Riflessività digitale

Fruizione e produzione delle immagini nella realtà virtuale: l’interiorità è un mito?

Quali sono le tendenze dell’immaginario attuale dell’interiorità? Si configura come un mito, seguendo la definizione di Benjamin? Un’analisi tra teoria ed ermeneutica delle immagini e sociologia dei media

Pubblicato il 11 Giu 2021

Antonio Rafele

CEAQ, Université Paris La Sorbonne

interiorità realtà virtuale mito digital humanities

Che cos’è l’interiorità nel mondo contemporaneo? Sembra assumere le fattezze di un mito, raggiungendo una configurazione altamente problematica.

In una pagina collocata ad inizio de “Per la Critica della violenza”, il filosofo Walter Benjamin definisce il mito come il contenitore di un fondo arcaico, di cui anche la società moderna continua ad essere la riproduzione. Il mito, scrive Benjamin, adempie nelle società arcaiche una funzione indispensabile: rivela la realtà originaria, garantisce l’efficacia delle feste e dei culti, codifica le credenze, fonda regole morali, determina le pratiche della vita quotidiana (Benjamin, 1996, p. 75).

Il tema del mito e delle immagini

Il mito è una sorta di metalinguaggio: veicola contenuti e idee che travalicano il racconto, che paiono sostare oltre la vicenda narrata per illuminare un aspetto della realtà. Per mezzo di questa dinamica, “un ambiguo e perenne sostare dentro e fuori il testo”, il mito agisce nella quotidianità, piegando i grandi quesiti esistenziali o eziologici alla gestione del quotidiano. Il mito diviene propriamente tale soltanto nell’attimo in cui si verifica un repentino spostamento dalla sfera della rappresentazione al mondo dei gesti e delle pratiche quotidiane.

Questo passaggio ha la forma di un riflesso meccanico e istantaneo, e qui risiede per Benjamin la forza e la peculiarità del mito, la cui potenza regressiva è espansa e amplificata dalla società moderna: “l’immediata affermazione di realtà e natura”, ovvero un racconto che si impone come una verità indiscussa, celando le intenzioni e le circostanze che l’hanno costruito. Da questo preliminare piano di proiezione si dispiega in Benjamin un’opposizione peculiare tra mito e immagine: le immagini del ricercatore costituiscono una progressiva messa in tensione degli elementi che garantiscono la stabilità e l’efficacia del mito, offrendo analisi circoscritte.

Il metodo che organizza questa indagine attraversa due aree di ricerca contigue: la teoria e l’ermeneutica delle immagini e la sociologia dei media.

In particolare, seguendo la più esaustiva e recente classificazione di Belting (Belting, 2001), le immagini vengono colte nell’attimo in cui si stratificano come tracce viventi, memoria vivente, dello spettatore; ad essere messo in rilievo è dunque il loro essere riflesso o sdoppiamento fantasmatico del reale: uno spazio e un intervallo che, all’interno della storia e della fenomenologia delle immagini, precede la narrazione in senso compiuto, facendo prevalere il lato tattile, epidermico, ma non meno profondo, dell’esperienza estetica.

L’analisi è stata pertanto condotta su due livelli: uno interno al tessuto delle immagini, mediante selezione e interpretazione delle scene che giungono a colpire in un sistema coerente l’attenzione e l’identità dello spettatore; l’altro usando l’oggetto come filtro per portare alla luce alcune tendenze dell’immaginario attuale della interiorità, e di quello ad essa concomitante del dolore. Il tema è stato inserito in una più ampia storia delle relazioni sociali, delle loro forme e variazioni, in una fitta trama di rimandi tra la sociologia della metropoli (Benjamin, 1983; Crary, 2000) e la sociologia dei media (McLuhan, 1964; Peters 1999; Morton, 2013).

Il piano di intersezione tra le tradizioni e gli autori menzionati si costruisce intorno a due presupposti teorici essenziali: la centralità del fruitore e la centralità della forma narrativa.

