lavoro e tutele

Gig economy è il solito vecchio sfruttamento: la sentenza

Il problema della gig economy è che la digitalizzazione è mera apparenza, perché si tratta di economia reale che “cammina” sulle gambe delle persone. Sullo sfondo, ancora la difficoltà del legislatore italiano di regolare il rapporto di lavoro in modo efficace. Il filone inaugurato da una recente sentenza

Pubblicato il 12 Nov 2021

Massimo Borgobello

Avvocato a Udine, co-founder dello Studio Legale Associato BCBLaw, PHD e DPO Certificato 11697:2017

Photo by Paolo Feser on Unsplash

La condanna inflitta dal Gup milanese (3 anni e otto mesi di reclusione) ad uno dei responsabili delle società di intermediazione coinvolte nell’inchiesta “Uber” per il delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro apre un filone potenzialmente molto esteso, anche se il fenomeno era già stato oggetto di numerosi interventi giudiziari.

Lo sfruttamento dei rider ingaggiati da Uber Italy srl per la consegna di cibo a domicilio in quattordici città italiane è un fatto accertato in una sentenza di primo grado resa in giudizio abbreviato nei confronti di alcuni degli imputati; altri avevano preferito “patteggiare” la pena.

Altri ancora, però, sono a dibattimento per gli stessi fatti: la storia delle aule di tribunale dirà se gli eventuali giudicati saranno analoghi o contrastanti.

Gig economy, quali tutele per quale lavoro: le risposte politiche che servono adesso

Per come la vicenda è stata descritta nel secondo decreto di amministrazione controllata – poi revocato in seguito all’adozione di prassi virtuose di selezione del personale da parte di Uber Italy – il reclutamento della manodopera avveniva mediante due società della periferia milanese, che si avvalevano prevalentemente di migranti richiedenti asilo, molto vulnerabili socialmente presso centri di accoglienza.

L’obiettivo era intrattenere rapporti di lavoro unicamente con lavoratori costretti ad accettare condizioni di lavoro a ribasso e a cui imporre una situazione di “sopraffazione retributiva e trattamentale”.

In particolare, l’inchiesta aveva evidenziato pagamenti irrisori, sistematica sottrazione delle mance corrisposte, mancato pagamento delle ritenute, “punizioni” consistenti nella mancata corresponsione della retribuzione, imposizione di “un numero di corse non compatibili con una tutela minima della condizioni fisiche del lavoratore”.

In conclusione, è emerso come i riders fossero pagati a cottimo, a 3 euro a consegna.

Il reato contestato

L’imputazione e la recente condanna riguardano il reato di intermediazione illecita e sfruttamento di manodopera, previsto dall’articolo 603 bis del Codice penale, che recita: «Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da 500 a 1.000 euro per ciascun lavoratore reclutato, chiunque:

  • recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori;
  • utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l’attività di intermediazione di cui al numero 1), sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno. Se i fatti sono commessi mediante violenza o minaccia, si applica la pena della reclusione da cinque a otto anni e la multa da 1.000 a 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato.

Ai fini del presente articolo, costituisce indice di sfruttamento la sussistenza di una o più delle seguenti condizioni:

  • la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato;
  • la reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie;
  • la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro;
  • la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti.

Costituiscono aggravante specifica e comportano l’aumento della pena da un terzo alla metà:

  • il fatto che il numero di lavoratori reclutati sia superiore a tre;
  • il fatto che uno o più dei soggetti reclutati siano minori in età non lavorativa;
  • l’aver commesso il fatto esponendo i lavoratori sfruttati a situazioni di grave pericolo, avuto riguardo alle caratteristiche delle prestazioni da svolgere e delle condizioni di lavoro».

La pena base (da uno a sei anni) è molto elevata perché questo delitto era stato pensato per contrastare lo sfruttamento dei lavoratori e del fenomeno del caporalato, sull’onda di alcune tristissime vicende umane avvenute nei campi di pomodori pugliesi.

Gig economy o vecchio sfruttamento?

Il fatto che una delle prime applicazioni significative sia avvenuta a Milano per un fatto legato alla gig economy deve far riflettere molto su quali situazioni ci siano dietro la digitalizzazione dei servizi.

Nella sostanza, si assiste ad un servizio smart, ma dietro l’apparente “facilità” con cui l’utente soddisfa le proprie esigenze attraverso lo smartphone, il tablet o il pc, c’è un’economia reale basata, ancora, sui modelli di sfruttamento ottocenteschi.

La vicenda è comunque molto interessante sul piano giudiziario, dato il vasto “repertorio” di strumenti messi in campo per sanzionare gli autori dei fatti contestati.

In primo luogo, l’impiego di una misura di prevenzione antimafia come l’amministrazione controllata, per rendere “umana” l’attività della piattaforma.

In secondo luogo, la contestazione, anche, della responsabilità da reato dell’ente ai sensi del decreto legislativo 231/2001 e, infine, la conversione del sequestro della somma di 500.000 euro in pignoramento per pagare i risarcimenti delle parti civili costituite nel rito abbreviato.

Va detto che la sentenza milanese – e tutti i provvedimenti collegati – non sono in controtendenza con le sentenze europee e di altri Stati.

La Corte Suprema Britannica, infatti, nel 2020 aveva chiaramente affermato che il rapporto con i drivers era di lavoro subordinato e non poteva essere inquadrato nel lavoro autonomo.

Svariasti Paesi europei, peraltro, hanno iniziato ad elaborare contratti collettivi per i riders.

In Italia, alcuni tribunali hanno riconosciuto il rapporto di lavoro dipendente, altri hanno ritenuto applicabile il jobs act e le piattaforme, per evitare contenziosi, hanno iniziato a impostare contratti con tutele significative.

Conclusioni

“Tu lavori con noi, non per noi” è un’illusione facilmente smascherata dai fatti prima che dalle sentenze.

Sullo sfondo della triste vicenda milanese si staglia il più imponente problema del potere contrattuale delle grandi piattaforme online, oltre che della difficoltà – per usare un delicato eufemismo – del legislatore italiano a regolare fattispecie legate al mondo digitale.

Il problema della gig economy – così come della sharing economy – è che la digitalizzazione è mera apparenza, perché si tratta di economia reale che “cammina” sulle gambe delle persone che la fanno girare.

Sempre sullo sfondo, ancora una volta, la difficoltà del legislatore italiano di regolare il rapporto di lavoro in modo efficace, coniugando esigenza di profitto con adeguate tutele.

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