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Gli algoritmi minacciano il libero arbitrio? Due tesi al confronto

Ci sono studiosi che evidenziano come gli algoritmi riducano il ventaglio delle nostre scelte. Ma altri mostrano che non sono un manipolatore nascosto e sconosciuto; sono diventati al contrario un immaginario soggetto di confronto, con cui gli utenti sanno di dover negoziare, anche se non ne conoscono i meccanismi interni

Pubblicato il 03 Gen 2018

Alessio Plebe

Università degli Studi di Messina

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Algoritmo è un concetto tradizionalmente interno alla matematica e all’informatica, dove trova una precisa definizione dei criteri che deve possedere una descrizione di passi per risolvere un problema, tale da spettare il nome di algoritmo, e un robusto apparato teorico per caratterizzarlo, in termini quali risolvibilità e complessità. Solo nell’ultimo decennio l’algoritmo ha fatto il suo ingresso nella ricerca sociale, inizialmente con una certa timidezza, oramai in modo disinvolto.

Per studiosi come Tarleton Gillespie o Taina Bucher l’interesse per gli algoritmi è per come certi software condizionino l’esistenza di vaste porzioni sociali, in particolar modo quelli denominati da Gillespie public relevance algorithms. Si tratta tipicamente dei software di raccomandazione che mappano le preferenze degli utenti, selezionano le notizie, filtrano risultati di ricerche, gestiscono le interazioni nelle reti sociali. Mentre per informatici e matematici non vi sono giudizi morali riguardo gli algoritmi, al massimo possono essere metaforicamente considerati “cattivi” gli algoritmi computazionalmente intrattabili, per i sociologi una richiesta importante dell’analisi è proprio una valutazione etica sui loro eventuali effetti sociali. Un verdetto particolarmente severo contro gli algoritmi viene emesso nel World Without Mind di Franklin Foer, uscito appena quest’anno e già al centro di un animato dibattito. Il suo quinto capitolo si intitola Mark Zuckerberg’s War on Free Will, che si chiude con un paragrafo dove si legge: algorithms are meant to erode free will [libero arbitrio], to relieve humans of the burden of choosing […].

Il libro conduce una critica serrata ed articolata su diversi fronti alla cosiddetta GAFA (Google, Apple, Facebook, Amazon), e al suo predominio nella gestione di informazione e notizie, la cui unica metrica qualitativa è diventata il conteggio dei click e dei like, e che sta marginalizzando sempre più fonti alternative, quali i media giornalistici tradizionali. Ma l’accusa esposta precedentemente ha ben altra gravità. Infatti, all’idea del libero arbitrio, ovvero di essere padroni delle proprie decisioni, noi umani tendiamo a crederci, e ad esserci decisamente affezionati, pertanto le esternazioni di Foer meritano un’attenta valutazione.

Beninteso, gli algoritmi non sono i primi a far vacillare il libero arbitrio, da tempi immemori ci avevano pensato entità soprannaturali. Edipo re di Tebe ha ben poco arbitrio nell’evitare di uccidere suo padre e procreare con sua madre, se così era precostituito il suo fato; per Lutero anche il Dio cristiano ne lascia bene poco, il Servo Arbitrio.

Senza mettere in gioco divinità o destini sovrannaturali anche visioni scientifiche dell’universo possono includere l’annullamento del libero arbitrio. Tra i primi a pensarlo vi erano Leucippo e Democrito, gli straordinari anticipatori della teoria atomica. Secondo loro i movimenti di queste microscopiche particelle costituenti l’intero cosmo erano dettati da leggi precise e ineluttabili, e noi umani non facciamo certo eccezione. Un’opinione non dissimile da quella che, due millenni dopo, si era fatto Albert Einstein, sulla scorta di una nozione più solida e verificata di cosa fossero gli atomi.