La centralità assunta dallo spettatore discende dal valore attribuito agli oggetti (Belting, 2001; Benjamin, 1983): gli oggetti si completano nell’atto del consumo, ovvero raggiungono un significato soltanto nell’uso che il fruitore ne compie a posteriori. Fuori da questo rapporto, essi non possiedono un’esistenza autonoma e perdono ogni funzione nell’ambito dell’esperienza. Ciò significa che ad acquisire un’importanza strategica è proprio il rapporto, profondo anche se individuale, che il singolo stabilisce con un oggetto, mostrandone in seguito la configurazione, gli effetti e le tendenze culturali che racchiude.

In un simile punto di osservazione, senso e figura coincidono, e l’analisi delle immagini non può prescindere da questa coincidenza che tiene insieme in un’unica gerarchia il linguaggio e il vissuto (Belting, 2001; Benjamin, 1983). L’analisi, entrando nella compiuta configurazione mediale, mette lo spettatore “nei panni” dell’autore; la destrutturazione dei temi e delle metafore, che costituiscono il tessuto soggiacente al testo multimediale, conduce lo spettatore a riconoscere nel testo la propria voce, un dettaglio del vissuto o dell’identità.

Il rapporto “organico” che si stabilisce tra immagine e spettatore configura le forme estetiche come i momenti in cui l’esperienza raggiunge la più alta evidenza. All’interno della narrazione il vissuto acquista una configurazione ricca e problematica, rivelando anche i rapporti e le rotture che il tempo presente stabilisce con le forme antiche dell’esperienza (Benjamin, 1983). La vita della metropoli, nell’interpretazione compiuta da Benjamin, diviene leggibile in una densa e sottile analisi del linguaggio: l’allegoria è il medium mediante cui illuminare i funzionamenti della moda, della storia, dell’identità, delle esposizioni universali, della pubblicità, dei rapporti sociali.

Le maggiori tendenze culturali divengono visibili dentro le forme narrative che ne realizzano un’esposizione attuale; il cinema e la realtà virtuale sono alcune di queste forme che, raffigurando e inventando le strutture dell’immaginario, “contengono” l’esperienza.

Realtà virtuale e stati di transitorietà accelerata: l’interiorità come riflesso meccanico

Il video di Ridley Scott (2017, “Alien: Covenant In Utero”), della durata di due minuti circa, quasi interamente scandito dal rumore del battito cardiaco, ricostruisce l’esperienza della nascita di un deforme e si compone di due parti distinte: una visione compiuta dall’interno del corpo, che sospinge per qualche frazione di secondo ad una sovrapposizione tra scena e spettatore (a questo paiono alludere le pieghe e i gemiti delle membrane), a cui succede un’improvvisa – istantanea, come l’origine – scomparsa dell’immedesimazione; così, lo spettatore si colloca all’esterno della scena, e l’illusione appena vissuta conferma per contrasto una linea saldissima che si frappone tra testo e utente.

Questa polarità di fondo sul piano narrativo, come anche l’oggetto della scena, si ripetono in modo simile in alcune produzioni recenti: “Invasion” (2017), nel quale si assiste ad una ossessiva costruzione di un punto di vista “esterno”, dall’alto, rispetto alla scena; “The Invisible Man” (2018) e “VR Dream Treatment Follow Up” (2018), nei quali la scena è interamente costruita sulla presenza/assenza dello spettatore; ugualmente, la ricerca di un effetto di credulità, una visione talmente ravvicinata da celare le barriere di separazione, è la strategia che contraddistingue “It: Float”, 2017, White Room”, 2019, The Conjuring 2″, 2019 e “The Dream Collector”, 2019.

In Utero” è un video girato a 360° e si distingue, almeno in parte, da “The Limit”, cortometraggio in realtà virtuale di Robert Rodriguez (che al momento si pone come lo spettro più avanzato del genere, seguito dei due esperimenti “Star Wars Rogue One Recon” e “Star Wars Hunting of the Fallen”, entrambi del 2018), che innesta nella narrazione cinematografica alcune funzioni tipiche del videogioco.

