diritti, lavoro e digitale

Gig economy, se due sentenze rimediano alle colpe della politica

Non è vero che l’innovazione è inarrestabile, anzi. Si può e si deve fermare: se viola le forme della democrazia ma anche o soprattutto se viola i diritti dell’uomo, se nega all’uomo il diritto al lavoro. Ecco perché la Corte suprema inglese e la Procura di Milano mettono fine al silenzio della politica

Pubblicato il 17 Mar 2021

Lelio Demichelis

Docente di Sociologia economica Dipartimento di Economia- Università degli Studi dell’Insubria

Gig-Economy-1

Economia della conoscenza e dal sapere, lavoro immateriale e intellettuale, capitalismo cognitivo, capitalismo delle emozioni, auto-imprenditorialità e non più lavoro dipendente e da proletari, flessibilità e godimento per tutti.

Erano le parole-chiave che il pifferaio magico chiamato capitalismo & tecnologia ha declamato per tutti noi negli ultimi tre decenni. E noi ci abbiamo creduto. E ci crediamo ancora, in questo resettaggio trasformistico del tecno-capitalismo in attuazione durante questi mesi di pandemia – leggere in proposito il libro di Klaus Schwab, guru del Wef di Davos, del neocapitalismo e della quarta rivoluzione industriale, dal titolo: “COVID-19: The Great Reset”. Resettaggio con cui il sistema ci illude che innovazione digitale e transizione green siano una cosa sola, dimenticando che la digitalizzazione applicata alla produzione e al consumo è solo o soprattutto iper-sfruttamento dei tempi ciclo della vita dell’uomo e della biosfera (e non basta un po’ di economia circolare per invertire il rallentamento della Corrente del Golfo).

Poi sono arrivate la Corte suprema inglese e la Procura di Milano. E forse le cose stanno cambiando. Dunque, torniamo a parlare di gig economy, di lavoro semi-servile/schiavistico dei riders, di sfruttamento capitalistico dell’uomo.

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Il nuovo che avanza o il medioevo che ritorna?

È passato neppure un lustro – era l’aprile del 2016 – quando un docente di una prestigiosa Business School italiana (uno tra i molti) magnificava Uber e i processi di uberizzazione del lavoro scrivendo, sul giornale della Confindustria, che questa uberizzazione “è difficilmente contrastabile, perché la diffusione dell’innovazione è maggiore di qualunque reazione” e quindi “non si può e non si deve fermare”. Quello era il mantra di allora, questo è il mantra di oggi, ovvero: l’innovazione non si può e non si deve fermare. A prescindere da quale innovazione, per quali fini, con quali effetti sociali e ambientali (pensiamo alla “grande innovazione” del bitcoin ma al suo essere drammaticamente energivoro). A prescindere dalla democrazia, dal libero arbitrio, dalla libertà e dalla consapevolezza umana. Ponendo di fatto l’innovazione come nuovo Dio tecnico, come nuova legge divina cui gli uomini si devono solo adattare e integrare nel sistema tecnico. Un nostro rapportarci all’innovazione che rilancia e ammoderna la concezione medioevale della società secondo la quale – pensiamo a Tommaso d’Aquino – le relazioni tra gli individui sono dettate da un ordine sovra-umano, ovvero divino, mentre oggi abbiamo la tecnica e l’innovazione come ordine divino-tecnico; dove la società (allora come oggi) non è costituita da individui che liberamente si associano tra loro, ma pre-esiste agli individui in quanto derivata da Dio, oggi dalla tecnica, immodificabile e altrettanto divina, con i suoi riti e con i suoi profeti, da Steve Jobs ad Elon Musk.

La società (divina di ieri e tecno-divina di oggi) possiede un fine e un ordine che superano quelli individuali (non ci sono alternative…). L’individuo – pur esaltato da tecnica e neoliberalismo – è in realtà sempre più parte integrata/sussunta nel tutto (ieri appunto divino e immodificabile, mentre oggi è un tutto-tecnico, che sarebbe altrettanto immodificabile) – con l’imperativo di dover essere sempre connessi in una rete e integrati ad essa, assecondando le sue norme di funzionamento e la sua incessante disruption.

