Ultimamente la parola “gig” è diventata sinonimo di riders. E di conseguenza normare la gig economy pare significare solo normare un caso nella galassia della contrattualistica italiana. Sbagliato. Normare la gig economy significa anzitutto avere la creatività e la grande responsabilità di dare (per la prima volta) delle regole a quella che sarà una grossa fetta del futuro del lavoro. Fetta che, se continua come oggi, rischia di consegnare i gig workers a un destino di sfruttamento e assenza di garanzie.
Le prospettive del mercato in Italia
Senza azione, anche nei prossimi decenni la gig continuerà ad essere espressione del neoliberismo del lavoro e una distorsione della competizione. Eppure, in Italia, in base a una ricerca dell’Università di Pavia, commissionata da Phd Italia, il volume di un simile comparto, sarebbe destinato a salire a 8,8 miliardi di euro nel 2020, fino a un valore compreso tra i 14 e i 25 miliardi nel 2025. Si tratta di un turnover che potrebbe oscillare tra lo 0,7% e l’1,3% del prodotto interno lordo. Secondo altre stime, riportate dal blog di Corriere.it La Nuvola del Lavoro, si parlerebbe di una cifra più che raddoppiata: 53 miliardi di dollari (quasi 50 miliardi di euro) entro il prossimo decennio. Negli Stati Uniti per esempio prima del 2027 potrebbero arrivare a rappresentare quasi un lavoratore su tre, secondo lo studio dei ricercatori del Microsoft Research.
No a vecchie etichette per una nuova forma di lavoro
Approcciarsi alla gig significa anche camminare legislativamente come abili funamboli tra il fornire garanzie e il mantenere intatta l’essenza della gig economy, l’occasionalità. Un ibrido filosofico senza precedenti come questo necessiterebbe di un nuovo approccio e di nuove regole ad hoc, tuttavia ho spesso osservato una tendenza a una reductio alle norme già esistenti. Durante le audizioni in commissione ho notato infatti una propensione generale, tra le parti sociali (sia imprese che sindacati), ad etichettare con i vecchi concetti e con le vecchie norme qualcosa di nuovo che meriterebbe un approccio fresco e svincolato dalle vecchie etichette del giuslavorismo. Per dare corpo a questa frase mi permetto di citare, tra i diversi casi, il desiderio da parte di alcune categorie audite di far ricadere la gig all’interno del Ccnl merci e logistica e della subordinazione.
Una proposta di legge per nuove garanzie ai gig workers
Ciò malgrado, sia con la risoluzione che con la proposta di legge che a breve depositerò, suggerisco di creare una nuova forma contrattuale snella (certamente non un subordinato) che preveda l’istituzione di un contratto di lavoro a chiamata digitale, stipulato online, e la cui durata sia stabilita direttamente tra i contraenti. Viene poi prevista un’adeguata protezione con il pagamento dei contributi INPS e INAIL, nonché un contributo assicurativo e uno contro terzi. E’ inevitabilmente anche previsto un aumento delle competenze dell’ispettorato del lavoro che dovrà vigilare sull’attività delle piattaforme e degli iscritti. Infine si prevede una proibizione del meccanismo di asta al ribasso del lavoro (sotto meglio descritto), uno stop all’elusione dei contributi Irpef, un’estensione della web tax prevista alle transazioni sulle piattaforme, e una forma di deducibiltà come incentivo per la lotta al nero.
Questa proposta dovrebbe portare a delle facili ricadute positive. In primis, si andrebbe a bloccare quella tendenza alla regionalizzazione che ha visto di recente la Regione Lazio approvare, in assenza di normativa nazionale, una legge regionale a tutela dei lavoratori digitali (marzo 2019). In secundis si fornisce finalmente un censimento ad un fenomeno che in Italia non riesce a trovare una definizione e quindi dei numeri certi. Fino ad ora infatti abbiamo assistito all’atomizzazione contrattuale dei gig workers, che varia tra il contratto occasionale (per esempio Deliveroo) e il contratto subordinato. Per non parlare del fatto che oggi molte piattaforme usano il contratto occasionale quasi come un ripiego, sia perché non c’è una forma di inquadramento ad hoc, secondo perché ha un costo inferiore.
Infine, ed è la parte migliore, sono felice che con questa legge un ragazzo ‘early adopter’ della gig economy potrà tra qualche decennio permettersi di andare in pensione e avere dei contributi dopo il proprio lavoro come freelancer. Cosa che, fino ad ora, non gli sarebbe stato possibile fare.
