Davide contro Golia? Già detto e abusato. Robinhood (il nome del sito che permette di giocare in borsa senza pagare commissioni), contro lo Sceriffo di Nottingham-Wall Street (gli hedge fund)? Piccoli investitori (quelli che potremmo definire i proletari finanziari del capitalismo globale), contro i cattivissimi di Wall Street? Noia da pandemia e vendetta tecnologica – così, tanto per fare qualcosa? In realtà le retoriche su buoni contro cattivi, ma anche le fantasie complottiste si sono sprecate a proposito (e a sproposito) del caso GameStop, che ha toccato la finanza statunitense (e non solo) nelle scorse settimane. Proviamo a guardare gli avvenimenti da un diverso punto di osservazione.
Il piacere perverso di uccidere un’impresa in difficoltà
Lo sappiamo, perché è storia antica: la finanza (il capitalismo – di cui la finanza è parte strutturale/necessaria) non è gentile, non è saggia, non ha fair play, non si cura degli effetti che produce su uomini e società – dalla bolla dei tulipani del 1637 alla crisi del 1929 e quella del 2007 e successive, giusto per passare dalla prima bolla finanziaria alle ultime in ordine di tempo. Il suo unico scopo – a parte poche e lodevolissime eccezioni: e pensiamo, per l’Italia ad Adriano Olivetti che però era un imprenditore e non un finanziere; o pensiamo a Raffaele Mattioli, banchiere umanista – è massimizzare il profitto privato, costi quello che costi. Qualcuno si ricorda, per caso, di Calvi e di Sindona – per non dire di Marcinkus? Qualcuno ha rivisto recentemente il film The Wolf of Wall Street, di Scorsese (2013) o Wall Street di Oliver Stone (2010)?
Ma veniamo a GameStop[1], una catena di negozi di videogiochi da mesi in crisi e che nel 2019 aveva già perso quasi 500 milioni di dollari. Crisi aggravatasi poi nel 2020 con la pandemia e la chiusura forzata di molti punti vendita. Ma era una crisi iniziata già nel 2013, con il valore delle azioni passato, da allora al 2019, da 56 a 5 dollari. E gli hedge fund avevano quindi scommesso sulla ulteriore perdita di valore delle sue azioni, ovvero facendo morire GameStop. Ma le previsioni sono state smentite da Roaring Kitty, un trader che si muove su YouTube, che ha guidato gli utenti di Reddit e che aveva immaginato un piano per comprare le azioni di GameStop e farne così salire il prezzo. E (così sembra) vendicarsi degli hedge fund – il fondo Melvin Capital Management avrebbe perso quasi due miliardi di dollari – costretti anch’essi a comprare azioni che pensavano invece in ulteriore discesa, contribuendo essi stessi all’incremento di quotazione. Poi tutto è diventato virale e il titolo di GameStop è stato uno dei più scambiati nel mercato finanziario globale, decuplicando il suo valore in pochi giorni.
Operazione in cui si sono scatenati appunto gli utenti di Reddit – quelli che impropriamente abbiamo chiamato proletari finanziari – seguiti subito però anche da grandi investitori, quindi smentendo velocemente lo storytelling (che era stato rapidamente diffuso e condiviso) di una finanza finalmente dal basso, anti-Wall Street e anti-hedge fund speculativi, una finanza magari anche un poco anarchica o almeno libertaria.
