Lavoro e salute mentale

Gen Z, meglio disoccupati che infelici? Ecco come cambieranno (in meglio) il lavoro

La ricerca del benessere è più importante di un qualsiasi lavoro: i ventenni della generazione Z antepongono la felicità al sacrificio. Sempre più richiesti dal mercato e sempre meno disposti a sottostare a condizioni giudicate insoddisfacenti, ecco come potrebbero cambiare il mondo del lavoro e come sciogliere il conflitto

Pubblicato il 04 Ott 2022

Gianna Angelini

Direttrice scientifica di AANT

piano scuola 4.0

La generazione Z è giunta ormai all’età del lavoro. Il suo confronto con l’occupazione è materia di grande dibattito in questi ultimi mesi, sia da parte dei Millennials che li affiancano nell’occupazione e sono superiori di loro in grado, sia della generazione precedente che, di fatto, è quella che li assume. La discussione nasce dal particolare approccio che questa generazione di ventenni ha nei confronti del mondo professionale: apparentemente poco ambizioso e subordinato a una visione del mondo che mette la felicità al primo posto, per cui meglio disoccupati che infelici.

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Tutto questo a fronte di una sempre maggiore richiesta del mercato del lavoro che, invece, li cerca ardentemente e chiede di mettere a frutto quelli che, da nativi digitali, dovrebbero essere i loro naturali talenti. Un mismatch che si prevede aumenti nei prossimi anni, dovuto da una sempre crescente richiesta di competenze legate al mondo digitale e delle nuove tecnologie e da una sempre minore capacità o desiderio dei giovani, di soddisfarla alle condizioni imposte dal mercato.

La richiesta crescente di competenze digitali e green

Secondo le stime del “Rapporto sulle previsioni dei fabbisogni occupazionali e professionali in Italia a medio termine (2022-2026)”, elaborate nell’ambito del Sistema informativo Excelsior di Unioncamere e Anpal, con dati aggiornati a giugno 2022, si prevede un fabbisogno totale compreso tra 4,1 e 4,4 milioni di lavoratori tra il 2022 e il 2026.

Secondo questo rapporto, si stima che “le professioni specialistiche e tecniche, con un fabbisogno intorno a 1,6 milioni di occupati nel quinquennio, rappresenteranno quasi il 41% del totale del fabbisogno occupazionale, confermandosi in crescita rispetto alle stime precedenti”. Questa tendenza, registrata anche dalla seconda edizione dell’e-book I lavori del futuro” di Alteredu, che si basa sulle proiezioni al 2024 stilate dell’Anpal, è sicuramente alimentata dalla progressiva diffusione delle tecnologie di intelligenza artificiale e di automazione industriale degli ultimi anni.

Allo stesso modo, saranno richieste sempre più diffusamente le competenze green legate ai processi di transizione verde e digitale. Citando il rapporto: “nei prossimi 5 anni le imprese e il comparto pubblico richiederanno il possesso di attitudine al risparmio energetico e alla sostenibilità ambientale a 2,4 milioni di occupati e per il 60% di questi tale competenza sarà richiesta di livello elevato”.

Date queste premesse, non è difficile intuire il motivo per cui le attività lavorative del futuro richiederanno molte competenze nel campo dell’interpretazione dei dati e dei processi di analisi, quindi specializzazioni matematiche, informatiche e legate all’industria 4.0, né tanto meno comprendere come a vecchie professioni, già conosciute e sperimentate (l’esperto Seo e di comunicazione, lo sviluppatore software per esempio) si affianchi la richiesta di nuove figure ad oggi sconosciute (il manager di avatar virtuali per l’insegnamento, l’e-commerce manager, il growth hacker).

E chi meglio della generazione Z, cresciuta in un mondo esteso caratterizzato dalla compresenza di reale e virtuale, potrà essere in grado di interpretare queste nuove professioni? Eppure, mancano all’appello circa 38mila giovani per ogni anno di previsione, secondo il rapporto dell’Anpal, quindi ci deve essere qualcosa che non li convince a buttarsi nella mischia. Ma cosa?