Qui, la coincidenza con la camera (che, reiterata, come in molti videogiochi in VR, procura disagio fisico), i movimenti della testa e quelli del corpo nello spazio (in questo caso ad entrambi corrispondono modifiche nella vicinanza o lontananza rispetto al centro della scena), l’uso complementare della manetta che permette di partecipare allo svolgimento della trama (ma dentro un modello prestabilito: ad es., pur trattandosi di un game “sparatutto”, lo spettatore non può prendere parte alle azioni violente o più spettacolari, limitandosi ad indicare ai protagonisti/collaboratori le due o tre opzioni rese disponibili), offrono una gamma più estesa di punti di vista o angoli di osservazione.

Se in The Limit” l’effetto di illusione è dovuto ad una coincidenza tra sguardo e camera, ovvero le risposte dell’immagine corrispondono ai movimenti compiuti con la testa o con il corpo, tuttavia, in ogni sguardo o movimento, si impone una linea di demarcazione che nega il desiderio di una presenza più particolareggiata, ripetendo, come in “Alien In Utero”, la posizione di uno spettatore che occupa la scena e al contempo si riguarda dall’esterno come attore.

In Utero” è la messa in scena di un dolore insormontabile della carne, compiuta sfruttando le tecniche dello shock. L’ossessiva ricerca delle origini, la sopravvivenza della carne, in una subitanea e repentina oscillazione tra vita e morte (Costa, 2002), che è l’oggetto della scena ma anche il riflesso delle reazioni emotive dello spettatore (l’immagine si configura come la dilatazione di un istante che “ruba”, al pari di uno stupefacente, la vita dello spettatore, sospingendolo in uno stato pre-coscienziale, attimo a cui succede la sensazione desolata della fine, dove l’immagine si riapre, allo sguardo retrospettivo, come un insieme di materiali secchi, aridi), rivela, in continuità con i ritmi della serialità televisiva, uno stato di transitorietà accelerata.

Queste sollecitazioni, che portano lo spettatore alle massime prestazioni nervose, sono anche l’immagine capovolta di un corpo indebolito, infiacchito, precocemente invecchiato: un corpo reso dalle incessanti novità come immobile, “stordito” (Benjamin, 1983), nell’attesa di uno shock che possa ricondurlo in vita, spostando ancora più in là il muro dell’indifferenza. Shock e tattilità delle immagini paiono congiuntamente delineare uno stato di sospensione delle funzioni mnemoniche, della loro necessità, approssimando lo spettatore all’immagine del deserto o della polvere (Hansen, 2007). Si dovrebbe piuttosto parlare di “ripetizione” (Hansen, 2007), compiuta dentro il testo, o fuori dal testo come memoria vivente dello spettatore (è il caso della memoria come “rinnovata ripetizione” nella pornografia), ma presupponendo che una simile funzione è in primissima istanza esterna alla macchina narrativa, dato che il tutto si consuma in un istante, e dunque abbandonata al caso.

L’interiorità, come nelle seguenti descrizioni di Walter Benjamin, assume la qualità di un riflesso tattile, meccanico: “Con questo immenso sviluppo della tecnica una miseria del tutto nuova ha colpito gli uomini. […] Sì, ammettiamolo: questa povertà di esperienza dell’umanità in generale. E con questo una specie di nuova barbarie. Barbarie? Proprio così. Diciamo questo per introdurre un nuovo positivo concetto di barbarie. A cosa mai è indotto il barbaro dalla povertà di esperienza? È indotto a ricominciare da capo; a iniziare dal nuovo; a farcela con il poco: a costruire a partire dal poco e inoltre a non guardare né a destra né a sinistra” (Benjamin 2002, 257). Il filosofo sottolinea come quando il lavoro umano è unicamente distruttivo, allora è realmente di un lavoro umano, naturale, nobile: l’inumano è ambasciatore di un umanesimo più reale, e solidarizza non con l’abete slanciato, ma con la pialla che lo consuma, non col metallo nobile, ma con la fornace che lo raffina (Benjamin 2002, 261).