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Dai tulipani ai videogiochi
Torniamo allora alla bolla dei tulipani del 1637, “la prima grande crisi finanziaria prodotta dalla speculazione e che coinvolse tutta l’economia europea di quei tempi. Iniziò nella seconda metà del 1500, quando i bulbi cominciarono ad essere esportati dalla Turchia all’Europa. L’Olanda ne iniziò a sua volta la produzione. Le varietà più pregiate diventarono rapidamente beni di lusso, soprattutto per borghesia e ricchi commercianti e quindi scambiate a prezzi crescenti”. I bulbi diventarono così un solido investimento, a detta dei più (un classico esempio di effetto gregge o di conformismo finanziario), giocando su quelli che oggi sono denominati futures, ovvero “il bulbo era un ‘concentrato di fiori futuri’. I fioristi cominciarono inoltre a prenotare in anticipo i bulbi ai contadini, utilizzando contratti con prezzi fissati ex ante, da onorare poi alla consegna e così pagando solo un acconto sul prezzo finale. E il prezzo dei bulbi rapidamente si slegò dalla realtà. Il gioco al rialzo non si fermò, per un meccanismo che si auto-alimentava e che si auto-confermava (era la sua autoreferenzialità, era la profezia che si auto-avvera, oggi la chiamiamo viralità). “La psicologia era più forte della ragione. La bolla raggiunse la sua massima espansione nell’asta del 5 febbraio 1637, in cui centinaia di lotti di bulbi vennero venduti per un equivalente odierno di 5 milioni di euro, ogni bulbo venduto a un prezzo pari al reddito di 1,5 anni di lavoro di un muratore del tempo. Nei giorni seguenti, tuttavia, l’euforia si trasformò in panico. Un’asta andata deserta provocò quello che si chiama il panic selling facendo crollare i prezzi”[2].
Analogamente è accaduto per le azioni di GameStop, il cui schizzare in alto non è stato determinato da motivazioni economiche razionali (può esserci qualcosa di razionale nella finanza e nella finanziarizzazione dell’economia? – un processo ben analizzato da Luciano Gallino alcuni anni prima di morire e da lui definito come finanzcapitalismo[3]) – ma dalla quantità di persone (di nuovo, l’effetto gregge, la viralità della partecipazione conformistica alle illusioni della finanza come della Silicon Valley) coinvolte dalla frenesia finanziaria sui titoli di GameStop. In questo, il web è un’arma potentissima.
E questo dovrebbe porci allora il problema se sia possibile razionalizzare un mercato finanziario che vive di irrazionalità, di spericolatezza, di cinismo nichilista e gode molto di tutto questo: un godimento che appunto riunisce nella stessa figura economica – il finanzcapitalismo, appunto – edonismo e narcisismo, corsa all’oro facile facile, cinismo e sadismo, irresponsabilità e pulsionalità, speranza di vivere meglio, bisogno di favole a lieto fine.
Il finanzcapitalismo e la sua ‘democratizzazione’
A questo meccanismo possiamo allora aggiungere un ulteriore elemento che prendiamo da Luciano Gallino per valutare gli effetti della finanza e delle nuove tecnologie sulla società. Una società un tempo divisa in classi contrapposte e conflittuali e oggi invece tutte integrate nel sistema tecnico e capitalistico, tutti imprenditori (apparenti) di sé stessi, tutti finanzieri (apparenti) di sé stessi – e sono cose che il sistema ci vuole insegnare fin da piccoli. Gallino definiva infatti il finanzcapitalismo come una macchina sociale che ha però superato in pervasività tutte quelle precedenti. E mega-macchine sociali sono tutte “le grandi organizzazioni gerarchiche che usano gli esseri umani come componenti della stessa macchina o come sue servo-unità”. Ed esistono da migliaia di anni, da quella che permise la costruzione delle piramidi, salendo fino ad oggi. Mega-macchina sociale è stata la fabbrica fordista-taylorista e oggi è l’Industria 4.0/taylorismo digitalizzato; mega-macchina sociale è oggi la rete (anch’essa una organizzazione gerarchica), quella che noi consideriamo e definiamo come fabbrica-rete e che usa gli esseri umani (chiamati nodi, ma è il nome nuovo per dire servo-unità) – analogamente a tutte le macchine sociali del passato, di cui la rete/digitale è solo l’ultima forma raggiunta e perfezionata – come parti della macchina, come sue servo-unità integrate, perché connesse/integrate in just in time e in just in sequence, anche se fisicamente distanti.
E come la rete per noi, il finanzcapitalismo – secondo Gallino – inteso come macchina sociale ha superato tutte le precedenti forme di organizzazione/macchine produttive industriali, in ragione della sua pervasività capillare, della sua penetrazione in tutti i sottosistemi sociali (e analogamente per noi la rete) “e in tutti gli strati della popolazione, della natura e della persona”. Facendosi macchina che produce forme di vita funzionali al suo funzionamento come macchina sociale.
