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Giornalismo a tutela del dibattito democratico, ecco il nuovo ruolo

In un’epoca di ricerca del consenso e di bolle polarizzate, il giornalismo deve ripensare sé stesso e mettere al centro quello che può essere l’antidoto all’omogeneità e alle manipolazioni: il dissenso, la messa in discussione di idee e posizioni. Puntando alla conquista del “cittadino informato quanto basta”. Vediamo come

Pubblicato il 16 Mag 2019

Bruno Mastroianni

Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Firenze

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Vi presento il cittadino informato quanto basta. Un interlocutore che con la rivoluzione digitale sta prendendo sempre più spazio e importanza nello scenario della comunicazione.

Il cittadino, cioè, che partecipa al dibattito fino a un certo punto, legge quello che gli capita sui suoi spazi online senza avere un vero metodo per la fruizione delle notizie, agisce in rete senza avere numeri rilevanti e senza essere un commentatore compulsivo. Ma che con i suoi like, le sue condivisioni, i suoi link inviati tramite le app di messaggistica ha di fatto il potere di influenzare le sue cerchie ristrette, quelle in cui ha più peso proprio perché basate su relazioni di vicinanza e affinità con i suoi contatti.

E’ sul cittadino informato quanto basta (d’ora in poi CIQB) che, nell’era dello strapotere degli algoritmi e della disinformazione, il giornalismo deve riuscire a fare presa, curando e offrendo assieme all’informazione di qualità, anche occasioni di discussione produttive, pure a partire da un moto di dissenso.

Occorre però un ripensamento e un riadattamento della funzione e del ruolo dei giornalisti, che dovrebbero essere i primi ad adottare uno stile di comunicazione che inviti al pensiero critico e alla messa alla prova di ciò che si legge. Ci sta provando, ad esempio, il Wall Street Journal. 

Proviamo a capire perché è importante e quale sforzo è necessario oggi per informare correttamente.

Le nuove forme di propaganda e manipolazione

In un interessante articolo di ValigiaBlu.it sulle scorse elezioni in Brasile, Fabio Chiusi ha fatto un’analisi dei principali studi che si sono occupati delle strategie di disinformazione e manipolazione durante la campagna elettorale. Uno degli aspetti sottolineati è l’impegno per far arrivare i messaggi proprio nelle chat di WhatsApp, cioè in quegli spazi dove il CIQB scambia i suoi messaggi con le persone che gli sono vicine: segno che anche le modalità di propaganda e manipolazione diventano sempre più raffinate nel cercare di arrivare fin dentro i luoghi di prossimità del cittadino medio.

Anche sulle piattaforme dei social network l’azione del CIQB si fa sentire e ha una certa efficacia: il funzionamento degli algoritmi infatti valorizza la segnalazione di contenuti a ciascuno in base alle interazioni degli altri con i quali è collegato, tanto che la maggior parte dei contenuti arriva nelle timeline proprio perché qualcuno vicino sta commentando, condividendo, dando attenzione a qualcosa.

Già nel 1994 Mauro Wolf, nel suo saggio pubblicato postumo, Le discrete influenze (Wolf, 1996), faceva un parallelo tra lo spazio pubblico mediatizzato e il concetto di sviluppo compatibile: si chiedeva se l’espansione, la diffusione e l’evoluzione delle tecnologie di comunicazione sarebbero riuscite a procedere con il loro ritmo senza compromettere e distruggere l’ambiente sociale. È una domanda ancora più attuale oggi, a venticinque anni di distanza, considerando proprio quanto la disintermediazione e l’iperconnessione stiano riconfigurando drasticamente l’intero sistema sociale, entrando nella vita di ciascuno e modificando il rapporto tra comunicazione, informazione e conoscenza: un cambiamento al cui centro c’è proprio il cittadino con i suoi atti di comunicazione online che incidono su di sé e chi gli sta intorno.

