Oggi 27 gennaio è la giornata della memoria delle vittime dell’Olocausto, istituita dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il primo novembre 2005.
Da quella data in poi sono state molte le iniziative commemorative di uno dei più efferati genocidi che la Storia ricordi: sono nati anche molti archivi informatici sul tema.
La digitalizzazione, quindi, gioca ancora un ruolo importante nel contesto dell’antisemitismo: da un lato l’archiviazione digitale delle informazioni, perché la memoria venga mantenuta e, dall’altro, l’hate speech, ancora ben presente sui canali social.
La digitalizzazione della memoria
L’Olocausto è ancora una ferita aperta in Europa e nel mondo intero e, per evitare il ripetersi di eventi simili, sono stati creati numerosi archivi documentali e video – prima – e digitali – ora.
Hate speech o libertà d’espressione, chi stabilisce il confine: il dilemma
Il più famoso è certamente l’archivio della Survivors of the Shoah Visual History Foundation (la Fondazione di storia visiva dei superstiti all’Olocausto): un archivio computerizzato in audio e video con decine di migliaia di interviste in più di trenta lingue.
La Fondazione è nata su iniziativa del regista Steven Spielberg, come prosecuzione del lavoro iniziato col capolavoro Schindler’s List.
Dal 2015 è attivo l’EHRI (European Holocaust Research Infrastructure), un portale online finanziato dall’Unione Europea, finalizzato a rendere organico e facilmente accessibile il materiale disponibile in rete sulla Shoah.
La digitalizzazione che ha consentito l’Olocausto, quindi, ne sta anche portando avanti la memoria storica.
La scheda forata per censire gli ebrei
Il rapporto tra informatica e Olocausto è però complesso. Per cominciare: questo sarebbe stato probabilmente impraticabile senza i calcolatori e i sistemi di schedatura e archiviazione.
Per semplificare, il censimento degli ebrei avrebbe richiesto dei calcolatori potentissimi che, negli anni 30 del 1900 però, non esistevano.
La tecnologia a schede forate Ibm però, era disponibile ed estremamente funzionale allo scopo (secondo alcune ricostruzioni): censire, schedare ed archiviare i dati di una popolazione di milioni di persone.
La questione non riguardava unicamente i dati finalizzati all’internamento: aveva anche una finalità più concreta, ossia la “tracciabilità” dei beni confiscati.
L’Olocausto, in altri termini, è stata la prima occasione della stria in cui i big data sono stati impiegati per l’identificazione nei censimenti, nelle registrazioni e nei programmi di tracciamento degli antenati, nella gestione dei trasporti (delle ferrovie in particolare) fino all’organizzazione del lavoro nei campi di concentramento.
Hate speech e antisemitismo online
L’antisemitismo è, purtroppo, un fenomeno radicato nella società europea da tempo immemore e, certamente, almeno dal medioevo.
Ancora oggi, peraltro, si assiste al triste spettacolo di negazionismo della Shoah; la “disputa”, però, si è spostata dai canali tradizionali ai social network.
- La Germania, recentemente, ha preso in considerazione l’ipotesi di bannare l’app Telegram, perché favorirebbe la circolazione di fake news ed hate speech, data l’assenza di filtri di censura (fonte: euronews.com).
- In Francia, il 20 gennaio 2022, Twitter ha perso la causa, pendente avanti alla Corte d’appello di Parigi, sulla tracciabilità dei dati degli utenti che praticano l’hate speech (fonte: Reuters).
- Sul la scia di USA e UK, anche la Francia sta imponendo un sistema culturale in cui razzismo ed antisemitismo vengono vietati e censurati e non considerati semplici opinioni liberamente esprimibili.
Hate speech non il solo male
Dal Secolo breve all’epoca dei big data è stato davvero un attimo.
Ciò che fa più impressione è come senza un sistema di schedatura personale il Terzo Reich non avrebbe potuto essere così efficiente nell’operare la Shoah.
Oggi, con la tecnologia disponibile, unita all’intelligenza artificiale, i campi di concentramento e sterminio potrebbero essere gestiti da algoritmi, con un apporto umano minimo.
Per questo è necessario preservare la memoria e comprendere appieno l’enormità di quanto accaduto in passato, rendendoci ben conto che potrebbe essere nulla rispetto a quello che ci riserva il futuro, se non lo custodiremo.
L’hate speech è il soffio che genera la tempesta di odio che può far creare le condizioni propizie per un genocidio, ma non è il solo male da combattere.
Il problema della censura
La censura non è mai stata una soluzione e la storia lo insegna: solo una cultura veramente inclusiva, che veda nel rispetto e nella tolleranza le proprie fondamenta può consentirci di lasciar andare la pesantissima memoria dell’Olocausto.
Ogni forma di contrapposizione violenta dovrebbe essere, prima di tutto, compresa e riportata sui binari del dialogo.
Ma il vero dialogo deve essere il luogo di incontro di differenze, per renderle ricchezza e fonte d’accrescimento.
Lo scontro verbale muscolare, anche esteticamente apprezzabile sul piano intellettuale, che abbia come fine l’ottenere ragione sulla tesi opposta, senza lasciare spazio alle ragioni della controparte è, a tutti gli effetti, odio.
Solo che non viene censurato: ma pone le stesse premesse del più “basso” hate speech.
Nel frattempo possiamo goderci la censura degli algoritmi dei social network che, mentre ci schedano in diretta, censurano innocui post contenenti le foto storiche della corazzata “R.N. Littorio”, perché il termine rievoca scenari politici legati all’hate speech.
Se la Memoria ha un senso, quindi, questo deve essere individuato nella critica, vigilante cittadinanza attiva, su ogni fronte, per prevenire ogni discriminazione ed ogni compressione delle libertà individuali, siano esse anche di una piccola minoranza.