La ‘macchina-sociale’
Ovvero, rete/tecnologia e capitale/finanza sono le due facce della stessa medaglia tecno-capitalista, finalizzate – perché è nell’essenza della tecnica e nell’essenza del capitalismo – a trasformare la società umana in società di mercato e in società tecnica – appunto: in macchine sociali. In cui ciascuno deve farsi parte/servo-unità non solo passiva, come nel vecchio fordismo-taylorismo, ma proattiva per la riproducibilità e il potenziamento del sistema; e ciascuno deve essere connesso in rete e ciascuno (servo-unità della finanza) deve diventare finanziere/investitore e giocare al gioco della finanziarizzazione della propria vita. Sussumendola nel sistema finanziario come piccolo o grande investitore. Così come deve sussumerla nella fabbrica-rete come produttore, consumatore, generatore di dati, credendo però di essere imprenditore di se stesso e di essere proprietario dei mezzi di produzione (cioè di se stesso, mentre la proprietà, anche di se stesso come mezzo di produzione ad esempio di dati è sempre di un capitalista).
Un finanzcapitalismo che illude ciascuno di essere magari contro gli hedge fund, di essere parte di una finanza democratica (una contraddizione in termini, a parte forse le banche etiche), oggi resa più facile (ma anche più falsa) dalla tecnologia di rete, dai Roaring Kitty su YouTube, dai Reddit e simili. Che non smontano e non democratizzano il sistema finanziario. Un sistema che non produce valore/profitto producendo merci, secondo la classica formula D(enaro iniziale)-M(erci prodotte)-D’ (ovvero plusvalore/profitto maggiore di D, ottenuto vendendo le merci prodotte), ma D-D’, cioè estrazione di profitto attraverso il denaro, produzione di denaro a mezzo di denaro – un meccanismo antico, ne accennava anche Marx
Formula che si affianca, integrandola, a quella D-(MV)-D’, dove MV significa (semplificando un po’) che la vita stessa dell’uomo (lavoro, consumo, relazioni, affetti, emozioni, pensieri, comunicazioni) è divenuta merce (tradotta in dati) e insieme forza lavoro e mezzo di produzione, da cui il capitalismo estrae valore senza necessariamente produrlo. E se un tempo il sistema si basava sulla organizzazione scientifica del lavoro e poi del consumo, oggi si basa sulla organizzazione algoritmica della vita intera dell’uomo.
Anche la storia di GameStop è allora un pezzo della grande narrazione del tecno-capitalismo finanziario dentro la mega-macchina sociale del tecno-capitalismo. Come lo è il capitalismo delle piattaforme, come lo è il capitalismo della sorveglianza secondo Shoshana Zuboff[4]. Parti integrate dell’organizzazione capitalistica della vita umana. Perché nel sistema capitalistico tutto deve essere tradotto in profitto privato. Tutto e tutti – se ha ragione Gallino – devono essere parti/servo-unità integrate nella macchina sociale e a produttività crescente.
E allora, il cambio di paradigma che oggi staremmo vivendo non è dato dal passaggio al digitale, come ieri non lo è stata la catena di montaggio rispetto alla fabbrica di spilli di Adam Smith; ma da cosa riesce a fare il tecno-capitalismo della vita umana grazie a una tecnologia che evolve nel proprio accrescimento e nella sua logica di connessione/convergenza crescente in macchine/sistemi/reti sempre più integrate e nel suo farsi sempre più forma sociale. O macchina sociale. Di noi il sistema non butta via niente; e da noi estrae sempre maggiore plusvalore per sé.
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Bibliografia
- Rimandiamo per i dettagli – su queste ‘pagine’ – a Davide Bedini, “I ribelli di Gamestop, capire il fenomeno che ha sconvolto il trading” – https://www.agendadigitale.eu/cultura-digitale/i-ribelli-di-gamestop-come-capire-il-fenomeno-che-ha-sconvolto-il-trading/ ↑
- In L. Demichelis (2020), “Sociologia della tecnica e del capitalismo. Ambiente, uomini e macchine nel Tecnocene”, FrancoAngeli, Milano, pag. 208 ↑
- L. Gallino (2011), “Finanzcapitalismo”, Einaudi, Torino ↑
- S. Zuboff (2020), “Il capitalismo della sorveglianza”, Luiss, Roma ↑