In realtà l’innovazione si può e si deve fermare: perché non è mai – in sé e per sé – sinonimo di Progresso, ma può anche essere produttrice di Regresso; perché se la democrazia avesse qualcosa sopra di sé – come appunto l’innovazione tecnica (che poi è essenzialmente capitalismo e profitto privato) – che ne limitasse le possibilità di autogoverno e di decisione saremmo (come siamo da tempo) fuori dalla democrazia. Saremmo non tanto nella tecno-crazia come governo degli esperti e dei tecnici, ma nella tecno-crazia degli apparti tecnici e delle industrie tecnologiche. Cioè, scriveva Anders, “la tecnica è ormai diventata il soggetto della storia, con la quale noi siamo soltanto co-storici”[1] e quindi non siamo nell’antropocene o nel capitalocene, ma nel tecnocene.

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E quindi l’innovazione si può e si deve fermare: non solo se viola le forme della democrazia e la sovranità del demos, ma anche o soprattutto se viola i diritti dell’uomo, se nega all’uomo il diritto al lavoro e riproduce invece (sempre per il profitto privato e per proseguire nella logica capitalistica dell’accumulazione del capitale) forme schiavistiche o semi-schiavistiche di lavoro, se lo aliena dalla capacità e dalla possibilità consapevole di decidere della propria vita e di quella sociale, se la riconversione ecologica del capitalismo è solo la prosecuzione del vecchio capitalismo con altri mezzi e con altre forme (il suo resettaggio, di nuovo; e non – e piuttosto – la sua radicale riforma per evidente insostenibilità sociale e ambientale).

L’innovazione tecnologica (e capitalistica) si può e si deve fermare, se necessario. Soprattutto non deve essere lasciata nelle sole mani di poteri non controllati e non controllabili dal demos, come sono appunto le multinazionali e il Gafam. Perché anche il potere della tecnica come sistema integrato e come potere a-democratico e antidemocratico di queste imprese/multinazionali deve essere controllato e governato[2] a fini di utilità sociale e non solo privata, secondo un principio etico e politico e democratico (appunto, di democrazia politica) ben sintetizzato dal filosofo Salvatore Veca: “No Innovation without Representation (and Participation)[3].

Perché se l’artigiano aveva un impatto limitato sulla società e sull’ambiente – ciò che produceva e come – e il suo lavoro era legato soprattutto al valore d’uso dei beni prodotti (prodotti per soddisfare un bisogno) più che sul loro valore di scambio (dove oltre alle merci occorre invece produrre anche e soprattutto il bisogno/desiderio di consumare, altrimenti i profitti rallentano), dall’inizio della rivoluzione industriale ad oggi l’impatto del sistema su società e ambiente è cresciuto a dismisura, ma è un potere individuale dell’imprenditore/impresa, è un potere che agisce in primo luogo per profitto privato, ma questo potere che produce impatti globali non è controllato da alcun contro-potere e la sua capacità di modificazione comportamentale, sociale e ambientale è assolutamente irresponsabile perché non governata dal demos.

Controllare questo potere dagli effetti pesantissimi e profondi sulla vita delle persone diventa allora imperativo categorico nostro nei confronti di noi stessi e delle future generazioni. Ovvero, la libertà d’impresa e dell’imprenditore non deve più confliggere con società e ambiente e deve essere posta sotto controllo democratico.

Ma il suo potere deve essere controllato non solo nei luoghi di lavoro, bensì e soprattutto fuori dai luoghi di lavoro.

La Corte suprema inglese

Nell’assenza della politica – e di una coscienza se non di classe almeno di cittadinanza autentica e/o di eticità del vivere – ci hanno provato i giudici a governare questi processi tecno-capitalistici. Nelle scorse settimane la Corte suprema del Regno Unito ha stabilito che gli autisti di Uber – e secondo noi, per analogia, tutte le forme di uberizzazione del lavoro – devono essere considerati e trattati come lavoratori dipendenti della piattaforma (che per noi è sempre la fabbrica fordista-taylorista in altro modo e in altra forma e non certo il nuovo che avanza – a meno che basti un algoritmo per dire che tutto è nuovo e non vedere che è solo la digitalizzazione del vecchio che ritorna) e non come lavoratori autonomi e meno che meno come imprenditori di se stessi, come invece vorrebbero le piattaforme tipo Uber. La sentenza è definitiva e la piattaforma digitale Uber – che permette di collegare, cioè organizzare e coordinare e controllare il lavoro di autisti privati in tragitti urbani – non potrà quindi fare ricorso.

