Il nuovo modello produttivo del digital labour definito on demand, quello, cioè, in cui ricadono molte delle attività basate sull’uso di app che intermediano tra domanda e offerta di lavoro, necessita di un importante intervento del legislatore, il quale dovrebbe garantire prima di tutto la protezione della parcellizzazione della prestazione commissionata da una pluralità di operatori, in un mercato completamente liberalizzato che appare incapace di garantire non solo la stabilità del rapporto di lavoro, con una retribuzione dignitosa, ma anche un assoggettamento fiscale dei datori di lavoro trasparente e ben definita.
Spunti interessanti in questo senso potrebbero pervenire dalle motivazioni, non ancora pubblicate, della sentenza della Corte di Appello di Torino 11 gennaio 2019 che ha riconosciuto, ex art. 2 D. Lgs. 81/2015, ai riders il diritto a vedersi corrispondere quanto maturato in relazione alla attività lavorativa da loro effettivamente prestata a favore dell’app sulla base della retribuzione diretta, indiretta e differita stabilita per i dipendenti subordinati del V livello CCNL logistica trasporto merci senza tuttavia qualificarli come subordinati. L’estensione transtipica della subordinazione potrebbe essere, infatti, la risposta giurisprudenziale al fenomeno.
Le promesse (mancate) della digital economy
Se nelle iniziali previsioni normative la Rete avrebbe dovuto fungere da neutro supporto tecnologico ai soggetti giuridicamente istituzionali nell’incontro fra domanda e offerta di lavoro, nei recenti sviluppi sarebbe miope non prendere atto dell’evoluzione indipendente e autosufficiente assunta dal web nella veste di intermediario professionale, tramite l’utilizzo delle piattaforme digitali.
La digital economy ha lusingato il mercato promettendo la redenzione dall’inevitabile declino dell’organizzazione classica del lavoro e disarticolando il concetto di localizzazione della prestazione. Così ha sì incrementato l’abbattimento del costo del lavoro, ma ha precarizzato una porzione di forza lavoro, resa instabile e per questo perennemente connessa, online. Il contesto del lavoro on demand è stato di riflesso contaminato dalla spirale deflattiva innescata dal ribasso salariale dovuto alla crisi, per cui a fronte del principio di elasticità dell’impiego di forza lavoro, questa ha subito oltre che una precarizzazione della stabilità lavorativa, anche un depauperamento retributivo.
In tale contesto dominato da retribuzioni sempre più insoddisfacenti, uno dei dati più significativi riguarda la propensione a lavorare sempre di più tramite digital labour, ma con retribuzioni sovente inferiori rispetto a quelle minime stabilite dalla contrattazione collettiva. In questo paradigma economico si inserisce, oltre all’insufficienza della retribuzione, anche l’instabilità della stessa, giacché se la retribuzione per questi lavoratori è notoriamente molto bassa, gli stessi non hanno neanche un controllo né un potere di negoziazione sull’aspetto retributivo e in generale sulla prestazione svolta; il ché comporta la non certezza del salario.
Il problema dell’incertezza della remunerazione
L’esplosione di prestazioni dequalificate, scevre da ogni requisito professionalizzante, ha in più comportato una sorta di complessivo demansionamento di tutta la forza lavoro digitale. A quest’ultima non sono più richieste competenze e abilità specializzate e idonee a svolgere mansioni differenziate, ma unicamente di presentarsi come una folla di utenze fungibili e generiche, sovente prive di qualità rilevanti. Ciò si è sviluppato al punto da indebolire la peculiarità intrinseca della formicolante workforce on demand e renderla indefinita e spersonalizzata nelle sue caratteristiche, tale da poter essere in qualunque momento e in qualunque luogo sostituita in un bacino di reperimento di manodopera in costante crescita.
Una tendenza che merita approfondimento anche in funzione dell’ormai palese, ma scarsamente approfondita, inversione di rotta dell’economia a costo marginale zero che è silenziosamente traslata dalla sharing economy, dalla condivisione di beni sottoutilizzati dotati di una propria peculiarità tale da renderli improduttivi se privatizzati e produttivi se scambiati, alla gig economy delle grandi piattaforme digitali della Silicon Valley. Da questo prisma si è inoltre ingenerata un’ulteriore intuizione: con la diffusione globale delle tecnologie informatiche di ultima generazione ciascuno avrebbe potuto diventare non solo consumatore peer to peer, ma anche produttore di servizi poco professionalizzati da immettere nel mercato digitale on demand in funzione dell’azzeramento dei costi marginali di produzione e nell’ottica complessiva del forte abbattimento dei prezzi dell’economia digitale.