Sovraccarico di valutazioni e di discussioni

Proprio da questo occorre partire, considerando quanto la questione sia più relazionale e sociale che non puramente informativa. Siamo portati, infatti, a osservare il CIQB soprattutto dal punto di vista del sovraccarico informativo (information overload) in cui è inserito, che lo porta a una situazione di caos e di disordine (information disorder) in cui matura la disinformazione. Così tralasciamo, però, altre dimensioni più relazionali del sovraccarico che non solo sono rilevanti, ma che sono di fatto le vere catalizzatrici del primo e dei suoi effetti più preoccupanti.

Come scrivevamo qualche tempo fa su Agendadigitale.eu il CIQB è diventato, grazie all’onlife (Floridi, 2017), cioè alla vita connessa, un piccolo personaggio pubblico, che fa continuamente atti di comunicazione pubblica, ha una sua immagine pubblica ed è sottoposto a un continuo giudizio da parte di un pubblico, più o meno esteso, che lo segue. Questo porta a un sovraccarico valutativo, cioè alla possibilità di essere visto, letto, raggiunto e quindi giudicato da altri costantemente. Proprio da questa situazione di esposizione pubblica continua deriva un ulteriore sovraccarico: quello di discussioni e confronti in cui si viene coinvolti. La condizione di discussione perenne diventa così un portato della connessione che, ampliando le possibilità e la facilità con cui le parole e i contenuti possono raggiungere chiunque in ogni momento, ha anche creato le condizioni per le quali il continuo scambio diventa difficilmente sostenibile e fruibile.

Il CIQB, insomma, non è semplicemente preda passiva di un sovraccarico di informazioni in cui viene raggiunto da contenuti più o meno attendibili e verificati, ma attore che allo stesso tempo subisce ed è protagonista della dinamica, impegnato com’è a difendere se stesso, le sue convinzioni, il suo buon nome in un sovraccarico di valutazioni che affronta in una continua forma di lotta in cui scambia parole e informazioni con altri, immerso in un sovraccarico di discussioni che contribuiscono a loro volta a aumentare disinformazione e manipolazioni.

Differenze inconciliabili e rifugio tra gli affini

A guardar bene, insomma, il sovraccarico più importante dei tre citati è proprio l’ultimo, cioè quello delle discussioni, perché è come se fosse la condizione in cui si sviluppano gli altri due: è l’effetto dell’interconnessione che ha ridotto le distanze e ha aumentato le possibilità di comunicazione facendo sì che le differenze si incontrino molto più frequentemente finendo spesso in scontri privi di reali vantaggi (Mastroianni, 2017). Tale sovraccarico di incontri tra differenze non porta automaticamente gli effetti benefici che ci si aspetterebbe dal continuo confronto fra posizioni, ma genera spesso l’opposto: il rifugio e la chiusura in cerchie omogenee e affini (Quattrociocchi, Vicini, 2016) in cui trovare conferma delle proprie idee e tenere alla larga il dissenso.

Non è un caso che il dibattito pubblico abbia un modo di procedere che predilige contrapposizioni e polarizzazioni. Le formulazioni binarie inconciliabili (Cosenza, 2018) – pro/contro, con me/contro di me, vero/falso, giusto/sbagliato, degno/indegno – diventano la retorica prediletta nella comunicazione a tutti i livelli, dal discorso politico allo stile di diverse testate giornalistiche, fino ad arrivare alla comunicazione di certi brand che tendono a sfruttare la polarizzazione entrando in campo e prendendo posizioni forti su temi sociali, politici, culturali. Fomentare la polarizzazione e lo scontro diventa così uno dei metodi più a buon mercato (e di fatto efficaci) per ottenere il consenso di chi è costantemente in preda alla lotta per la difesa di se stesso e delle sue convinzioni: la “presa di posizione” diventa modo per chiamare a raccolta i cittadini che si identificano in quegli schieramenti.

Il dibattito ridotto

Quella della contrapposizione diventa una vera e propria forma di riduzione del dibattito pubblico. Piero Dominici fa una differenza fondamentale tra semplificazione e riduzionismo: la semplificazione è la capacità di saper evidenziare percorsi di significato sostenibili che non perdano il collegamento con la complessità in cui sono inseriti; riduzionismo significa invece scegliere di vedere un fenomeno riconducendolo a un solo elemento e considerando solo in alcune delle sue parti disgiungendole dall’insieme delle relazioni in cui sono inserite. La semplificazione è necessaria e costruttiva in una situazione di sovraccarico; il riduzionismo, invece, è distruttivo: pur attenuando il disagio per l’overload, fa perdere pezzi di realtà.

