adattandole nell’intervallo di frequenze che l’uomo può sentire, quindi scalandole in alto di varie decine di ottave, a frequenze di centinaia di milioni di miliardi maggiori, trasformandole in questa maniera in melodie”.
Ruolo dei dati e supercomputer dietro la fotografia del buco nero
Gli astrofisici hanno dunque realizzato un collage delle immagini estratte dagli 8 radiotelescopi esistenti nel Pianeta per realizzare un unico telescopio virtuale, l’EHT.
La raccolta dei dati gioca però un ruolo fondamentale. Infatti l’immagine del buco nero è una media delle numerose immagini estratte dai ricercatori. Le numerose fotografie possono essere riunite in base alle affinità che le contraddistinguono, in quattro cluster, dove:
un’immagine rappresentativa media dei quattro grappoli appare nella riga inferiore;
tre cluster vantano migliaia di immagini e hanno una forma ad anello, dove la luminosità si differenzia lungo l’anello;
il quarto gruppo differisce per non avere la struttura ad anello e contare solo poche centinaia di immagini;
i grafici a barre si riferiscono al numero di fotografie di ciascun grappolo;
le altezze delle barre pesano i contributi di ogni cluster all’immagine definitiva.
Fare la media delle numerose immagini ottenute è stato necessario perché il buco nero fotografato è più vicino, ma piccolo, quindi il gas ruota intorno al buco nero più rapidamente (completa un’orbita intorno alla singolarità in pochi minuti contro i giorni impiegati dal gas intorno a M87).
I supercomputer
Inoltre, rivestono un ruolo di primo piano i supercomputer, che hanno dovuto analizzare e mettere insieme i propri dati, simulando e calcolando le parti mancanti: infatti, ciò ha portato a compilare una libreria di buchi neri simulati da mettere a confronto con le osservazioni sperimentali. Del resto, “l’era dei calcoli a mano fatti su un foglio di carta, o l’uso di una squadretta per calcolare le lunghezze sono oramai ricordi lontani”, chiarisce Tortora.
“Gli sviluppi tecnologici degli ultimi anni ci permettono di costruire telescopi da terra e da spazio e rilevatori di fotoni che ci stanno permettendo di scoprire e studiare sorgenti di svariati tipi, anche debolissime e lontanissime nell’universo: stelle, ammassi di stelle, galassie ed ammassi di galassie.
Le informazioni che celano questi dati sono ottenute con i più svariati metodi di indagine, ivi compresa l’intelligenza artificiale (AI), che negli ultimi anni sta rappresentando una fondamentale risorsa anche in astronomia.
A questi strumenti si affiancano computer molto potenti, i cosiddetti supercomputer, capaci di effettuare dei calcoli che i computer che abbiamo sulle nostre scrivanie impiegherebbero una vita intera a fare.
Questi supercomputer ci permettono di processare e analizzare le immagini di questi telescopi, compreso quelle dell’EHT, ma ci consentono di ottenere molto di più.
Infatti, le elevate potenze di calcolo di questi supercomputer permettono anche di:
simulare la formazione e l’evoluzione delle galassie;
simulare il gas che si addensa e si trasforma in stelle;
capire come si formano stelle e galassie, e con quale frazione di stelle, gas e materia oscura.
Gli astronomi usano queste informazioni e le confrontano con le osservazioni dei telescopi per poter trovare delle similitudini, per capire come sono nate e evolute stelle e galassie.
Tecnologie simili sono state utilizzate per osservare Sagittarius A* e M87 e analizzarne i dati. Per capire il lavoro che gli scienziati dell’EHT hanno dovuto fare per produrre le immagini che abbiamo visto, basti pensare che i dati sono stati raccolti nel 2017, e hanno richiesto due anni per poter pubblicare la foto del buco nero di M87 e altrettanti per quella di Sagittarius A*”.
La fotografia del buco nero: cosa significa per la fisica
I buchi neri sono importanti per la fisica per la capacità della loro massa di creare una deformazione nella struttura spazio-temporale, tale da apportare alterazioni sia nella materia che nel tempo.
Infatti, “queste osservazioni”, conclude Tortora, “potranno permettere di capire meglio come sono fatti i buchi neri, la loro forma, come interagiscono con la materia circostante, permettendo di fornire nuove conferme sulla completa validità della Relatività Generale di Einstein, o eventualmente capire se alternative a questa teoria abbiano più senso”.