Il risultato è presto detto: l’economia digitale ha avvalorato la prospettiva di fornire un risultato, un semplice prodotto finale fungibile da immettere nel mercato del lavoro, a costo prossimo allo zero, il cui coordinamento fra richiesta e offerta, fino alla determinazione della retribuzione, sarebbe stato interamente gestito dalle app. Le imprese della gig economy contrattano e contattano la forza di lavoro e la adoperano nel proprio processo produttivo acquistandone non tanto il tempo, quanto il diritto di poter utilizzare le sue capacità durante la connessione.
L’incertezza legata alla remunerazione da parte dell’app rimane però un quesito tutt’ora aperto e problematico.
Diverse sono state le ricerche e le analisi, più o meno dirette, in tema di retribuzione della prestazione dei lavoratori on demand. Da quasi tutte, nondimeno, è emerso che l’instabilità lavorativa ed occupazionale dei prestatori su app avrebbe fra le sue principali conseguenze quella dell’incertezza di reperire un reddito sufficiente per il lavoro prestato, come trasformato dalla volubilità della posizione lavorativa e dal flusso di prestazioni.
Gig economy e (inesistenti) tutele dei lavoratori
Suddetto quadro suggerisce che i lavoratori in gig economy percepiscano sé stessi in una condizione di difficoltà per quanto riguarda i livelli di redditi individuali così che il ricorso alle forme di lavoro digitale è finalizzato alla ricerca di una, più stabile, situazione economica. I redditi della gig economy non riescono, tuttavia, a garantire loro uno standard di vita neanche lontanamente comparabile con quelli di lavoratori dipendenti e autonomi (Cfr. XVII Rapporto Annuale Inps, luglio 2018). Un’evidenza ormai palese e confermata dalle ricerche Inps in merito da cui emerge chiaramente che circa il 50% dei lavoratori della gig economy intraprende l’attività di lavoro on demand per aggiungere un’integrazione del proprio reddito individuale o famigliare considerato, appunto, insufficiente e instabile.
Fra le recenti indagini sul lavoro on demand che hanno posto al centro del dibattito la retribuzione in stretta connessione con l’arabesco delle tipologie contrattuali assegnate dalle app ai propri riders, drivers etc., la Banca D’Italia, nel report “N. 472 – Il lavoro nella gig economy. Evidenze dal mercato del food delivery” ha proposto un’analisi incentrata sull’inquadramento e la regolamentazione del settore per quanto attiene alle tutele dei lavoratori tramite una ricognizione dell’evidenza empirica esistente, a livello nazionale e internazionale, circa l’estensione del fenomeno e le sue principali caratteristiche.
Se le evidenze raccolte dallo studio dipingono il fenomeno della gig economy come una delle manifestazioni della digitalizzazione della prestazione lavorativa in netta e inesorabile ascesa, queste delineano, al momento, come i lavoratori coinvolti siano ancora tipicamente giovani con un elevato turn-over, altamente istruiti che utilizzano il lavoro tramite piattaforma prevalentemente a integrazione di altri redditi o come attività secondaria. A questi, però, si inizi ad affiancare una porzione crescente di prestatori per cui la gig rappresenta, invece, l’unica fonte di reddito.
Torna, pertanto, profetica, la domanda retorica di Dubal “si fanno pubblicità dicendo che potete guadagnare contante extra, ma la domanda sottostante è ‘perchè avete bisogno di guadagnare più di prima?”.
In questo contesto di concreta obsolescenza della relazione salariale classica, la propensione a investire forza lavoro extra per un salario suppletivo emerge come indice sia della presenza di una prestazione lavorativa sostanziale per anni sconfessata, a livello mediatico e a livello politico, in nome del privilegio dell’autoimprenditorialità, sia dell’insufficienza retributiva ex art 36 Cost., del ‘rimborso’ o compenso determinato unilateralmente dalle platforms app.
Il lavoro on demand proprio della gig economy, come filosofia manageriale si è fondato sulla restituzione alle persone di flessibilità ed autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare, a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati.