Il ruolo del giornalismo nell’era dell’autocomunicazione di massa

A questo punto, una delle domande fondamentali che deve porsi oggi chi ha il compito di informare in modo attendibile è come inserirsi nel sovraccarico di discussioni in cui il CIQB non è solo una preda, ma un attore e protagonista che le fomenta e le alimenta. Il diverso ruolo del CIQB, insomma, richiama a pensare a un diverso ruolo anche del giornalismo; a meno che il giornalismo non voglia ridursi anch’esso a cavalcare la polarizzazione assumendo posizioni in contrasto per chiamare a raccolta il consenso di chi già le condivide.

Nello scenario precedente, quello delle comunicazioni di massa, il compito dei giornalisti era principalmente semplificare (selezione e verifica delle informazioni nel sovraccarico) per permettere ai cittadini di essere più consapevoli e quindi il più possibile liberi, pur nei limiti delle loro possibilità. È stato da sempre questo il ruolo del watchdog, il cane da guardia della democrazia.

Oggi, nell’epoca della autocomunicazione di massa (Castells, 2009), in cui il sovraccarico è la dimensione in cui il cittadino vive e a cui contribuisce tra giudizi e discussioni con gli altri, la stessa modalità è insufficiente. La selezione, infatti, viene prodotta dalla dinamica dell’engagement e degli algoritmi che premiano la circolazione dei contenuti tra affini, e la verifica (o meglio la non verifica) avviene da parte di ogni utente che si fa una sua propria idea di verità del mondo da se stesso (Fabris, 2017), spesso ridotta a contrasto tra le sue convinzioni e quelle di qualcun altro, aggravando la tendenza a chiudersi in bolle di opinioni omogenee all’interno delle quale trincerarsi.

In questo scenario, insomma, il compito del giornalista, oltre a quello della semplificazione (che rimane sfida attuale e intatta) deve assumere anche qualche connotazione in più, se vuole mantenere la sua capacità di rendere i cittadini più liberi e consapevoli.

È un compito che non può prescindere dalla dinamica delle discussioni continue.

Informare correttamente oggi non è più soltanto curare la qualità delle notizie, la loro tempestività, la confezione del contenuto, la diffusione, ma diventa anche e soprattutto una certa modalità di intercettare il CIQB proprio nella conversazione e nella discussione in cui è impegnato a proposito di quelle notizie e informazioni.

Il giornalismo, oggi, e più in generale la divulgazione del sapere, non possono prescindere dalla disintermediazione e dalla dimensione conversazionale dell’informazione; il che vuol dire avere la capacità di entrare, partecipare, contribuire a quelle conversazioni per produrre in esse e trarre da esse i benefici che derivano da una buona e sana informazione.

Gli audience voice reporters

È significativo ciò che ha annunciato recentemente il Wall Street Journal a proposito di una serie di cambiamenti che attuerà nella sua strategia di risposta e gestione dei commenti dei lettori. In base a una ricerca sulle interazioni più frequenti nei commenti agli articoli, il quotidiano internazionale ha deciso di passare dalla semplice moderazione all’impegno per far emergere attivamente e valorizzare la voce dei lettori.

La situazione che ha registrato nei suoi spazi è la presenza di commentatori assidui (un piccolo numero ma molto attivo) e commentatori meno frequenti. Gli appartenenti al primo gruppo hanno mostrato di avere la tendenza a non leggere fino in fondo gli articoli e a essere più interessati a esprimere le proprie posizioni che a ingaggiare discussioni. Dall’altra, è stato rilevato che i commentatori meno assidui tendono a essere più sensibili in caso di lettura da parte dei giornalisti: diversi di loro hanno detto di commentare poco proprio per la sensazione di non essere presi sufficientemente in considerazione.

