lavoro e benessere

Gamification: perché e come il gioco cambia il significato del lavoro

Per pensare alla relazione tra gioco e lavoro dobbiamo superare la logica prevalente che vede questi due aspetti in una dicotomia. Ma cos’è, nello specifico, la gamification e come si applica ai processi aziendali?

Pubblicato il 04 Mar 2022

Federica Colli

Psicologa, Formatrice e consulente HR in Laborplay

Gaetano Andrea Mancini

Psicologo, dottore di ricerca e professore a contratto presso l'Università degli Studi di Firenze

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Pensare alla relazione tra gioco e lavoro nell’ottica di quella che oggi viene definita “gamification”, implica un ripensamento del significato psicosociologico del lavoro e del mondo organizzativo, implica pensare che il lavoro possa essere altro rispetto a quello che è, implica pensare che si possa lavorare anche in maniera divertente valorizzando la componente espressiva a discapito di quella repressiva (Colli, Meneghetti, Viola, 2021).

Ma quali sono gli ambiti di intervento in cui è possibile utilizzare il gioco in azienda?

“Gamification”: lavorare giocando fa bene, ma attenti a privacy ed effetto “uomo criceto”

Gamification: ma cos’è?

Partiamo dalla definizione di gamification: “L’uso di elementi di game design in contesti non ludici” (Deterding, Dixon, Khaled, & Nacke, 2011, p. 9). È questa la definizione che alcuni dei principali studiosi danno di gamification, un costrutto che sta generando da alcuni anni un intenso dibattito e numerose applicazioni in svariati ambiti, in particolare quelli educativi, lavorativi, intra-organizzativi, d’innovazione, del commercio e della salute (Hamari, Koivisto, & Sarsa, 2014).

Cercando le origini di questo termine si osserva che, nonostante sia stato usato per la prima volta in modo documentato nel 2008 (Paharia, 2010), è solo dal 2010 che è iniziata la sua diffusione e sebbene se ne senta molto parlare da oltre dieci anni, ancora nel mondo del lavoro sono presenti stereotipi e pregiudizi relativi all’utilizzo del gioco.

Spesso nelle nostre attività come psicologi, formatori o assessor che si avvalgono di dispositivi ludici, sentiamo rivolgerci frasi come: “facciamo il giochino?” come se in quel diminutivo si volessero celare tutti quegli aspetti culturali che posizionano -in una dicotomia ossimorica- il mondo del gioco e quello del lavoro.

Giocare non è serio: ma lavoro e benessere non sono contrapposti

Giocare non è serio, giocare si contrappone al lavorare. Ancora oggi prevale una visione adulto-centrica che ritiene il gioco una perdita di tempo, un distrattore, una pseudoattività senza valore funzionale. A maggior ragione nel mondo del lavoro in cui in alcuni casi ancora si fatica ad accettare l’idea che se una persona a lavoro è motivata e libera di esprimersi sarà anche più produttiva. Ancora si fatica a pensare che il benessere lavorativo sia una componente essenziale all’interno delle organizzazioni.

Le due funzioni fondamentali del lavoro

Esistono due funzioni fondamentali del lavoro. Da un lato, nella sua versione negativa il lavoro diventa il luogo dell’alienazione, conservando unicamente il carattere di necessità e di costrizione. L’origine etimologica della parola lavoro deriva dal latino tripalium che significa strumento di tortura e ben si presta a sottolineare l’aspetto della dominazione sociale. Dall’altro lato si possono sottolineare gli aspetti positivi pensando al contributo essenziale che dà alla vita, le possibilità che offre, la realizzazione personale, la creazione, la libertà. Lavorare non è solo dedicarsi ad un’attività, è anche stabilire relazioni con gli altri, impegnarsi in forme di collaborazione e di scambio, tanto che una famosa psicosociologa, Dominique Lhuilier (2005), afferma che il lavoro è la scena dove si giocano il rapporto con sé stessi, il rapporto con gli altri e il rapporto con il reale.

La funzione espressiva si ha quando la persona mette in atto un’azione che riconosce come propria, che corrisponde ai propri valori, al proprio ideale e di cui sente la responsabilità e l’autonomia, che soddisfa le esigenze di affermazione di un io, di un’identità. Ma nel contesto socio-storico attuale forse non siamo poi così vicini come speriamo a questa valorizzazione della componente espressiva.

Il gioco per recuperare la funzione espressiva del lavoro

È qui che il gioco si potrebbe inserire come strumento per recuperare la funzione espressiva del lavoro. È qui che vale la pena riprendere una classica definizione di gioco data da Jane Mcgonigal (2011), una delle più famose game designer al mondo: giocare un gioco è un tentativo volontario di superare ostacoli non necessari. Rispetto ai giochi la realtà è troppo facile. I giochi ci mettono alla prova con ostacoli volontari e ci aiutano a mettere meglio a frutto i nostri personali punti di forza.