È una sentenza importantissima, che permette di porre un freno allo sfruttamento del lavoro e dei lavoratori nel capitalismo delle piattaforme. Una decisione che può cambiare l’economia delle piattaforme digitali, ma anche e soprattutto bloccare le retoriche da pifferaio magico/aziendalista mainstream che per anni ci hanno fatto credere che quello delle piattaforme era appunto il nuovo che avanza (le “magnifiche sorti e progressive”, criticate già da Leopardi), un lavoro finalmente libero e autonomo, una sconfitta della casta dei tassisti, un servizio di qualità per il cliente – e non invece il peggiore vecchio che ritorna[4].

Nella sua decisione – che non possiamo quindi che definire storica – cinque sono le ragioni e le condizioni di fatto che secondo la Corte impongono il riconoscimento degli autisti come lavoratori subordinati e dipendenti dalla piattaforma/fabbrica:

  • la loro remunerazione è fissata da Uber;
  • i termini dell’accordo con cui le persone accettano di diventare autisti sono imposti dalla piattaforma e i lavoratori non hanno la capacità di una libera contrattazione (cioè, aggiungiamo, non sono soggetti di diritto/contratto ma oggetti di un contratto);
  • se anche i lavoratori hanno la libertà di decidere quando e dove lavorare in realtà una volta che si sono loggati alla piattaforma, la loro libertà di scelta se accettare o meno le richieste di trasporto da parte dei clienti è molto limitata;
  • Uber esercita inoltre il suo controllo anche attraverso la sorveglianza algoritmica dei comportamenti degli autisti (e ben sappiamo che da sempre il controllo è una delle forme peggiori con cui si esercita il comando dell’impresa sui lavoratori inseriti/sussunti in una forma di organizzazione industriale del lavoro);
  • infine, sia il tempo passato in attesa di un contatto con il cliente, sia quello passato per accompagnarlo a destinazione deve essere considerato un tempo di lavoro, appunto organizzato e gestito dalla piattaforma.

Quindi – e la sentenza conferma ciò che sosteniamo da tempo e questo ci fa ovviamente piacere – si determina un rapporto di lavoro subordinato e dipendente dalla stessa piattaforma e la pretesa delle piattaforme di considerare gli autisti come collaboratori indipendenti e non come lavoratori subordinati si dimostra essere ciò che era per noi fin dall’inizio, cioè una bufala colossale e propagandistica fatta apposta per aggirare le norme sul lavoro e farlo costare meno (presentandolo come servizio al cliente, che così risparmia.

I rider vanno assunti? Quale contratto, tra indagini e decreti

Contro i riders-schiavi

Altra iniziativa storica, quella della Procura del Tribunale di Milano: nata dopo più di un anno di indagini sul sistema di sfruttamento dei ciclo-fattorini in Italia, con sei persone indagate rappresentanti dei colossi del food delivery. Il procuratore capo Francesco Greco ha detto, e più chiaro non poteva essere: “Non è più il tempo di dire che sono schiavi, ma che sono cittadini che hanno bisogno di una tutela giuridica”. Pertanto, “lo sfruttamento di almeno 60 mila ciclo-fattorini che sfrecciano nelle città italiane per portare il cibo a domicilio costerà alle piattaforme digitali Glovo, Uber Eats, Just Eat e Deliveroo 733 milioni di euro di ammenda e l’obbligo di assumerli tutti entro novanta giorni dal 25 febbraio, con un contratto di prestazione coordinata e continuativa, passando da lavoratori autonomi e occasionali a parasubordinati, come stabilito da una sentenza della Corte di cassazione del 24 gennaio 2020. Se le aziende pagheranno almeno un quarto della cifra massima stabilita da queste ammende, ciò consentirà loro l’estinzione del reato compiuto sulla violazione delle norme sulla sicurezza di questi lavoratori – ha sostenuto Antonino Bolognani, comandante del Nucleo tutela del lavoro dei Carabinieri di Milano”[5]. Certo, è un contratto di prestazione coordinata e continuativa e non un contratto di lavoro dipendente, ma non è comunque poco.