Dei dubbi meno radicali sul libero arbitrio nascono dalla valutazione della pressione esercitata dalle circostanze, di natura fisica o sociale, che di fatto schiacciano il ventaglio di libere opzioni dell’individuo nel suo agire. E’ in questo genere che si colloca l’analisi di Foer sugli algoritmi. Anche in passato queste analisi hanno condotto a ritenere il libero arbitrio talmente limitato da assomigliare alla sua negazione implicita nel determinismo fisico. Sono queste, per esempio, le gravi riflessioni espresse da Leo Tolstoj nel secondo epilogo di Guerra e Pace. Tolstoj critica gli storici, che tipicamente raccontano il passato come risultato di compromessi tra azioni dettate dalla libera volontà, e la necessità imposta dalle situazioni contingenti di tipo economico, politico, personale. Si tratta di una divisione illusoria, nella realtà analizzando la quantità di connessioni e relazioni che sono costitutive nell’agire umano si vede come la necessità sia sempre padrona assoluta.

Negli ultimi anni il libero arbitrio ha vacillato a seguito di alcuni risvolti del progresso scientifico e tecnologico. Eclatanti sono state alcune evidenze neuroscientifiche, iniziate con gli esperimenti di Benjamin Libet in California negli anni ’80, in cui soggetti richiesti di eseguire un movimento in un momento a piacere, avevano contezza di iniziare questo movimento, frazioni di secondi dopo l’attivazione di neuroni che preparavano proprio il movimento. Sembrerebbe quindi che la sensazione di essere padroni di produrre un movimento sia, appunto, solamente una sensazione, costruita dal cervello a posteriori, dopo che una catena di processi elettrochimici lo ha già predisposto. Ancor più impressionanti sembrano i risultati ottenuti pochi anni fa dal gruppo tedesco diretto da John-Dylan Haynes, che usando risonanza magnetica funzionale hanno misurato ritardi fino a ben 10 secondi tra il primo apparire di segnali neurali precursori di un movimento, e il formarsi della consapevolezza di volerlo effettuare.

Pare una conferma sperimentale del determinismo ipotizzato dagli antichi filosofi greci materialisti, con le leggi atomiche di base composte nel produrre fenomeni elettrochimici nel cervello, di cui noi rimaniamo solo ignari spettatori. In realtà la discussione è complessa e aperta, diversi filosofi, come Mario De Caro, suggeriscono prudenza nell’interpretare questi esperimenti, per svariate ragioni, per esempio sull’affidabilità nel fissare il tempo in cui avviene la consapevolezza della decisione.

Soprattutto, vi sarebbe ancora spazio per salvare il libero arbitrio anche dalle assunzioni più radicali sul nostro determinismo, e a maggior ragione anche dal governo algoritmico. Questo spazio si chiama compatibilismo, e fa capo ad una lunga tradizione filosofica. David Hume nel 1748 asseriva che una certa dose di libero arbitrio la possiamo attribuire al nostro potere di agire o non agire seguendo la scelta della nostra volontà, per esempio se siamo in grado di metterci a camminare se lo vogliamo, oppure star fermi se ci sentiamo pigri. Vi sono circostanze in cui parte di questo arbitrio ci è sottratta, per esempio in carcere. Questa linea di pensiero ha continuato a svilupparsi in filosofia fino ai giorni d’oggi, attrezzandosi per affrontare il determinismo neurale. Uno dei suoi esponenti di spicco, Daniel Dennett, ha usato un convincente esempio nel suo Freedom Evolves del 2003. Si supponga che fino a poco addietro la gente fosse convinta che innamorarsi succeda quando si viene colpiti dalle invisibili frecce di Cupido, e chiunque abbia la fortuna di trovarsi in quel felice stato sappia bene di cosa si tratti: amore, Cupido. Un giorno arriva un neuroscienziato che scopre una complessa catena di produzione di neuromodulatori e di attivazioni di circuiti nel sistema limbico che corrisponde precisamente al cosiddetto innamorarsi. Qualche filosofo potrebbe prendere la palla al balzo e decretare che l’innamorarsi è una mera illusione: non esiste nessun Cupido. Le cose non stanno così. Innamorarsi continua ad essere una sensazione reale, e allo stesso modo reale è la sensazione di scegliere coscientemente, anche se la sua realtà neurofisiologica è ben diversa da tale sensazione.