Tale vocazione ha, infatti, traslato il rischio sui propri utenti: il rischio di insolvenza, di inadempimento e il costo della propria formazione lavorativa, rischi che non sempre sono adeguatamente remunerati in una prospettiva di medio o lungo periodo. Rischi asimmetrici se si riflette anche sull’invasività del controllo sulla prestazione sponsorizzato dalle app come sistema di rating per cui un feedback negativo comporta una diminuzione dei compensi o la disattivazione dell’account. Da questa inquadratura contrattuale di micro imprenditorialità discendono effetti giuridici diversi rispetto ai lavoratori dipendenti tradizionali:
- la distribuzione del rischio dal momento che l’instabilità lavorativa crea una dinamica diffusione del rischio economico dalle aziende ai singoli prestatori;
- l’esercizio del diritto al rimborso delle spese sostenute durante l’attività non previsto da alcune app;
- l’assenza di una serie di tutele legate alla percezione del trattamento economico e retributivo del rapporto di lavoro dipendente, come la copertura del salario minimo legale;
- la mancanza di tutti quegli emolumenti che fanno parte di una paga oraria o mensile base.
Tutele, formazione e informazione
L’Inps, nell’ambito della sua attività istituzionale di monitoraggio delle tutele dei lavoratori, ha presentato a inizio luglio 2018 presso la Camera dei Deputati, il XVII Rapporto annuale.
Un dato interessante riportato dall’indagine, che merita di esser evidenziato, rileverebbe proprio come l’insoddisfazione principale dei lavoratori digitali risiederebbe proprio nel reddito considerato insufficiente. Emerge così “che uno su due vorrebbe una posizione lavorativa più stabile e con maggiore co-responsabilità aziendale (formazione professionale, pagamento dei costi di manutenzione – anche se non di acquisto – del mezzo di trasporto, ecc.)” (Cfr. XVII Rapporto Annuale Inps, Luglio 2018).
Non solo, un ulteriore dato allarmante riguarda la insufficiente comprensione e la non conoscenza da parte dei prestatori on demand delle tutele previste per gli stessi dall’ordinamento on demand. C’è un evidente necessità di riuscire, quindi, non solo a proteggere e correttamente qualificare i c.d. giggers, ma anche di incrementare e implementare una maggiore informazione e formazione, per tali lavoratori, dei diritti e delle tutele fornite dalla legislazione giuslavoristica italiana.
Eppure, proseguendo nell’analisi delle domande proposte dall’Inps, si può notare come la maggioranza dei lavoratori sarebbe disposta a pagare una quota addizionale (espressa come percentuale del reddito mensile di rider) per potere godere, in caso di bisogno, dell’indennità di maternità, di malattia, e di disoccupazione. Tuttavia, se le tutele cui si ha diritto scaturiscono dal tipo di contratto applicato, la consapevolezza delle proprie tutele è direttamente proporzionale alla consapevolezza del contratto in essere e solo il 33% (dato Inps) dei lavoratori della gig economy risulta possedere consapevolezza della propria tipologia contrattuale. Al riguardo l’Inps pone efficacemente l’attenzione sul rimanente 67% in cui permane il rischio che esso sia composto da lavoratori che non sono assolutamente consci della forma contrattuale tramite la quale operano o, peggio ancora, da prestatori che non hanno effettivamente stipulato un contratto in funzione di accordi verbali non formalizzati.
A quest’esame trasversale deve aggiungersi l’articolato dato empirico delle tipologie contrattuali selezionate unilateralmente dalle piattaforme digitali in gig economy. Contestualmente all’assenza di possibilità di contrattazione e comprensione delle qualificazioni giuridiche del tempo di connessione si connette per i prestatori la soddisfazione e rappresentazione di sé stessi in termini reddituali. A riguardo lo studio “N. 472 – Il lavoro nella gig economy. Evidenze dal mercato del food delivery” dalla Banca D’Italia mostra come i sistemi retributivi risultino interconnessi alle forme contrattuali.
(Tabella tratta da“N. 472 – Il lavoro nella gig economy. Evidenze dal mercato del food delivery” dalla Banca D’Italia, p. 17).
Il compenso è, dunque, stabilito con modalità diversificate in base alla tipologia contrattuale, ma queste sono per lo più congegnate sul modello di retribuzione a cottimo (puro o variabile dove alla determinazione del corrispettivo concorre anche il chilometraggio percorso) oppure tramite sistemi misti basati su un compenso in parte orario, in parte variabile a consegna o con indennità aggiuntive.