E ancora: “il procuratore aggiunto milanese Tiziana Siciliano e il pubblico ministero Maura Ripamonti hanno aperto un’indagine fiscale su Uber Eats, filiale italiana del colosso americano che opera anche nel food delivery, già finita in amministrazione giudiziaria per caporalato sui rider. (…) Dalle carte dell’inchiesta – che copre tre anni dal 2017 al 2020 – emerge la durezza del caporalato digitale che tratta la forza lavoro come un servizio umano, secondo una celebre definizione coniata da Jeff Bezos che richiama una categoria del diritto romano usata per indicare il lavoro servile disumanizzato”[6].

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Colmare il deficit di democrazia e di uguaglianza

Ecco allora due buone notizie. Quella di Londra e quella che viene da Milano. Che mettono fine al silenzio colposo/doloso e/o colluso della politica – sinistra compresa – davanti al nuovo che avanza. In questo fragoroso silenzio, i giudici (non tutti, purtroppo) devono allora svolgere un’opera di supplenza, devono ribadire che prima del profitto viene l’uomo e il diritto al lavoro e il lavoro come diritto. Che con questo silenzio della politica si è creato un pericolosissimo deficit di uguaglianza, di rispetto per la persona e la sua dignità, ma anche un ancora più pericoloso deficit di democrazia.

Riportandoci alla esigenza e soprattutto alla urgenza di ripensare profondamente (uscendone) quella razionalità strumentale/calcolante-industriale (ma irrazionale e antiumanistica) che ci domina da tre secoli di rivoluzione industriale. Occorre cioè immaginare un progresso diverso da questo, diventato ormai insostenibile appunto sia socialmente che ecologicamente; occorre immaginare una diversa razionalità, aprire un conflitto di razionalità come proponeva la Scuola di Francoforte e come propone oggi Éric Sadin[7] e prima ancora chi scrive[8] – e come fatto appunto dalla Corte suprema inglese e dalla Procura di Milano: rivendicando cioè una razionalità umana e umanistica (e ambientale) che deve venire prima (che non può non venire prima) di quella appunto solo strumentale/calcolante-industriale imposta dal sistema, alla quale però il sistema neoliberale/capitalistico ci impone – in modo molto illiberale oltre che anti-democratico – di adattarci. E di farlo senza protestare. Anzi, credendoci felici nel farlo.

Un sistema tecno-capitalista (e la sua razionalità irrazionale) che faticosamente si era cercato di democratizzare e controllare negli anni tra il 1945 e la fine degli anni ’70, ma che non appena la tecnica (le piattaforme e il digitale) glielo ha permesso, non ha esitato a tornare a sfruttare a piene mani l’uomo e il lavoro (ri-diventati entrambi merce per di più low cost) e ad estrarre sempre maggiore pluslavoro dai tempi ciclo intensificati del taylorismo digitale-Industria 4.0/rete-fabbrica – anche se molto abilmente lo ha chiamato il nuovo che avanza e che non si può fermare.

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Bibliografia

  1. G. Anders, “L’uomo è antiquato”, II, Bollati Boringhieri, Torino, 2003, pag. 3
  2. Rimando al mio “Tecnologia, capitalismo e/o democrazia: la lezione di Luciano Gallino” -https://www.economiaepolitica.it/il-pensiero-economico/tecnologia-capitalismo-e-o-democrazia-la-lezione-di-luciano-gallino/
  3. S. Veca, “Il senso della possibilità”, Feltrinelli, Milano 2018, pag. 55
  4. Si veda in proposito: F. Re David, “Tempi (retro)moderni. Il lavoro nella fabbrica-rete”, Jaca Book, Milano 2019
  5. R. Ciccarelli, “Un colpo al caporalato digitale: 733 milioni di euro di multa e 60 mila rider da assumere in 3 mesi”, il manifesto del 25/02/2021
  6. Ibid
  7. É. Sadin, “Critica della ragione artificiale”, Luiss, Roma 2019
  8. L. Demichelis, “La grande alienazione. Narciso, Pigmalione, Prometeo e il tecno-capitalismo”, Jaca Book, Milano 2018

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