La molteplicità delle immagini è il riflesso di un’esistenza priva di personalità: un modo di vita che cresce a stento, giorno per giorno, sulla scorta delle circostanze. È l’immagine della solitudine, di un io abbandonato ai grandi e minuti risvolti della vita quotidiana, ma anche il segno di una crisi irreversibile (un essere inattuale, antiquato) della formazione e delle agenzie predisposte rispetto a un tempo non codificabile, classificabile. La soggettività a cui Benjamin allude, e che sembra costituire sul piano storico l’antecedente delle attuali soggettività della rete, ha un tratto essenzialmente barbarico: essa riproduce una temporalità che si articola mediante riflessi rapidi, meccanici, modalità del tutto distanti dunque dalla tradizionale costruzione dell’interiorità.

La sovrapposizione che si determina tra immagini e spettatore, in una compresenza inverosimile di azione e reazione, causa ed effetto insieme del successo duraturo della tecnica dello shock, si giustifica sulle imponenti trasformazioni sensoriali che la metropoli, e poi in seguito le immagini, tra XIX e XX secolo, introducono nella vita quotidiana.

In uno stato di transitorietà accelerata, la distrazione non è una forma degradata di esperienza, bensì uno strumento attivo ed efficace: essa permette al singolo di seguire, senza eccessivi sconvolgimenti interiori, un ritmo veloce e dispersivo.

L’attenzione, che un un’immagine può destare nello spettatore, avviene in una interruzione del continuum: una momentanea e improvvisa sospensione del tempo mediante cui il singolo si immerge, anche se per brevi istanti, in una nuova illusione. Per abbattere il muro dell’indifferenza e del “già vissuto”, le immagini devono intervenire con sempre nuove sorprese, possedere cioè la parvenza di uno shock sensoriale ed emotivo, che è al contempo un’innovazione tecnica e un “rimpasto” inedito dell’immaginario. Il rapporto circolare che si instaura tra distrazione e attenzione costituisce lo spazio psichico in cui si insinuano le immagini, la loro produzione come anche la loro riuscita nel contesto della metropoli e dei media.

Sul piano gnoseologico, le esperienze sopra descritte, riconfigurano i modi con cui l’osservatore raggiunge un’immagine sui fenomeni vissuti. Le immagini che compongono la trama dello spettatore sono colte nell’attimo in cui si stratificano come tracce della mente. Lo sguardo retrospettivo colloca, in una vertiginosa torsione all’indietro, l’origine dell’evento narrativo nell’attimo in cui l’immagine libera i suoi effetti: il passaggio repentino, pressoché istantaneo, dal gesto presente nella scena al ricordo di chi guarda. Non si tratta di una posizione preesistente all’analisi, bensì dell’avvenuta, in concomitanza col replay, centralità dello spettatore. Per via dei salti che dissemina durante la fruizione, il replay configura le immagini come allegorie della visione, su cui occorre rivenire e indugiare per ricostruire l’esperienza vissuta. Piacere e memoria sono i due momenti inscindibili della visione, il costituirsi di un modo d’essere interamente proiettato sull’attualità.

Nonostante l’uso della soggettiva, l’esperienza avviene in un tempo parallelo rispetto a quello della narrazione, in un intervallo dominato dalla memoria e dalla ripetizione ossessiva di pochi attimi o secondi. Così, il tipo di esperienza compiuta rileva nitidamente che l’immersione non avviene in una presunta vicinanza con l’immagine, cioè nel fare proprio il punto di vista della camera; piuttosto, essa si colloca altrove, nell’attimo in cui una scena giunge a procurare nello spettatore un ricordo, una memoria vivente, da cui soltanto discende in seconda battuta il coinvolgimento sensoriale ed emotivo. Pur trattandosi strettamente di rappresentazioni, queste immagini vengono vissute come un campo di possibilità, una riproduzione fantasmatica del reale.