Come detto, il genere di insidia degli algoritmi verso il libero arbitrio non riguarda il determinismo fisico paventato da evidenze neuroscientifiche, la sua configurazione, in senso filosoficamente tecnico, è di una manipolazione mentale. I due generi sono ben più strettamente imparentati di quanto sembri. Il filosofo Derek Pereboom ha elaborato una sequenza di quattro casi di un immaginario professor Plum che uccide la signora White per biechi interessi personali, con un ordine crescente di “manipolazione” esterna. Nel caso più estremo dei cattivi manipolatori gli hanno impiantato, a sua insaputa, un chip nel cervello, radiocomandato dall’esterno, che governa interamente il suo ragionare e desiderare e lo conduce al delitto. All’estremo opposto non c’è nessuna manipolazione, semplicemente il suo determinismo neurale lo conduce, tramite una catena causale di processi elettrochimici ineluttabili, all’omicidio. Come via di mezzo c’è un professor Plum normale che ha però subito un addestramento intensivo al ragionamento egoistico, e quindi inevitabilmente, vista l’occasione di aver un suo tornaconto, non esita a uccidere la povera signora White.

Pereboom è un incompatibilista, ovvero ritiene determinismo e libero arbitrio non conciliabili, e a questo scopo ha elaborato le storie del professor Plum, ma l’interesse in questo contesto risiede nell’aver mostrato continuità tra determinismo e manipolazione, che può ben essere apprezzato invece assumendo proprio un atteggiamento compatibilista. Concediamo che ogni scelta di un individuo sia il risultato ineluttabile di una serie di attivazioni neurali, e degli effetti a cascata che producono nel cervello stesso. A loro volta le configurazioni di attivazioni neurali in atto non possono che essere il risultato dell’esperienza percettiva e introcettiva attuale, su un assetto cerebrale forgiato plasticamente dall’intera storia pregressa di esperienze dell’individuo. Tale esperienza non è mai interamente passiva, ma un continuo compromesso tra l’offerta del proprio ambiente fisico, privato, e culturale, e le scelte che via via effettua l’individuo. Questo vale per esperienze fondamentali della propria identità, come l’educazione, e altrettanto vale per esperienze sui social network e nei motori di ricerca, in cui si viene a compromessi con i fatidici algoritmi.

Non si vuol qui affatto sminuire l’importanza dell’analisi di tipo sociologico sugli algoritmi, e il legittimo allarme che suscitano diversi fattori analizzati da Foer, come la drastica riduzione della molteplicità dei media di informazione e la vertiginosa monopolizzazione dei canali informativi.

Purtuttavia, limitando il fuoco sulla questione del libero arbitrio, non se ne ravvede una drastica minaccia, essenzialmente diversa dalle tante forme di persuasione e manipolazione che sono sempre esistite, e nemmeno sembrano vanificati gli antidoti che gli individui mettono tipicamente in atto nel preservare la loro autonomia. Nel caso del governo algoritmico di Facebook, Google, Twitter e simili, sono questi stessi canali a veicolare i migliori antidoti. In uno studio di Taina Bucher, condotto con una metodica sulla falsariga dell’etnografia antropologica (metodica che lei chiama technography), è emersa una sorprendente consapevolezza da parte di utenti dell’algoritmo di news feed di Facebook, con una varietà di reazioni rispetto all’influenza dell’algoritmo sui loro affetti quotidiani.

Il sentimento prevalente è negativo, di insofferenza sia per inferenze sbagliate dell’algoritmo, che per inferenze corrette ma indesiderate, talvolta di sorpresa per suggerimenti che appaiono aver intuito qualcosa di giusto della propria identità. Indipendentemente dalla polarità dei giudizi, l’elemento interessante è quanto l’algoritmo, soprattutto nel caso di Facebook, sia tutt’altro che il manipolatore nascosto e sconosciuto, è diventato al contrario un immaginario soggetto di confronto, con cui gli utenti sanno di dover negoziare, anche se non ne conoscono i meccanismi interni. Oltre alla ricerca vera e propria, anche libri divulgativi come quello di Foer contribuiranno alla consapevolezza che nel mondo digitale odierno la propria esistenza è un continuo compromesso tra l’offerta degli algoritmi, e la libertà di desiderare e scegliere.

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