Oltre al contratto sopra genericamente descritto, altri tre sono i punti di novità nel mio approccio:
- si pone fine al modello delle aste al ribasso, presenti in alcune piattaforme;
- si ipotizza la creazione di una matrice contributiva basata su due elementi, le ore lavorate e la natura del prestatore di servizio (business o consumer);
- si ipotizzano dei criteri precisi per il contrasto al rischio della ‘voucherizzazione’ del lavoro.
Entriamo nel dettaglio di questi tre punti.
Fine delle aste al ribasso
Credo sia necessario vietare le piattaforme il cui incrocio di domanda e offerta di lavoro è basato su un’asta al ribasso, su una guerra al minore offerente tra lavoratori. Non ritengo illiberale ma ragionevole impegnarsi per bloccare piattaforme portatrici di un modello di business basato non su un naturale incrocio di domanda e offerta ma su una gara sul costo del lavoro. Senza un’azione per questo problema è ipotizzabile nei prossimi decenni una spirale regressiva, anzi distopica dell’economia del lavoro causata dall’effetto combinato di asta al ribasso e dumping salariale online (sulle piattaforme potrebbero infatti presto trovarsi a competere lavoratori da Paesi con costi del lavoro molto diversificati; si tratterebbe di un modo doloroso di globalizzare il mercato del lavoro).
Matrice contributiva basata sue due elementi tipici della gig economy
Va inoltre segnalato che sebbene sia normale che il Contratto di lavoro a chiamata digitale che ipotizzo si ispiri e si basi sui diritti contributivi del lavoro a chiamata, è anche vero che avrebbe avuto senso perseguire la fantasia di inserire nella determinazione contributiva due elementi centrali della gig economy: il fatto che il freelancer abbia (o meno) già un contratto di lavoro stabile (e quindi svolga lavoretti solo nel tempo libero) e il fatto che la prestazione sia richiesta da un business o da un consumer (dunque C2B oppure C2C). In questo modo si sarebbe potuto determinare una diversa base contributiva INPS a seconda che si stia parlando di un freelencer full-time che presta il suo servizio a dei business, o un freelancer che sporadicamente entra sulle piattaforme a svolgere dei lavoretti per qualche user casuale, ecc. Una matrice che risponde a questi criteri mi pare uno strumento molto più preciso per la determinazione della contribuzione, di sicuro lo è più di un’aliquota unica.
Nuove regole per l’ispettorato del lavoro
Infine, è ragionevole pensare che la nascita di un contratto ad hoc per i gig workers possa spingere alcuni ad abusarne per schivare assunzioni con forme contrattuali più impegnative. A riguardo sarà necessario istituire, nei decreti attuativi della legge, delle regole precise per l’ispettorato del lavoro che dovrà identificare e scongiurare le numerose casistiche che ricadono sotto due cappelli: alcune imprese potrebbero licenziare e cercare di usare una tantum il personale con contratto a chiamata digitale (specialmente per lavori ripetitivi e in cui non è richiesta particolare formazione iniziale); alcune imprese potrebbero persino essere indotte a creare delle apposite piattaforme allo scopo di non assumere il personale a tempo indeterminato.
Ho dunque immaginato una serie abbastanza esaustiva di fattispecie che permetterebbero all’ispettorato di identificare e sanzionare tutte le casistiche con relativa precisione.
Ora permettetemi una clausola (o di mettere le mani avanti): con i tre punti sopra descritti non intendo dire che essi saranno tutti necessariamente presenti nella proposta di legge, i tempi sono ancora lunghi e incerti. Voglio solo dire che queste idee darebbero la condizione ideale per una gig in buona salute.
Ad ogni modo la tendenza attuale ad ostracizzare e mettere alla gogna il concetto stesso di gig working è miope. Per questo confido che con la risoluzione e la proposta di legge, le piattaforme possano non solo fornire un’alternativa credibile su cui costruire un reddito, ma possano anche avere un importante ruolo per aiutare i giovani ad affacciarsi al mondo del lavoro, e i lavoratori al riorientamento e reskilling delle proprie competenze. Al di sopra di tutto, desidero che la gig economy possa tornare ad essere una forza positiva in cui incanalare, con diritti e doveri chiaramente stabiliti, le nuove spinte del mercato del lavoro, generando una valida alternativa a un destino fatto di lavoro sregolato e a buon prezzo. Ma soprattutto, se normata con saggezza e lungimiranza, saprà essere una degna (e dignitosa) fetta del futuro del lavoro in questo Paese.