Interiorità e realtà virtuale: come cambiano le rappresentazioni del corpo e del sociale

Le modifiche intervenute nella rappresentazione dell’interiorità e della sofferenza sembrano strettamente legate ad una riconfigurazione dei rapporti preesistenti tra storia e natura, verso cui i media agiscono come potenti acceleratori.

In primo luogo, la rappresentazione del corpo si slega dalla dicotomia storica sano/malato per divenire, essa stessa, un’immagine o una proiezione della tecnologia dominante: si pensi alla differenza tra la medicina o la fisica ottocentesche fondate sulle tecnologie meccaniche e quelle novecentesche basate, invece, sulle tecnologie elettriche (McLuhan, 1964). La dimensione biologica è una proiezione del tempo storico, nel senso che la si può concepire e rappresentare solo a partire dai media di cui si dispone. Così, nella rappresentazione medica il corpo appare, in perfetta coincidenza con le potenzialità delle tecnologie elettriche, un sistema complesso, in cui tutto simultaneamente si tiene, e, allo stesso tempo, precario, in quanto tende all’errore (Sontag, 1978). Ogni corpo è potenzialmente malato, e la malattia è un evento che determina un’inaspettata caduta del sistema. La dimensione che può seguire all’evento della malattia consiste in una riconfigurazione del proprio mondo quotidiano, anche in base alle eventuali nuove caratteristiche biologiche; ci si “ricolloca” conservando la sensazione e la coscienza di morte dell’antico sistema di vita.

In secondo luogo, nelle attuali pratiche quotidiane e mediali sembra irreversibilmente entrare in crisi il tradizionale concetto di comunità (Morton, 2007). Se il termine “comunità” evoca una postura umanistica, ovvero l’immagine di un tempo lineare in cui presente e futuro si intrecciano, il mondo dei media delinea al contrario un’immagine radicale, profondamente anti-umanistica, della storia: la storia è abbandonata alle minute storie delle tecnologie e dei rapporti di forza che di volta in volta si determinano attorno ad esse: una storia di desideri, interessi e violenze che i gruppi umani dispiegano all’interno degli ambienti mediali – che così rivelano la loro natura ambivalente: media come campo di possibilità e nuove assuefazioni, ma anche media come armi (McLuhan, 1964) – annullando qualsiasi proiezione del tempo. Ne consegue una visione che supera le precedenti distinzioni di gusto tra normalità e deforme, spostando di volta in volta l’attenzione, in una postura di radicale neutralità, su ciò che è in grado di procurare piacere o interesse. Così, la dimensione estetica, interamente proiettata sulla tecnica dello shock e sulla riuscita performativa degli oggetti, prolifera di esperienze in cui gli elementi disgustosi o deformi acquistano una nuova, autonoma legittimità.

Più in generale, in queste esperienze il sociale pare sottrarsi dalla vista di chi osserva, lasciando un paesaggio di rovine: la catastrofe dell’umanesimo ad opera di un angelo disumano “che preferirebbe liberare gli uomini privandoli di qualcosa, piuttosto che allietarli donando loro qualcosa” (Benjamin 2002, 341). Un angelo sterminatore, che comprime in una sola potenza le immagini fotografiche, della pubblicità o del cinema. L’immagine divora fino ad inghiottire la vita dello spettatore, che, sollecitato senza sosta, appare infine a se stesso “più morto che vivo” (Simmel, 1995). Se in un autore come McLuhan continuano ad agire tensioni di matrice umanistica, seppur come residui rispetto ai problemi posti dall’immagine (le configurazioni, le protesi, le amputazioni, il mito di narciso, il rigor mortis, i linguaggi del sentire, le reazioni in profondità, le assuefazioni), quei residui sono un invito ad uscire da se stessi, nella speranza di congiungere i diseredati e i “cadaveri” della tecnica moderna. Ma ciò non è in fondo una presa di coscienza, che proprio quegli “stralci” umanistici rivelano in modo nitido, di una impossibilità del sociale? O almeno l’apertura “in negativo” di una riflessione sulle condizioni di possibilità della vita sociale, al di là dello spirito di affermazione che pare contraddistinguere i suoi scritti?

Bibliografia

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