tecnologia e società

Gaza, la guerra di donne e bambini: il caso al-Najjar su TikTok e giornali



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Affrontando il tema partendo dall’uccisione, da parte dell’esercito israeliano, di nove dei dieci bambini della dottoressa Alaa al-Najjar a Gaza, vediamo la diversa rappresentazione sui media tradizionali e sui social, per confrontarne modalità di narrazione

Pubblicato il 30 mag 2025

Nicoletta Pisanu

Giornalista professionista, redazione AgendaDigitale.eu



Gaza
Gaza

Negli ultimi giorni un evento di cronaca che si contestualizza nel dramma della guerra a Gaza ha catturato l’attenzione mediatica, superando per notiziabilità e impatto ogni altro aspetto del conflitto. L’uccisione dei nove figli della dottoressa Alaa al-Najjar va oltre la cronaca e diventa microstoria. È un episodio che si staglia nella cornice globale, come le righe sulla mamma di Cecilia ne “I promessi sposi”, a ricordarci che la guerra prima che un fatto geopolitico o economico è un dramma sociale. E ovviamente, se ne parla sia sui giornali che sui social.

Partendo da una ricerca su fonti aperte, i contenuti su TikTok sono risultati particolarmente interessanti per un’analisi comparativa per capire le diverse modalità di rappresentazione di questo caso, linguaggio e tecniche utilizzate e gli obiettivi.

Gaza, i crimini contro donne e bambini nel rapporto Onu

Per avere i giusti strumenti critici, è importante capire il contesto in cui questo episodio si inserisce. Parlare di guerra è troppo generico, in questo caso. Un rapporto dell’Onu pubblicato a marzo 2025 dalla Commissione internazionale indipendente d’inchiesta sui Territori palestinesi occupati e intitolato “More than a human can bear” esamina la “sproporzionata violenza”, per citare il documento, “contro donne e bambini derivante dal metodo di guerra israeliano, compresi gli attacchi contro edifici residenziali e l’uso indiscriminato di esplosivi pesanti in aree densamente popolate”.

Il documento spiega che le attività militari israeliane hanno preso di mira in modo diretto le donne civili palestinesi, in modo da configurare crimini contro l’umanità come l’omicidio e lo sterminio e il crimine di guerra dell’omicidio volontario.

Le donne a Gaza, spiega la Commissione, muoiono per le bombe e gli altri attacchi militari, ma anche per “la fame come metodo di guerra”, le complicazioni legate a parto e gravidanza per le condizioni sanitarie imposte: sono state “deliberatamente distrutte” le strutture sanitarie legate alla riproduzione, i reparti di neonatologia, è stata impedita l’assistenza internazionale su larga scala. Prospettive fisiche riproduttive e di fertilità dei palestinesi di Gaza come gruppo.

Atti che hanno un impatto sulla salute riproduttiva a lungo termine dei palestinesi, spiegano gli esperti dell’Onu, ed “equivalgono a crimini contro l’umanità e a infliggere deliberatamente condizioni di vita calcolate per provocare la distruzione fisica dei palestinesi come gruppo, una delle categorie di atti di genocidio nello Statuto di Roma e nella Convenzione sul genocidio”.

La storia dei nove figli di Alaa al-Najjar

Secondo i dati riportati in una dichiarazione del Direttore regionale dell’Unicef
per il Medio Oriente e il Nord Africa, Edouard Beigbeder
in un post aggiornato al 28 maggio, dalla fine del cessate il fuoco del 18 marzo sono stati uccisi 1.309 bambini, 3.738 sono stati feriti. Sempre l’Unicef spiega che secondo i dati dall’ottobre 2023 sono stati uccisi o feriti a Gaza circa 50mila bambini.

Tra i tanti episodi, l’uccisione di nove dei dieci figli della dottoressa Alaa al-Najjar, avvenuta venerdì 23 maggio 2025, è stata ripresa da ogni media nella settimana seguente all’accaduto. I nove bambini, di età comprese tra i 12 e i 2 anni, sono rimasti vittime in un bombardamento a Khan Younis, zona centrale della striscia di Gaza, dove la dottoressa e suo marito Hamdi, anch’egli dottore, erano rimasti a vivere coi figli perché all’ospedale c’è bisogno di medici. La madre era al lavoro in quel momento, nel raid si sono salvati solo il papà e un decimo figlio, Adam, rimasto gravemente ferito.

La rappresentazione su TikTok del caso al-Najjar

Sui social, in particolare su TikTok, si sono diffusi al riguardo due tipologie di contenuti.