Il gioco consente di esprimerci ed esprimere le nostre potenzialità ed è stato il nostro strumento privilegiato sin dall’infanzia. Al bambino il gioco serve a esprimere la propria creatività e le proprie energie, serve a sperimentare le interazioni tra oggetti, tra persone e a sperimentare il mondo in generale, serve a dare libero sfogo a frustrazioni, desideri e stati emotivi, ma la stessa cosa vale per gli adulti perché è proprio “nel giocare e soltanto mentre gioca che l’individuo, bambino o adulto, è in grado di essere creativo e di fare uso dell’intera personalità, ed è solo nell’essere creativo che l’individuo scopre il sé” (Winnicott, 1971, p. 102).

Il gioco per facilitare processi aziendali

Nel libro “Giocarsi: gaming e gamification in contesti professionali” (Colli, Meneghetti, & Viola, 2021), si delineano alcuni ambiti di intervento in cui applicare gaming e gamification come la formazione esperienziale basata sull’utilizzo di strumenti game based e progetti volti a stimolare l’engagement al lavoro.

Non si tratta di progettare giochi da tavolo o videogame al solo fine dell’intrattenimento, ma di sfruttare le potenzialità e la stra-ordinarietà del gioco per disegnare il coinvolgimento e facilitare processi aziendali, tra cui la formazione, la selezione del personale, la valutazione del potenziale e più in generale il coinvolgimento delle persone.

Le meccaniche della gamification

In base all’obiettivo e alla tipologia di meccanica di gioco è possibile far leva su specifici “driver motivazionali”. Un esempio di come poter sfruttare al meglio queste leve motivazionali è dato dal framework Octalysis (Yu-Kai Chou, 2016), che riordina le principali meccaniche della gamification in otto “driver” in grado di influenzare la motivazione umana. Si tratta di un modello utile nella fase di progettazione di un gioco, ma in questa sede appare più importante sottolinearne la stretta relazione esistente tra le 8 leve e alcune indispensabili basi psicologiche.

Le leve motivazionali

Ad esempio, il “Development & accomplishment” è strettamente legato a quello che in psicologia viene chiamato il need for achievement, cioè il bisogno di ottenere dei risultati attraverso l’attività che si sta svolgendo. Inserire obiettivi chiari, punti, crediti, badge o classifiche all’interno di un gioco, consente proprio di far leva su questo tipo di bisogno e aumentare la motivazione a svolgere un compito. Lo stesso tipo di leva motivazionale si ritrova nel lavoro: quando non abbiamo risultati visibili che possiamo collegare chiaramente ai nostri sforzi, è impossibile trovare nel nostro lavoro una soddisfazione reale.

Un ulteriore esempio è dato da quello che nel framework Octalysis viene definito “Empowerment of creativity & feedback”: nel gioco come nel lavoro coinvolgere le persone in un processo creativo in cui tentare di trovare delle soluzioni rappresenta una potente leva motivazionale. Si tratta di incrementare l’empowerment: un processo di partecipazione attiva e di utilizzo sia delle proprie potenzialità (self-empowerment) sia di quelle del proprio gruppo che della propria organizzazione.

Need for achievement e Empowerment, sono soltanto due esempi delle molteplici leve motivazionali che consentono di pensare alla stretta relazione tra gioco e lavoro e a come, attraverso l’utilizzo di elementi tratti dalla gamification, sia possibile pensare ad un lavoro diverso, un lavoro che ci faccia sentire realmente coinvolti e che sia frutto di gratificazione.

Conclusioni

Per concludere, per pensare alla relazione tra gioco e lavoro dobbiamo superare la logica prevalente che vede questi due aspetti in una dicotomia. Sutton-Smith, uno dei più importanti psicologi del gioco, sottolinea in modo forse provocatorio che, a differenza di quello che comunemente si può ritenere, “l’opposto del gioco non è il lavoro. È la depressione” (Sutton-Smith, 1997). In questo senso i concetti di “lavoro” e di “gioco” si fondono, producendo un’amalgama più efficace e vantaggiosa sia in termini di produttività che di soddisfazione e partecipazione attiva dei lavoratori.

Bibliografia

Colli F., Mengehetti C., & Viola F. (2021). Giocarsi: gaming e gamification in contesti professionali. Firenze: Hogrefe.

Deterding, S., Dixon, D., Khaled, R., & Nacke, L. (2011). From Game Design Elements to Gamefulness: Defining “Gamification”. In A. Lugmayr, H., Franssila, C. Safran, & I. Hammouda (Eds.), MindTrek 2011 (pp. 9-15). New York: ACM.

Hamari, J., Koivisto, J., & Sarsa, H. (2014). Does Gamification Work? A Literature Review of Emperical Studies on Gamification. 47th Hawaii International Conference on System Science, pp. 3025-3034.

Lhuilier D. (2005). Lavoro, in Barus, M., Enriquez, E., Lévy A. (a cura di) Dizionario di Psicosociologia. Milano: Raffaello Cortina.

McGonigal J. (2011). La realtà in gioco. Perché i giochi ci rendono migliori e come possono cambiare il mondo. Milano: Apogeo.

Paharia, R. (2010). Who coined the term “gamification”? Quora.

Sutton-Smith, B. (1997). The Ambiguity of Play. Cambridge, MA: Harvard University Press.

Winnicott, D. (1971). Gioco e realtà. Roma: Armando.

Yu-Kai Chou (2016). Actionable Gamification: beyond points, badges and leaderboards. Octalysis Media: Fremon

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