In sostanza, il lavoratore è retribuito tramite un compenso commisurato alla quantità di lavoro prodotto e non invece – come normalmente avviene – sulla base della durata oraria della prestazione lavorativa.
Il giogo della turnistica vincolante
Ulteriore dato interconnesso riguarda i sistemi di turnistica; tematica affrontata anche dal primo grado della sentenza del Tribunale di Torino 7 maggio 2018, recentemente riformato dalla Corte di Appello di Torino. Nell’analisi della Banca D’Italia è stato, nella specie, evidenziato come sia, al momento, predominante la turnistica vincolante, nella quale il fattorino – una volta manifestata la propria disponibilità per un determinato turno (o slot) – non potrà rifiutarsi di effettuare le consegne, salvo penalizzazioni.
Un aspetto non indifferente, in relazione all’incertezza retributiva, riguarda infatti proprio la ricerca da parte delle app del lavoro on demand di una costante e inderogabile disponibilità dei suoi prestatori, avendo le stesse le potenzialità di esercitare i poteri datoriali sotto forma di sanzione di controllo e di disciplinare offrendo al primo lavoratore immediatamente disponibile, la prestazione che l’altro ha rifiutato.
In questo modo il flusso delle prestazioni è sempre gestito dall’app che può riservarsi la facoltà di non affidare più una corsa ad un determinato utente o di non affidargliela in caso di ritardo nella risposta inerente alla propria disponibilità, comportando di conseguenza una certa instabilità delle prestazioni erogabili dal driver o dal rider. Questa considerazione è corroborata dell’appropriazione da parte di alcune app, della retribuzione del prestatore e quindi dei risultati dell’attività produttiva, che rimane sospesa fintanto che il cliente non accetta il servizio. La conseguenza sul piano economico è sempre quella di traslare il rischio dell’inutilitas della prestazione sul soggetto titolare del contratto di lavoro che non ne è però il fruitore.
Condizioni di lavoro, modalità e parametri retributivi
Ciò che in definitiva sembra emergere a livello generale è che l’incertezza remunerativa sarebbe propria del modello economico stesso. Il modello del cosiddetto lavoro alla spina, particolarmente indicato per inquadrare i fenomeni del lavoro di gig economy, esplica come le piattaforme definiscano non solo la regolazione delle condizioni di lavoro ma impongano unilateralmente anche le modalità e i parametri retributivi.
In queste condizioni, la determinazione del tempo di lavoro diventa quindi un nodo nevralgico per fissare e controllare la corresponsione di un’adeguata ed equa retribuzione. In relazione alla determinazione del tempo di lavoro si deve considerare l’esistenza di un obbligo per gli autisti di alcune app quando sono nel territorio e accedono all’app, ad accettare almeno l’80% delle offerte di viaggio, pena l’interruzione del rapporto di lavoro mediante disconnessione.
La normativa europea in materia definisce “per orario di lavoro qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio delle sue attività e delle sue funzioni, conformemente alle legislazioni e/o alle prassi nazionali” (Cfr. art. 2, Direttiva 93/104/CE) escludendo così la possibilità di configurare come orario di lavoro il tempo in cui il lavoratore non esercita le sue funzioni e le sue attività. Si tratta dunque di un concetto di disponibilità come orario di lavoro che invita, pertanto, ad una riflessione più ampia sulla retribuzione e i suoi metodi di calcolo.
Il driver o il rider sarà, disponibile ad effettuare la prestazione che gli verrà affidata nel momento in cui l’app della piattaforma risulterà switched on ossia accesa, ed egli sarà nel luogo deputato dall’app allo svolgimento del servizio. L’intersezione fra connessione (quindi disponibilità), luogo deputato (quindi luogo di lavoro) e obbligo di accettare le corse (quindi obbligo di prestazione lavorativa), dovrebbe permettere di individuare la sussistenza di un vero e proprio orario di lavoro, da retribuire anche nei tempi di attesa.
Al contrario, lo spettro de quo sembra spesso istituzionalizzare il cosiddetto wage-theft (salario-furto) delineando la necessità di riconoscere l’ontos, l’essenza, del lavoro digitale per scongiurare il paventato rischio di una reificazione dei low wage workers, dei lavoratori con gli stipendi più bassi.