Cosa sceglie la Generazione Z

Uno studio condotto da Randstad nel 2022 su un campione di 35 mila persone di età compresa tra i 18 e i 67 anni da 34 Paesi diversi, tra cui anche l’Italia, ci mostra una forza lavoro molto diversa da quella a cui siamo stati abituati, noi della generazione X per esempio, cresciuti nell’ottica di identificare il lavoro con il sacrificio.

Secondo questo rapporto, la Generazione Z e i Millennials mettono al primo posto la felicità: il 56 per cento di loro, infatti, afferma candidamente che lascerebbe il lavoro se impedisse loro di «godersi la vita».

La ricerca del benessere, indubbiamente accentuata dalle incertezze dello scenario post-pandemico e dall’attuale difficile prospettiva legata al conflitto in Ucraina, è un obiettivo che viene perseguito da queste generazioni non solo sul lavoro, ma anche nell’ambiente lavorativo. Questo si traduce nel desiderio di avere un dialogo e un’affinità di vedute nei confronti del datore del lavoro anche sul piano dei valori sociali e delle cause sostenute. In particolare, secondo lo studio, il 43 per cento degli intervistati si dichiara disposto a rifiutare il lavoro nel caso in cui ci si trovi di fronte a una mancanza di volontà di rendere l’ambiente di lavoro inclusivo.

Meglio disoccupati, quindi, che accettare un lavoro che non li fa sentire bene. O meglio dare le dimissioni e cercare qualcos’altro. Un altro aspetto, quello della fuga dal lavoro dei giovani, che non può non essere considerato dai datori di lavoro di oggi e di domani, i quali rischiano di non poter troppo far affidamento sui propri dipendenti.

Nonostante, infatti, i giovani dichiarano di non sottovalutare l’importanza del lavoro per il loro futuro (si pronuncia in questo modo il 75% degli intervistati), non mancano di dichiarare con chiarezza che hanno altre priorità, per inseguire le quali, se cambiare lavoro può aiutare, allora che si cambi pure. L’analisi dei trend di LinkedIn, la piattaforma social dedicata all’impiego, lo conferma, mostrando come il 40% dei propri utenti della fascia giovanile cambi il proprio stato lavorativo in media ogni quattro anni.

Conclusioni

Di fronte a questo quadro, in cui abbiamo da un lato una generazione fondamentale per la gestione del nostro prossimo futuro, perché stiamo parlando di esperti del digitale con una visione del mondo consapevole delle problematiche sociali e un grado di istruzione più elevato rispetto a quello delle generazioni precedenti, dall’altro datori di lavoro spiazzati dal cambiamento, ritengo che l’unica soluzione sia quella di focalizzarsi su alcune parole chiave che possano sciogliere il conflitto.

E queste dovrebbero essere: mentorship e conquista della fiducia, valorizzazione di diversità e inclusione, attenzione alla salute mentale.

I giovani, il cui atteggiamento fluido nei confronti del mondo del lavoro li può far apparire superficiali, in realtà superficiali non sono affatto. Essi chiedono di essere compresi per potersi fidare e pretendono di sentirsi bene mentre rispondono alle richieste legate ai loro doveri contrattuali. Per questo non basta assicurarsi che abbiano una buona formazione, ma è necessario creare i presupposti per un ambiente lavorativo che sia veramente inclusivo e che sia, soprattutto, attento alle problematiche psicologiche che lo shock di dover lavorare in un contento così incerto possa generare loro. Una generazione che conosce più di altre, gli effetti dell’ansia e della depressione, acuita dal periodo pandemico.

Personalmente mi sembrano aspetti che, se curati in generale, non possano che far bene all’evoluzione del mondo lavorativo. E allora perché non impegnarsi a provarci?

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