Oggi in Italia l’economia “gig” riguarda un milione di persone. Il dibattito però si concentra sul tema dei rider come se si trattasse di lavoratori legati esclusivamente alla rivoluzione digitale, come se la discussione si potesse ridurre a pochi fenomeni e quasi tutti legati all’innovazione nel settore delle consegne (o potremmo dire, della logistica di prossimità).
Non è così: l’area delle prestazioni organizzate prevalentemente a cottimo (e alcune a distanza) è, però, molto più vasta e si è evoluta nel corso del tempo in base alle trasformazioni del sistema produttivo. Dal settore tessile e dell’abbigliamento, a quello dell’industria culturale e dell’informazione, dai rider alla manutenzione e sviluppo software, fino al cuoco o al make-up a domicilio, l’evoluzione tecnologica ha sempre permesso o estinto alcune modalità di organizzazione del lavoro.
L’effetto della rivoluzione digitale è stato anche quello di far emergere e rendere intermediabili alcuni particolari settori per i quali fino a 15 anni fa ci si affidava alle relazioni interpersonali o locali, come le ripetizioni per i figli o il baby-sitting. La creazione di “piattaforme” informatiche dapprima improntate all’economia della condivisione (sharing economy, come Blablacar), poi superate in numero e sostanza da quelle della on demand economy, si è combinata dapprima con anni di stagnazione e successivamente di crisi, con la conseguente altissima disoccupazione e offerta di lavoratori sul mercato, molti giovani e giovanissimi. Il settore si è saputo vendere come possibilità per chiunque di ricavare un’entrata aggiuntiva grazie a una gestione efficiente del proprio tempo libero. Ma si è scontrato presto con i bisogni di molti per i quali questi lavoretti sono in realtà l’unica possibilità di una fonte di reddito stabile.
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Le risposte politiche che servono
Da questo conflitto e, non ce lo nascondiamo, dalla sua epicità mediatica (il ciclo-fattorino contro il gigante del web) viene chiamata in causa la politica. Che incontra esigenze reali, e non mediatiche, alle quali dare una risposta. Le piattaforme intermediano una molteplicità di figure che faticano ad essere inquadrate solo in una delle vecchie categorie del mondo del lavoro. La recente sentenza del Tribunale di Milano che vorrebbe obbligare le grandi piattaforme del food delivery all’assunzione di circa 60.000 rider come co.co.co., potrebbe avere una portata rivoluzionaria per la vita di questi ragazzi che fino a ieri faticavano a ricevere qualsiasi tipo di assistenza anche dopo incidenti gravissimi. Ma è finita qui? Quanti gig worker ci sono in giro che non potranno avere un’inchiesta della procura di Milano a salvarli?
I diritti di cui un lavoratore deve godere
Personalmente credo che la politica in casi come questi debba essere capace di gettare lo sguardo oltre i perimetri sviluppati negli ultimi vent’anni, ma anche degli ultimi cinquanta. Non possiamo rimanere ancorati a subordinazione, partite iva, cococo (parasubordinati). Lo hanno capito a Bologna, dove è stata redatta la prima Carta dei diritti dei rider. Lo hanno accettato e rilanciato nel Lazio, con una legge regionale dedicata. In entrambi questi casi, nessuno ha scelto di infilarsi nella diatriba tra lavoro subordinato e autonomo, ma si è agito con semplicità: elencando i diritti di cui un lavoratore, a prescindere dal suo inquadramento, dovrebbe sempre godere. Maternità, malattia, sicurezza sul lavoro, assicurazione sugli infortuni e sulle malattie professionali, formazione. Diritto a conoscere come funziona l’algoritmo. E un compenso che non può essere a cottimo che deve dipendere da orari e condizioni di lavoro: prendendo in prestito le parole della Costituzione, diremmo “proporzionato alla quantità e qualità del lavoro” svolto. Sono spunti importanti dai quali partire anche per una regolazione di livello nazionale. La quale si dovrebbe inserire nel percorso positivo aperto nella scorsa legislatura: quello del Jobs Act e della legge 81/2017 per i lavoratori autonomi. Il primo ha ostacolato le false partite IVA (creando anche le condizioni per la sentenza di Milano) e dato vita ad un ammortizzatore sociale dal carattere semi-universale, come la NASPI, aprendo la strada ad un ammortizzatore sociale europeo (auspicabilmente, il primo punto di un futuro governo economico dell’UE). Il secondo ha esteso per la prima volta ai professionisti diritti come malattia, maternità, accesso alla formazione, e ha esteso la copertura della DIS-COLL, la disoccupazione per i collaboratori.
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Passi avanti e strada da seguire
Nella legge di bilancio 2021 abbiamo fatto finalmente un altro passo avanti, con la creazione dell’ISCRO: l’indennità di disoccupazione per le partite iva della Gestione Separata, alla quale dobbiamo far seguire adesso una tutela per i professionisti ordinisti. Oggi non è più possibile dividere il mondo del lavoro in categorie a sé stanti, in compartimenti stagni: il rischio è quello di creare tremende disuguaglianze fra lavoratori diversi solo sulla carta. Lo abbiamo visto bene durante il lockdown: il blocco dei licenziamenti ha tutelato solo alcuni, l’emorragia di posti a tempo determinato e di lavoro autonomo è stata tragica.
La strada da seguire è quella per tutele del lavoro universali, meglio se in un quadro europeo, legate al lavoratore e non al posto di lavoro, che nessun datore vecchio o nuovo possa aggirare. Copertura assicurativa e contributiva, salario minimo che tuteli coloro che non sono coperti dalla contrattazione collettiva. Una legge sulla rappresentanza che dia una nuova legittimità e forza ai lavoratori che si organizzano, oggi come ieri, per migliorare la loro condizione attraverso il conflitto con un datore di lavoro che può essere globale, può interfacciarsi diversamente, ma deve necessariamente confrontarsi con quella parte fondamentale della propria azienda che è la forza lavoro.
Non possiamo regolare la gig economy contemporanea come se fosse un fenomeno eccezionale: la velocità del cambiamento renderebbe presto obsoleto quello sforzo. È invece l’occasione di questo tempo per riscrivere i diritti dei lavoratori, perché possano essere all’altezza delle sfide di questo secolo.