I contenuti giornalistici hanno approcciato la vicenda fornendo attraverso brevi video approfondimenti sul caso. In particolare, si segnalano i contributi di reporter palestinesi che ricordiamo stanno pagando un alto tributo per seguire la guerra in prima persona, ma anche di testate internazionali, con anche il contributo di forme di citizen journalism da parte di locali. Sono contenuti certamente toccanti per la portata della notizia raccontata, ma gestiti con tecnica giornalistica e che puntano dunque a informare, con precisione e verificando i fatti.

Diverso invece è il caso dei numerosi contenuti dei creator sulla vicenda, che puntano maggiormente sull’emotività e sembrano avere diversi obiettivi:

  • alcuni creators sono attivisti pro Palestina, impegnati in organizzazioni che supportano questa causa, o professionisti che si occupano del tema per lavoro e raccontano l’accaduto esprimendo in libertà la loro posizione sulla guerra in corso;
  • altri invece sono comuni cittadini o persone che addirittura non hanno mai trattato di Palestina sui loro profili ma, mossi dalla rilevanza della notizia su un piano emotivo o per la risonanza mediatica, hanno dedicato contenuti alla vicenda.

Linguaggio e tecnica dei creator sul caso al-Najjar su TikTok

In quest’ultima vasta selva di video di privati, emergono alcuni elementi comuni:

  • l’uso del linguaggio è volto a suscitare emozioni, è spesso forte. Alcuni creator si riferiscono ai bambini come martiri, si sfruttano varie sfumature inerenti alla sfera semantica dell’uccisione, da trucidati a massacrati, sia in inglese che in italiano.
  • la tecnica audiovisiva: oltre ai video che ritraggono immagini della devastazione a Gaza, con l’uso dell’intelligenza artificiale sono stati creati video che presentano il racconto dal punto di vista della dottoressa, rappresentandola con l’AI e sempre con l’AI si crea una voce femminile che racconta l’accaduto, come fosse una testimonianza in prima persona;
  • la modalità di storytelling: i creator sfruttano diverse tecniche di narrazione per raccontare al proprio pubblico la vicenda. C’è chi si presenta in lacrime e riporta la notizia, chi fissa la telecamere e adotta un approccio che imita i giornalisti televisivi, anche chi gestisce canali che trattano altri temi ma cavalca la notizia. Il caso, questo, di un profilo inglese realizzato con AI e dedicato al racconto di episodi di true crime che tuttavia ha dedicato un video alla vicenda palestinese.

Gaza su TikTok, il problema del fact checking dei contenuti

Emerge in questi casi specifici, non trattandosi di contenuti verificati o gestiti da una redazione di professionisti dell’informazione, un problema di fact checking. Da menzionare, come esempio raccolto durante la nostra analisi sui contenuti dedicati al caso al-Najjar, la diffusione di una foto che ritrae sette bambini seduti intenti a fare merenda, immagine che è stata diffusa da vari profili, alcuni di comuni cittadini e altri dedicati interamente alla causa palestinese.

Tuttavia, i bambini ritratti non erano i figli dei dottori, ma appartenevano a un’altra famiglia anch’essa rimasta vittima degli attacchi a marzo. Diffusa anche la foto di Adam, il figlio undicenne, a volte in modo appropriato, altre invece indicandolo come uno dei bambini deceduti. Allo stesso modo sono state diffuse foto che ritraggono donne che indossano diversi veli e abiti islamici, come l’hijab o il niqab, indicate nelle diverse occasioni come la dottoressa al-Najjar pur non trattandosi di lei. Situazioni, queste, che spingono anche a riflettere sulla tutela dell’immagine dei minori in contesti di guerra e sui social.

Ritmo della cronaca vs narrazione sui social

I giornali e i telegiornali hanno seguito l’andamento della cronaca, che rispetto alla narrazione dei social è più ponderato. Non lento: le versioni online dei giornali spesso battono sul tempo i creator. Ma c’è un processo legato alla valorizzazione della propria autorevolezza, dunque di verifica, di controllo e deontologia, oltre alla necessità di rimanere su una storia per un tempo direttamente proporzionale alla sua importanza in termini di notiziabilità.

Per esempio, negli ultimi giorni i quotidiani si sono concentrati su Adam, il figlio sopravvissuto della dottoressa, riportando gli appelli dei familiari a evacuarlo in sicurezza e le proposte di alcuni ospedali – anche italiani – di accoglierlo per fornirgli le cure necessarie.

Su TikTok invece i contenuti che si trovano con chiavi di ricerca legate a questo caso sembrano congelati al momento del massacro. Leggendo i commenti ad alcuni video si notano utenti chiedere aggiornamenti su figlio e papà sopravvissuti, ma con ridondanza i contenuti ripropongono il tema delle nove vittime, della madre distrutta, in uno straziante loop.

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