Dall’analisi è risultato anche che il gruppo dei commentatori più frequenti fosse poco rappresentativo dei lettori del giornale rispetto al gruppo dei commentatori sporadici. Insomma, il quotidiano ha deciso di puntare sul secondo gruppo, quello che non solo mostra di ricercare una conversazione che sia veramente tale, ma che soprattutto costituisce il pubblico più ampio, più diversificato e anche più interessante per la crescita del giornale.

Come? Fondamentalmente seguendo tre criteri.

Il primo è quello della sostenibilità: per seguire bene le conversazioni ci vogliono energie, persone e tempo, pertanto il giornale ha deciso di predisporre la possibilità di attivare la discussione solo su alcuni contenuti per poterla curare al meglio.

Il secondo criterio è quello dell’ascolto attivo: in quegli spazi i lettori saranno incoraggiati a intervenire e saranno presi in considerazione da veri e propri “audience voice reporters”, che non sono più solo dei moderatori, ma giornalisti con il compito di raccogliere e valorizzare gli spunti che provengono dalla conversazione dei lettori.

Il terzo criterio è quello del clima di sicurezza e di qualità della conversazione: questi spazi saranno al sicuro da insulti, discorsi di odio e aggressioni verbali inutili, in modo che ciascuno possa intervenire liberamente con le sue opinioni senza temere di essere assalito da polemiche sterili.

Un’alternativa al sovraccarico di discussioni

È un esempio molto significativo che va in una direzione interessante e duplice: curare attivamente la qualità della conversazione e mettere i lettori nelle condizioni di esprimere la loro opinione ed essere ascoltati. In altre parole, si tratta di mettersi in una modalità relazionale e conversazionale offrendo un’alternativa alla vita sovraccarica di discussioni che il lettore vive, incoraggiando chi desidera discutere in modo produttivo e non degenerato.

Si vedrà quali frutti porterà questa azione del WSJ, che per adesso ci dice qualcosa sulle strade che si potrebbero percorrere per un giornalismo che, assieme all’informazione di qualità, curi e offra occasioni di discussione produttive. Tra l’altro, la categoria di lettori che commentano raramente individuata nel quotidiano assomiglia proprio a quella del CIQB, che interagisce quanto basta, e che in effetti può e deve diventare sempre di più il centro delle attenzioni dell’attività giornalistica.

Gli spazi social abbandonati a se stessi

Certo è che se si passa dagli spazi online controllabili dalle testate a quegli spazi senza un vero controllo che sono le piattaforme dei social network, il discorso si fa più complicato, ma questo non toglie che la strada intrapresa dal WSJ non possa essere di ispirazione, a cominciare magari proprio da quei criteri di sostenibilità, ascolto attivo e cura del clima della conversazione che il giornale newyorkese sta applicando.

Come ha fatto notare Pierluca Santoro, le maggiori testate italiane si limitano a usare gli spazi social come “discariche” di link, con scarsissima interazione e cura della relazione con i lettori, tanto che alla fine la maggioranza dei commenti è di tipo negativo e aggressivo, di fatto favorendo un clima che tiene lontano chiunque abbia voglia di discussioni costruttive o perlomeno civili.

Un primo ambito di azione insomma potrebbe essere individuato proprio in quei luoghi dove il campo lasciato al commento casuale non fa che alimentare le dinamiche di sfiducia e scoraggiare la partecipazione di chi, invece, rappresenta la parte più interessante dei lettori a cui rivolgersi. E qui sorge il tema della sostenibilità: quante energie e risorse è disposta una testata a impiegare per mettere in campo social media manager in grado di svolgere un lavoro simile a quello degli “audience voice reporters” del WSJ?

Mettersi alla prova davanti al lettore e valorizzare il dissenso

In altre parole, di fronte alla continua contrapposizione, cioè la formazione di schieramenti avversi intenti ad accaparrarsi il consenso dei lettori invitandoli a identificarsi in uno dei lati della polarizzazione, esiste la possibilità di un giornalismo di contraddizione, capace di mettere alla prova quelle posizioni, quali che siano, e quindi di invitare a discuterle, valorizzando e incoraggiando il lettore a fare altrettanto (di fatto è una strada che diversi stanno percorrendo, e con risultati rilevanti, per fare solo un esempio citato in questo articolo: ValigiaBlu).

Un giornalismo, insomma, che come watchdog della democrazia, in un’epoca di ricerca del consenso e di bolle omogenee polarizzate, metta al centro quello che può essere l’antidoto all’omogeneità e alle manipolazioni: il dissenso, la contraddizione, la messa in discussione delle idee e delle posizioni.

Ma come si fa a valorizzare il dissenso in un mondo in cui l’intera dinamica porta a resistere ed evitare le differenze? Vengono in aiuto gli altri due criteri applicati nella strategia del WSJ: l’ascolto attivo e la cura del clima della discussione.

La strada che si può davvero percorrere è quella di iniziare con il dare il buon esempio: dovrebbero essere i giornalisti stessi i primi ad adottare uno stile di comunicazione che inviti al pensiero critico e alla messa alla prova di ciò che si legge.

Intanto in ciò che scrivono: indicando il più possibile le fonti, esplicitando ciò che proviene dalle proprie opinioni e ciò che invece è frutto di fatti o di evidenze oggettive, arrivando magari anche ad ammettere di non avere sufficienti elementi per poter dire qualcosa di definitivo. Un giornalismo molto più di domande e dubbi che di certezze e tesi, un giornalismo che spiega il suo metodo mentre lo applica, mostrando il percorso che compie mentre divulga e informa. Un giornalismo che si mette alla prova di fronte al lettore e lo invita a fare altrettanto.

Il dissenso come antidoto alle manipolazioni

Tutto ciò va costruito favorendo che il dissenso possa emergere e mettere alla prova i contenuti giornalistici, ricevendo in cambio ascolto e risposta. Questa sarebbe la vera cura delle discussioni online: non solo evitare di fomentare contrapposizioni scomposte (che dovrebbe essere il minimo), ma valorizzare attivamente e prendere in considerazione le parti produttive e significative del dissenso.

Sopire le contrapposizioni sterili non vuol dire togliere la parola al pubblico, al contrario: come nella strategia messa in atto dal WSJ significa dare più voce e valorizzare chi davvero vuole esprimere il suo punto di vista, anche quando critico. Se ci si pensa bene, si tratta di mettere al centro il valore del dissenso, del pluralismo e della diversità, opponendolo al consenso facile, alla riduzione a una posizione contro l’altra, che deriva dalla contrapposizione polarizzata. È un lavoro in direzione di un dibattito che non perde i suoi legami con la complessità.

E qui occorre ancora una volta rimettere al centro il nostro interlocutore prevalente, cioè il CIQB, considerando che, proprio per le sue caratteristiche intrinseche, non sarà sempre in grado di esprimere il suo dissenso in modo elegante e composto. Anzi, c’è da aspettarsi che, proprio perché pressato dal sovraccarico di valutazioni e discussioni, il modo di presentare il suo punto di vista avrà elementi aggressivi e poco funzionali alla discussione.

Pretendere che il nostro cittadino sia in grado da solo di sostenere, promuovere o condurre dibattiti costruttivi, sarebbe a dir poco ingenuo. È qui che ancora una volta l’azione di chi informa dovrebbe supplire riuscendo a trarre da una selva di parole inadatte pensieri che hanno senso, riconoscendo le istanze e ignorando le parti polemiche.

Un’azione di ascolto attivo (Sclavi, 2003) che andrebbe fatta sempre: il dissenso, infatti, ha un valore anche quando non espresso con tutti i crismi, perché intervenire a raccogliere domande e argomenti validi anche quando sono affogati in mezzo a espressioni aggressive può dare occasione di fornire risposte che si rivolgono alla moltitudine silenziosa di cittadini informati quanto basta disposti a ragionare e a confrontarsi (Gheno, Mastroianni, 2018).

Nella dinamica dei social network è infatti più difficile avere un controllo a monte dei flussi di interazione, ma si può fare molto a valle, di fronte alle diverse tipologie di commenti degli utenti. Si tratta di compiere un lavoro di scelta e di valutazione intelligente delle istanze a cui dare seguito e di quelle da ignorare e da lasciar cadere. È un’attività faticosa e dispendiosa, che però può contribuire a costruire il clima della conversazione, proprio come il passaggio dalla semplice moderazione all’ascolto della voce dei lettori.

Non è tutto odio ciò che polemizza

Facciamo un esempio concreto per capire di cosa potrebbe trattarsi. Mi è capitato, di fronte all’ennesimo delitto di cui si è macchiato un migrante che ha confessato la sua colpevolezza, di imbattermi in due commenti a proposito della notizia sul caso:

Commento A: “Rispediamoli tutti a casa!”

Commento B: “Ha confessato: perché dovremmo spendere i soldi per fargli anche il processo? Dovrebbero mettergli il cemento ai piedi e buttarlo a mare!”

Apparentemente, i due commenti si somigliano in quanto ad aggressività e violenza. In realtà, a una valutazione più attenta, che sappia mettere al centro il valore del dissenso e della discussione, il commento A è diverso da B: il primo non ha alcun elemento di interesse, si tratta di pura espressione d’odio fine a se stesso; il secondo invece, in mezzo a una serie di formulazioni scomposte, contiene una questione fondamentale, quella del perché nelle nostre democrazie facciamo processi anche a chi confessa un crimine.

Una risposta al commento B, se data con le opportune modalità, potrebbe essere l’occasione per parlare non tanto al commentatore (che probabilmente rimarrebbe nella sua posizione polarizzata) quanto a quell’insieme di lettori silenziosi che da quell’intervento non solo sarebbero portati a riflettere sull’importanza del tema, ma potrebbero avere anche la sensazione che quello spazio non è lasciato a se stesso e in preda alle parole in libertà di chiunque.

La custodia del dibattito nella disintermediazione

Si tratta insomma di quella strada intrapresa da un certo giornalismo che dimostra costantemente di accettare conflitti e contraddizioni occupandosene invece che solleticare le contrapposizioni tanto per ottenerne benefici in termini di consenso. Un giornalismo che coltiva l’alleanza con il CIQB e che lo incoraggia a fare un passo in più di riflessione e discussione, mentre scoraggia chi, più rumoroso, alimenta solo scontri e litigi privi di vera utilità per una migliore informazione.

A ben vedere, è proprio quel ruolo di garante e custode di un dibattito vero e plurale che ormai non può essere più solo giocato negli spazi mediatici classici, anche se connessi in rete, ma che deve entrare in qualche modo nelle pieghe della vita interconnessa del CIQB tanto quanto stanno tentando di entrarvi le azioni della propaganda a caccia di consenso.

Una strada, insomma, per rispondere a quelle azioni di manipolazione che stanno puntando sempre più alla dimensione delle micro-interazioni online, sia sui social network che negli spazi ancora meno aperti della messaggistica privata dove, se non è lo stesso cittadino a fare qualcosa, maturando egli stesso degli anticorpi alla propaganda polarizzata, difficilmente basterà adottare contromisure generalizzate.

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BIBLIOGRAFIA

Manuel Castells, Comunicazione e potere, Università Bocconi Editore, Milano, 2009.

Giovanna Cosenza, Semiotica e comunicazione politica, Laterza, Roma-Bari, 2018.

Piero Dominici, For an inclusive innovation. Healing the fracture between the human and the technological in the hypercomplex society, “European Journal of Futures Research” (2018) 6:3.

Maurizio Ferraris, Postverità e altri enigmi, ilMulino, Bologna, 2017.

Luciano Floridi, La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2017.

Vera Gheno, Bruno Mastroianni, Tienilo acceso. Posta, commenta, condividi senza spegnere il cervello, Longanesi, 2018.

Walter Quattrociocchi, Antonella Vicini, Misinformation. Guida alla società dell’informazione e della credulità, FrancoAngeli, Milano, 2016.

Bruno Mastroianni, La disputa felice. Dissentire senza litigare sui social network, sui media e in pubblico, Cesati, 2017.

Marinella Sclavi, Arte di ascoltare e mondi possibili. Come si esce dalle cornici di cui siamo parte, Bruno Mondadori, Milano, 2003.

Mauro Wolf, Le discrete influenze, in “Problemi dell’informazione”, n.4 dicembre 1996.

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